La schiava ripudiata

di Barbara Antonelli

Il notaio ci aveva dato appuntamento il trentuno mattina, lasciando intendere che non era possibile rinviare. Zia Rita era morta da un giorno appena.

 

Quando papà aveva chiamato dall’ospedale, mi aveva chiesto di andare a casa di zia a prendere qualcosa per vestire la salma.

Non tornavo a casa sua dalla morte di zio Franco, perché zia non ci faceva più salire. Jera mejo passà n’antra volta, diceva, che la casa jera ‘n casino e lei nun c’aveva gnènte da offrì.

Come si veste un morto, nessuno me l’aveva spiegato. Che ne sapevo che ci voleva l’intimo. Papà aveva detto di non darsi pensiero per la taglia, ché la zia negli ultimi tempi si era gonfiata per via delle medicine. «L’infermiera dice che li vesti li tagliano dietro la schiena, chè tanto drento la vara nun se vede gnènte».

Vestire un morto o un vivo, la differenza sta nel taglio, un colpo di forbice e via l’impiccio.

Dovevo fare alla svelta, ma per via di quella puzza di marcio, avevo spalancato le finestre della cucina e controllato il frigo.

Tamponare gli orifizi per piangere meglio il congiunto, mantenere la bocca chiusa con un supporto sotto al mento.

In bagno avevo tirato lo sciacquone e tappato gli scarichi, ma non era servito granché.

Drenare liquidi organici e iniettare conservanti per restituire un colorito naturale alla compianta.

L’arazzo stava appeso in salone, lì dove aveva deciso il nonno, che era sicuro avesse un qualche valore, perché era tessuto in filati di lana e realizzato da manifattura francese. Raffigurava Abramo con Sara, la sposa incapace di procreare, che gli conduce Agar, la schiava che verrà ripudiata. Sposa, io, non lo ero stata per un soffio e subito ero stata ripudiata.

Avevo esaminato dal primo all’ultimo cassetto del comò, alla ricerca di biancheria intatta. Zia aveva rivestito i cassetti con carta di quotidiano, chè l’odore del giurnà lèva via li bestioli, diceva. Anche se l’inchiostro era dei tempi della guerra, che forse gli insetti li sottovalutiamo, ma sono capaci di rimanere stecchiti a leggere della crudeltà umana.

Avevo rimediato qualche maglia lacera, pantaloni rammendati, bende per il sudario, che zia non buttava niente. Un reggipetto con le bretelle allentate e tre paia di mutande in tutto, bucate e con gli orli slabbrati.

Dalla camera da letto mi ero diretta in fondo al corridoio, verso il ripostiglio che la zia teneva inchiavato.

La lampadina era fulminata e mi ero fatta luce con il cellulare. Al centro, in mezzo ai due carrelli dove zia teneva appesi gli abiti di zio Franco, stava il vecchio inginocchiatoio di nonna e un piccolo altare allestito su un tavolino da tè. Sopra la tovaglietta aveva sistemato ceri, lumini, un paio di crocifissi in ottone, un rosario con le pietruzze colorate e fiori imputriditi dentro vasi di porcellana sbeccati. A uno a uno avevo acceso i ceri e ora intravedevo anche un piattino con residui di cibo avariato, oltre a una ciotola con acqua putrida e larve di zanzara. Un cimitero dentro al ripostiglio. Le fiammelle ingigantivano le ombre che tremolavano intorno a due ritratti, quello di zio Franco e quello di un uomo con la tonaca. Di frati o preti in famiglia però, mio padre non mi aveva mai parlato.

 

A detta del notaio, zia Rita aveva dettato istruzioni molto precise riguardo al suo funerale e papà voleva fare le cose secondo carità cristiana.

«Vista l’entità della cifra» aveva detto il notaio lisciandosi la barba, «avremmo potuto chiudere un occhio sul testamento e metterci d’accordo. Ma mi ha telefonato il parroco».

Io e papà ci eravamo guardati senza capire.

«Mi ha detto di stare attento a come mi comportavo, perché aveva una copia del testamento».

«Scusi, de che cifra stìmo a parlà? Nun ce capìsso» aveva detto papà.

Papà era stato sempre attento a non discutere di soldi in famiglia. Quando si era sposato, la zia gli aveva regalato centomila lire. Papà e mamma ci erano andati al lago di Garda ma, al rientro dal viaggio di nozze, la zia aveva richiesto i soldi indietro. Se trattava de nu prestito, aveva spiegato e papà aveva onorato il suo debito.

«Quale parroco?» avevo detto io.

«Il parroco di Sant’Andrea. Per volontà della defunta, le spese del funerale competono al parroco, ma lui mi ha chiesto di metterle a carico vostro. Mi sono permesso di rispondere che con un milione di euro, una cifra da destinare alle esequie poteva anche rimediarla».

«Quant’è che ha detto? Nu milione?»

Papà era andato in confusione. Stava contando i debiti del negozio. Ci saremmo sistemati una volta per tutte. Avremmo potuto chiudere senza troppi pensieri e liquidare i dipendenti senza brutte figure. Che io a Serra c’ero tornata soltanto per dare una mano a papà in quel frangente, dopo essere andata via per la vergogna. Che pure mia madre era morta dal dispiacere dopo che ero stata abbandonata sull’altare.

Ma l’avevo bloccato subito papà, prima che si illudesse: «Papà, non è per noi il milione».

«No, infatti. Sua zia, la defunta sorella di suo padre, ha lasciato tutto a Don Lavinio Patrone».

«E chi è ‘sto Patrone? Noi ce semo presi cura de lu nonno, che mia sorella belpunto mica lo voleva in casa. Te ricordi che quella vorta che ho deciso de portà la famija in vacanza, ho chiesto a zia de prenderselo in casa, lu tempo che stavamo in campeggio. Che quando semo tornati dal campeggio, zia ce ha presentato lu conto del vino, perché lu nonno nun pranzava senza. Mejo puzzà de vi’ che d’ojo santo!».

«Se posso darvi un consiglio, se mi permettete signori, abbisogna sentire il parroco. Andate a bussare alla porta sua. Chiedete un aiuto, dopotutto la misericordia…»

Ancora il pensiero dei debiti e dei fornitori da liquidare prima che le banche si portino via tutto. Pure la dignità.

Pagare i contributi ai dipendenti prima della chiusura, che papà faceva qualunque cosa pur di non rimetterci la faccia.

Prendersi il nonno in casa ammalato e accontentare la zia che in casa non lo voleva.

Accontentarsi del negozio, perché lei si era presa la casa con l’arazzo dentro.

Accompagnarmi all’altare con l’abito bianco. Che io un dispiacere così grande non lo volevo dare a papà ed ero scappata in città per non pensarci.

 

«Inzomma, me sorella s’è comprata lu paradisu. ‘N lascito pe’ le opere de bene».

«Ecco guardi, mi rimetto alla buona fede del fortunato erede, ma per puntualizzare, se permettete signori, non è un lascito alla parrocchia, ma un lascito personale».

 

Ci ero andata, allora, da don Lavinio. A chiedere di avere indietro l’arazzo, quello della schiava ripudiata. Un cimelio di famiglia, poca cosa, che ci avrebbe dato una mano a liquidare i fornitori.

«Ma certo» aveva detto «lo farò stimare e vi farò sapere il prezzo».

 

E siccome la dignità l’avevo accantonata da un po’ e a me non importava un fico di rimetterci la faccia, dopo il brutto tiro che ci aveva giocato la zia, mi ero decisa a scrivere una lettera.

A Sua Eccellenza Reverendissima, Arcivescovo di Civitanova,

 

mi rivolgo a Lei rispettosamente circa la possibilità di un confronto intorno a un tema delicatissimo e di grandissima importanza.

 

 

2 Commenti

  1. Molto divertente, short fiction fulminante (ho solo qualche perplessità linguistica: è più un pastiche centro-italico che portese di Civitanova)

  2. Il brano mi ha assorbito fino a sentirmi personaggio silenzioso del racconto, scrittura chiara anche con l’utilizzo d’un gergo. L’Io narrante focalizza bene la storia, non c’è enfasi, sembra il ritaglio d’un quadro funerario familiare con tutte le implicazioni legate a dinamiche di famiglia. Niente è inventato, niente è fuori dalla realtà. Bene l’utilizzo del discorso diretto libero.

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Giorgio Mascitelli
Giorgio Mascitelli ha pubblicato due romanzi Nel silenzio delle merci (1996) e L’arte della capriola (1999), e le raccolte di racconti Catastrofi d’assestamento (2011) e Notturno buffo ( 2017) oltre a numerosi articoli e racconti su varie riviste letterarie e culturali. Un racconto è apparso su volume autonomo con il titolo Piove sempre sul bagnato (2008). Nel 2006 ha vinto al Napoli Comicon il premio Micheluzzi per la migliore sceneggiatura per il libro a fumetti Una lacrima sul viso con disegni di Lorenzo Sartori. E’ stato redattore di alfapiù, supplemento in rete di Alfabeta2, e attualmente del blog letterario nazioneindiana.
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