Per una pace rivoluzionaria (considerazioni in tempi di guerra)
di Sergio Violante

«Quale diritto ha lo Stato di servirsi dei suoi sudditi per muovere guerra ad altri Stati, impiegando e mettendo a rischio i loro beni e persino la loro vita?». Questa è la domanda che pone Kant, uno dei pilastri della cultura liberale, che denuncia la pretesa dello Stato di trattare i propri sudditi come «piante o animali domestici di sua proprietà, che si possono adoperare, consumare e distruggere (far morire)» (I. Kant, Scritti politici).
È in quest’ottica che parliamo oggi di pace, collocandoci all’interno di un Paese capitalistico, mosso da un’ideologia liberale. In contesti con sistemi economici differenti, la declinazione del concetto di pace potrebbe variare sensibilmente.
Il principio della guerra con tutta evidenza precede storicamente il capitalismo, il quale ne costituisce una delle sue espressioni e che, pur avendo avuto anche funzioni emancipative – si pensi alla rottura con il feudalesimo – mantiene un rapporto strutturale con il conflitto. È quindi nella relazione fra capitalismo e guerra che si svilupperà il nodo centrale del ragionamento, da cui derivano implicazioni giuridiche, storiche, filosofiche, religiose, economiche, sociologiche e scientifiche.
Tecnica e Dominio
Lo straordinario sviluppo della tecnica moderna, intesa come illimitata manipolabilità della realtà senza alcun argine, senza alcun condizionamento, senza nessun riferimento a valori altri che non siano quelli del progresso tecnico e commerciale, ha raggiunto un livello di autoreferenzialità e onnipotenza senza precedenti. È evidente come questo sviluppo sia stato accelerato dalla logica capitalistica della massimizzazione del profitto. Ma oggi dobbiamo chiederci se l’intero percorso della modernità non sia giunto a una crisi irreversibile, che impone un cambiamento radicale per evitare la rovina e costruire un mondo di pace.
A questa crisi contribuiscono inoltre la scarsità delle risorse naturali e il disastro ambientale, ma, soprattutto la perdita dell’uomo come soggetto. Il trionfo del capitalismo, fondato sul primato dell’economia, ha assorbito la realtà intera, riducendo tutti – padroni e operai, ricchi e poveri – a ingranaggi di una macchina produttiva a cui sono soggiogati.
Questo rapporto di dominio col mondo, della cosa sull’uomo, si dispiega oggi in un incondizionato meccanismo di autofinalizzazione, da cui la soggettività è inevitabilmente esclusa.
Siamo di fronte a una forma di neo-feudalesimo tecnologico, dove il potere si concentra in poche gigantesche corporazioni globali. Come sottolinea Yannis Varoufakis, le tecnologie digitali stanno generando un nuovo modello di capitalismo. Questo sistema implica l’espropriazione planetaria da parte di pochi a scapito della maggioranza, con un trasferimento continuo di ricchezza dalle fasce medie e basse verso i grandi gruppi economici, favorito da precarizzazione del lavoro, smantellamento del welfare e distruzione delle piccole e medie imprese.
Per affermarsi, il tecno-feudalesimo ha bisogno di un individuo mutato, ridotto a vivere in un presente perpetuo, privo di memoria, cultura, desideri reali o domande profonde. Un soggetto spoliticizzato, docile, svuotato di inconscio.
La Guerra e il “Sistema di guerra”
La guerra, motivata da religioni, interessi statali o capitali in cerca di nuovi mercati, segue sempre una logica di sopraffazione e dominio. Nel 2024, il numero di conflitti con il coinvolgimento diretto degli Stati ha raggiunto il massimo storico dal 1946.
Se un tempo la guerra era considerata un’eccezione, epilogo di contraddizioni non risolte, oggi è diventata elemento strutturale, permanente, funzione costituente dell’ordine politico e sociale.
È passata da evento di crisi a istituzione, da rottura a fondamento dell’ordine costituito. Che si parli di “guerra preventiva”, “ingerenza umanitaria” o “guerra giusta”, siamo comunque di fronte a un sistema incentrato sul dominio, dove il dialogo e il compromesso sono subordinati alla logica del potere. Ciascun contendente cerca esclusivamente di imporre le proprie ragioni, con il conseguente proseguimento dei conflitti finché non vinca il più forte.
Come scriveva Claudio Napoleoni, «un sistema dove le armi non sono solo strumenti militari di difesa, accessori e subordinati alla volontà generale, ma sono di fatto la massima struttura di potere della società, ciò che ne esprime e determina la vera natura; un sistema dove le armi non hanno solo una funzione militare, ma ancor più hanno una funzione politica; esse di fatto determinano la natura del regime politico, ne producono la costituzione materiale segnano limiti rigidi alle possibilità di alternative e di mutamenti interni al sistema politico, fissano i confini di compatibilità dei suoi rapporti esterni e della sua politica internazionale, si impongono come fonte normativa primaria e architrave del sistema; in una parola, oltre una certa soglia, esse non sono più l’armamento di una società, ne sono l’ordinamento».
La corsa al riarmo che stiamo osservando implica una massiccia riallocazione di risorse verso l’industria bellica, trasformando profondamente le economie nazionali e gli equilibri internazionali. In questa logica, che potremmo definire di warfare, istituzioni neoliberali come l’OCSE prevedono che l’aumento della spesa militare possa generare “crescita economica a breve termine”. È l’idea di “convertire” industrie in crisi (come l’automotive) in fabbriche d’armi. Il costo di questo processo tuttavia ricadrà nel modo più classista e tradizionale sugli strati meno agiati della popolazione attraverso il taglio dei servizi pubblici e l’aumento della pressione fiscale. Un simile modello rafforzerà inoltre la dipendenza dei Paesi più deboli dai grandi produttori di armamenti, accrescendo in un circolo vizioso il dominio geopolitico e fomentando nazionalismi e autoritarismi.
L’effetto oppressivo della guerra colpisce quindi non solo i nemici esterni, ma anche i cittadini, ridotti a sudditi. Le sue macerie – materiali e spirituali – diventano terreno fertile per nuovi conflitti, nuove diseguaglianze, nuove forme di oppressione.
Nel contesto europeo, la guerra non deve nemmeno essere combattuta: basta che sia programmata, con tutto ciò che ne discende in campo economico, giuridico, sociale. Ne è esempio il recente discorso di Mario Draghi al Parlamento Europeo, in cui si propone l’emissione di un debito europeo per finanziare riarmo, intelligenza artificiale e innovazione tecnologica. Un debito da sottoscrivere con il risparmio privato dei cittadini europei, e non con l’intervento della Banca centrale. Il piano “ReArm EU” è stata la pronta risposta della Commissione Europea, sostenuto da una campagna ideologico-mediatica, che punta a legittimare un potere politico sempre più autoritario, che invita i cittadini a “pagare il prezzo della libertà” (Josep Borrel).
Il linguaggio, nel “Sistema Guerra”, è strumento centrale: si moltiplicano le formule eufemistiche come “missione di pace”, “guerra umanitaria”, “intervento preventivo”, che nascondono la realtà fatta di sofferenza, orrore, distruzione. I ceti dominanti, che preparano e promuovono la guerra, non la “parlano”. L’informazione si trasforma in propaganda. I morti scompaiono, contano solo le munizioni, i carri armati, le risorse finanziarie per continuare la guerra. Quando poi la mistificazione non tiene più, come nel caso di Gaza, si aprono inevitabilmente grandi contraddizioni irrisolte.
Il “Sistema di Guerra”, per funzionare, richiede la militarizzazione della società: il nazionalismo ritorna, l’autoritarismo si consolida. In Italia, con l’emergenza Covid, questo processo ha assunto contorni evidenti. Come dimenticare i sanitari dell’esercito nelle corsie degli ospedali sovraccaricati dai pazienti Covid-19, le tende dell’esercito per il triage fuori degli ospedali, le bare di Bergamo trasportate dai camion militari, i vaccini antinfluenzali somministrati negli ospedali militari, l’esercito a presidiare le strade, i vaccini Covid-19 scortati nei loro viaggi da mezzi militari? Come dimenticare che il Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19 era il Generale di Corpo d’Armata Francesco Paolo Figliuolo? Che i decreti legge emergenziali promulgati in quel periodo limitavano le libertà costituzionali di spostamento e di aggregazione e militarizzavano al contempo le strade delle città? Nel momento in cui si è tentato di “legittimare” pienamente l’uso del militare per gestire ogni funzione civile, occupare la sfera pubblica e assumere il pieno controllo dell’“ordine pubblico” in uno stato di guerra contro il “nemico invisibile”, abbiamo sperimentato pericolose torsioni autoritarie nelle società. Quando si è cancellata la distinzione fra spazio pubblico e spazio privato, quando l’individuo non è più stato padrone del proprio corpo, padrone delle libertà sancite persino costituzionalmente, ecco che, come ha chiaramente spiegato Hannah Arendt, abbiamo compiuto un primo passo verso il totalitarismo.
L’Autodifesa
Una società priva di autodifesa d’altra parte perde identità, capacità di prendere decisioni in modo democratico, natura politica. L’autodifesa tuttavia non è solo legata all’aspetto militare, ma è strettamente legata ai processi di democratizzazione. Guardando al campo occidentale capitalistico un esempio è dato dalla neutralità armata della Svizzera, che si fonda sull’autosufficienza nei settori vitali (energia, alimentazione) e su una efficace difesa puramente difensiva, senza proiezione esterna. La Svizzera costituzionalmente può utilizzare le forze armate per difendere la sua indipendenza e la sua integrità territoriale ma non per far valere interessi che vadano oltre l’autodifesa. Questo fa sì che il Paese non possa aderire a alleanze militari internazionali, come ad esempio la NATO.
Un secondo modello più radicale di autodifesa democratica, che potrebbe essere concettualmente integrato con quello svizzero, è quello del Rojava in Siria, basato su autodifesa diffusa e partecipata. Parti del complesso sistema di difesa sono autoorganizzate (si pensi ad esempio ai feriti e a tutte le persone menomate dalla guerra, che vengono ospitate in centri autogestiti dagli stessi combattenti ospiti per poi essere reinserite nella società), le donne hanno un ruolo centrale, la formazione militare è integrata con educazione politica ed etica. Il sistema si fonda sul rifiuto della logica statale gerarchica, trae forza dalla comunità e si pone sulla scena in un’ottica internazionalista.
Da ultimo, la resistenza curda ha dimostrato che anche contro forze soverchianti – come il secondo esercito della NATO (la Turchia) – è possibile difendere i propri territori e valori.
Qui la forza nasce dal basso, da una società consapevole, solidale, politicizzata.
La Pace come Progetto Politico
Alla luce di tutto ciò, la Pace non può essere intesa solo come assenza di guerra (in ogni caso sempre auspicabile), ma come superamento di ogni forma di alienazione, sfruttamento e dominio. Costruire un’alternativa al Sistema di Guerra richiede un nuovo pensiero rivoluzionario: un pensiero critico, che recuperi la lezione di Marx ma vada oltre l’impostazione classica del conflitto capitale/lavoro.
Possiamo quindi parlare di Pace Rivoluzionaria: una pace intesa come lotta di liberazione.
Ciò implica smascherare le forme del dominio e attuare una trasformazione radicale della società. Come suggerisce Napoleoni, dobbiamo agire sul “residuo” umano che sfugge alla logica della valorizzazione capitalistica. Questo residuo – la parte viva, incorruttibile dell’essere umano – è la leva della rivoluzione, una forza interiore e collettiva che può diventare un fattore politico decisivo. Il compito diviene allora quello di recuperare le soggettività perdute e di mettere in moto un opposto e virtuoso processo verso la Pace.
Un esempio interessante di pace così intesa, che non a caso ha goduto di pochissima attenzione sui principali mezzi d’informazione, è l’iniziativa di pace proposta da Abdullah Öcalan, in Turchia. In un Medio Oriente sconvolto da bombardamenti e annientamento di popoli. Öcalan, dopo una guerra civile sanguinosissima durata 40 anni, dopo migliaia di morti, ha proposto Pace e praticato il disarmo unilaterale del PKK in nome di una rivoluzione democratica tesa al bene comune pur esercitando il diritto all’autodifesa. Un gesto radicale, che dimostra come la pace possa nascere anche nel cuore del conflitto, e che ribalta completamente uno dei principi del pensiero unico, per cui la pace può (e spesso deve) essere raggiunta attraverso le armi e la guerra. Armi e guerra che in realtà distruggono i rapporti, le relazioni, il dialogo. Come scriveva Giovanni XXIII nella Pacem in Terris: «La pace si può costruire solo nella fiducia reciproca.»
Passando ora al “pacifismo”, vediamo che oggi ha perso incisività e appare sempre più marginale politicamente: le bandiere arcobaleno e i gesti simbolici, spesso praticati da chi non ha più alcuna credibilità, non bastano più, anzi risultano talvolta controproducenti per il raggiungimento della Pace. La Pace non può essere trattata come un semplice valore, come suggerisce il pensiero dominante, ma come un principio non negoziabile. Se è un principio, allora nessun mezzo – neppure la guerra “giusta” – può essere ammesso.
Il Pacifismo Rivoluzionario agisce dentro le contraddizioni nei modi più disparati e opportuni, come la diserzione da parte dei renitenti alla leva ucraini o dei refusenik israeliani, l’opposizione civile al regime putiniano, il blocco dei convogli di armi come a Genova e Marsiglia, un’informazione davvero libera, il boicottaggio di prodotti legati alla guerra e all’oppressione, le sanzioni contro interi Paesi e/o singoli criminali internazionali, una piena applicazione del diritto internazionale, oggi piegato e mortificato davanti alla tracotanza delle potenze e degli interessi dominanti. Il Pacifismo rivoluzionario, come visto, è naturalmente connesso a un cambiamento radicale della società, non può esistere all’interno del sistema dominante, deve uscirne, nelle pratiche e nelle finalità. E’ pensiero e agire critico che parte dal basso, che federa in un certo senso le necessità e i temi che partono da territori e luoghi differenti, con il comune denominatore del contrasto al conformismo, all’obbedienza, alla gerarchia; pone interrogativi cruciali sul ruolo e sull’esistenza stessa dello Stato. Il pacifismo rivoluzionario è quindi una pratica rigorosa, che distingue tra fatti e opinioni, tra propaganda e conoscenza, tra narrazioni dominanti e verità plurali.
Infine, mi piace concludere ricordando il gesto di pacifismo rivoluzionario che attuò Rosa Parks nel lontano 1955, che rifiutandosi di cedere il posto sull’autobus a un bianco per ciò finì incarcerata. Come lei ebbe a dire: «Dicono sempre che non ho ceduto il posto perché ero stanca, ma non è vero. Non ero stanca fisicamente, non più di quanto lo fossi di solito alla fine di una giornata di lavoro […]. No, l’unica cosa di cui ero stanca era subire». Ciò che ne è seguito, il percorso che si è compiuto a partire da quel momento di rottura radicale, nonostante gli innumerevoli ostacoli frapposti, è di evidenza lampante.
