L’insostenibile incertezza dell’età

di Paola Ivaldi
La vecchiaia non sa di più: contiene di più,
e va lasciato traboccare, questo di più,
e che diventi voce.
Chandra Candiani
“Provai uno strano miscuglio di malinconia e di speranza e mi chiesi se un ricordo è qualcosa che hai o qualcosa che hai perduto. Per la prima volta dopo tanto tempo mi sentii placata”. Così termina la sequenza conclusiva del film di Woody Allen “Un’altra donna” (Another woman, 1988) magistralmente interpretato da Gena Rowlands.
La crisi della (tarda) mezza età femminile coincide quasi sempre con il climaterio e la menopausa, che del climaterio rappresenta il gran finale; infatti Marion, protagonista del film, ha appena compiuto cinquant’anni e – nonostante incarni la classica figura un po’ cristallizzata di donna professionalmente e socialmente affermata dell’upper class newyorkese, alquanto ricorrente nella filmografia di Allen – propone allo spettatore alcuni spunti di riflessione inerenti al discorso su quella “certa età” nebulosa e complessa da elaborare che noi occidentali del XXI secolo ci ostiniamo a voler: definire, perimetrare, gestire e ottimizzare, in precario equilibrio tra aspettative e pretese.
Età di bilanci, età di ricerca di nuovi equilibri, età – per tornare alle parole di Marion – di malinconia e speranza. Età irta di ostacoli, ma anche generosa di snodi di maturazione. Un periodo della vita scandito da cangianti incoerenze e contraddizioni in cui ci pare di vedere il mondo attraverso un caleidoscopio, come se tutto andasse clamorosamente in mille pezzi. E a volte succede proprio così, la nostra tranquillizzante routine va in frantumi: perché ci si separa dai propri partner, perché i figli escono di casa, perché i genitori si ammalano e poi muoiono, perché ci sembra che gli amici siano lontani, che non ci si capisca più, che il comunicare si riduca alla messaggeria virtuale, che i rapporti si dematerializzino, lasciandoci alle prese con un crescente senso di solitudine e smarrimento. In aggiunta a tutto ciò ci troviamo a dover affrontare, in quanto donne, la nostra ultima straordinaria tempesta ormonale il più delle volte scoprendoci sole al timone.
Tra pochi mesi compio sessant’anni e inizio a scorgere in lontananza, ma in rapido avvicinamento, la vecchiaia che, al momento, non mi spaventa. La menopausa è alle spalle da tempo e, come la Marion del film, mi sento placata.
Nutrivo delle aspettative rispetto al libro di Gloria Origgi La donna è mobile. Filosofia della menopausa, ma devo ammettere che una volta giunta al termine della lettura mi sono accorta di provare una lieve delusione, più che altro un senso di perplessità rispetto alla visione filosofica dell’autrice. Vorrei tentare di spiegare perché nella speranza di offrire un modesto contributo al dibattito pubblico su un tema così complesso, intimo, delicato, ma al contempo universale e naturale.
L’interrogativo più ricorrente nel volume di Origgi, il cui merito è senz’altro quello di fare luce sul processo trasformativo del climaterio, sembra essere: chi è la donna dopo la menopausa? E la risposta che più di ogni altra parrebbe stare a cuore all’autrice è che la donna dopo la menopausa non è vecchia. La donna dopo la menopausa diventa, secondo Origgi, adulta. La stessa filosofa scrive che l’obiettivo del libro è quello di mettere in questione il prisma “menopausa-vecchiaia”. E questo suo intendimento non sfugge neanche a una lettura distratta poiché in un centinaio di pagine il concetto che menopausa non significa vecchiaia viene esplicitato e ribadito più e più volte, forse troppe volte per non destare il sospetto che il vero tabù, più che la menopausa, sia proprio la vecchiaia.
Prima perplessità. È lecito tracciare dei confini in un territorio come quello dell’età se non procedendo per grossolana e arbitraria approssimazione, rischiando poi anche di assumere atteggiamenti di negazionismo anagrafico? E ancora mi chiedo: è davvero così importante stabilire chi sia una donna in fase post-menopausa? Non potrebbe rivelarsi l’ennesima gabbia in cui rinchiudere noi stesse, intonando in un coro stucchevole e un po’ ipocrita che siamo: rinate, più forti, più belle, più vere, più libere di prima? Sempre questa spasmodica rincorsa al “di più”, come se non ci si accontentasse mai di vivere la vita per quello che è, senza pretese di continue performance, garanzie, risarcimenti e sempiterni upgrade. A mio modo di vedere il rischio di cadere in una trappola, seppure inconsapevole, è concreto perché ognuna di noi diventa solo e semplicemente sé stessa, seguendo una propria personalissima evoluzione, facendo come può, il più delle volte arrangiandosi con i mezzi, materiali e intellettuali, di cui dispone. In linea di massima sto scoprendo, invecchiando, che il “di meno”, adottato come claim a cui intonare il proprio stare nel mondo, è assai meglio del “di più” tendenzialmente compulsivo, edonistico, egocentrico.
Mi pare poi assai discutibile sostenere che la menopausa non vada confusa con la vecchiaia, appellandosi all’aspettativa di vita media della donna nei Paesi occidentali. Origgi dice, in buona sostanza: quando entriamo in menopausa abbiamo ancora davanti a noi trent’anni. L’autrice evidentemente non tiene conto che quel trentennio non presuppone un fermo immagine di come siamo a cinquanta, ma ci vede incamminate lungo un inevitabile declino che, oltre a implicare i nostri personali problemi di salute legati alla senescenza, ci espone alla perdita delle persone care, magari a situazioni di precarietà economica, di erosione graduale di autonomia. Insomma, la vita ordinaria, per le persone comuni.
Dunque non basta dire: abbiamo ancora trent’anni davanti a noi quindi non siamo vecchie. Occorre interrogarsi sulla qualità e sulle prospettive di vita che ci attendono nell’arco di quei tre decenni. Bisogna fare i conti con un Servizio Sanitario Nazionale (SSN) che versa nelle penose condizioni che conosciamo. Nella nostra società già poco dopo i sessantacinque la multimorbilità è un fenomeno in drammatico aumento che va progressivamente deteriorando le condizioni di vita degli anziani. Affermare che dopo la menopausa non siamo vecchie perché possiamo ancora contare su una sorta di potenziale bonus esistenziale di un trentennio dice solo una piccola parte di verità e anche un po’ distorta. Perché se è vero che esistono donne che ancora in là negli anni si godono, in forma smagliante, un proprio buen retiro in qualche location esclusiva, in affettuosa compagnia di consolidati partner, amanti occasionali, famiglie queer, gatti, cani, pappagalli, e si divertono con le amiche a scambiarsi i sex toys, confidandosi in tono similadolescenziale ardite prodezze erotiche, ebbene se esistono queste donne dovremo pur dire che rappresentano una sparuta minoranza. Per noi altre, comuni mortali, la vita dai cinquanta agli ottanta, il più delle volte, è a dir poco impegnativa, assai spesso piuttosto grama.
Sostenere poi che le donne in menopausa sono all’apice della carriera e quindi: evviva evviva, altro che vecchie! mi pare un’affermazione che denota una visione edulcorata ed elitaria della faccenda perché per la maggior parte di noi si tratta, invece, di un periodo in cui anche sul piano professionale ci si sente gradualmente in difetto di allure visto che quasi tutti i lavori sono svolti tramite il ricorso esclusivo alla tecnologia che pretende, da chi non svolga ruoli apicali e dunque non possa delegare niente a nessuno, una sempre più rapida capacità di apprendimento e di esecuzione, richiede velocità, competenze informatiche. In questo scenario sì che ci si sente vecchie, lavoratrici vintage, non più portatrici di un sapere, l’antico know-how che fino a quindici, vent’anni fa poteva avere ancora un qualche tipo di valore. L’autrice evidentemente ignora che per la maggior parte delle lavoratrici gli anni dai cinquanta in poi non prevedono fulgide carriere o vertiginose verticalizzazioni, ma una sola certezza: la crescente fatica, fisica e mentale, accompagnata dalla sgradevole e inquietante sensazione di una sorta di schiavitù la cui fine (ebbene sì: la fantozziana agognata pensione) è perennemente avvolta nella fitta nebbia di fosche e pessimistiche previsioni previdenziali.
“La paura di invecchiare – scriveva Gustavo Zagrebelsky in un’altra Vela einaudiana di una decina di anni fa intitolata Senza adulti – ha fagocitato anche l’età di mezzo”. E ancora: “Tutto ciò gonfia il tempo della giovinezza talora oltre il limite del ridicolo, ma non ne sopprime la fine. Nel momento in cui arriva, si ha il tracollo.” Ecco. Tra l’altro, se seguitiamo a non accettare l’idea di invecchiare, se non proviamo a elaborarla, la nostra vecchiaia, oltre a mortificare noi stesse, rischiamo anche di danneggiare le generazioni più giovani, finendo per assomigliare ad attempate attrici bizzose che non ne vogliono sapere di lasciare il centro della ribalta e concedere spazio a chi ha diritto di partecipare da protagonista al gioco della vita, di metterla in scena come abbiamo potuto fare noi, a suo tempo. Se non si scardina la deleteria narrazione fiabesca dell’eterna giovinezza le donne avanzano verso il tracollo di cui sopra, con il rischio di apparire più simili a personaggi che persone, evocando atmosfere, tornando ancora una volta al cinema, a metà strada tra il grottesco di Sorrentino e la comica amarezza di Virzì.
Inoltre, pur sottolineando che il suo non è un libro di self-help, Origgi si dilunga in un excursus medico il cui messaggio neanche tanto subliminale sembra essere “più ormoni per tutte”, conducendo il discorso dei possibili rimedi alle sindromi climateriche sui rassicuranti binari della terapia ormonale sostitutiva (TOS): questo è un aspetto che suscita ulteriore perplessità. Forse perché inevitabilmente mi sono soffermata sul ricordo della mia esperienza e di quelle di amiche e conoscenti. Il climaterio per me ha rappresentato un lungo periodo molto tormentato in cui sono stata afflitta soprattutto da drammatici problemi di insonnia e di conseguenza ho subìto una medicalizzazione piuttosto aggressiva che, tuttavia, non ha fatto che peggiorare la sintomatologia altamente invalidante. Come ne sono uscita? Non assumendo più né benzodiazepine né tanto meno gli ormoni, che non tolleravo (udite, udite: non tutte le donne sopportano la TOS, non tutte le donne la vogliono, la TOS), ma semplicemente andando a nuotare in piscina e camminando molto, anche in città. Ho dato retta a una ginecologa illuminata che mi ripeteva come un mantra: attività-fisica attività-fisica attività-fisica, avanti tutta con la produzione naturale di endorfine!
I mezzi per affrontare gli eventi marcatori della vita (e la menopausa senz’altro lo è) sono spesso a portata di mano, ma noi non lo sappiamo, non li vediamo, come se giacessero dimenticati in una zona d’ombra: sono le nostre straordinarie risorse interiori, una strumentazione di bordo a costo zero e priva di effetti collaterali. Per fare solo due esempi: yoga e meditazione; entrambe le pratiche sono state le mie ancore di salvezza in tempi duri, essendo tutt’ora irrinunciabili alleate nella tutela di un benessere psicofisico che tuttavia non do mai né per scontato né tanto meno dovuto.
Mentre invece il fenomeno ancora scarsamente denunciato è il colossale business della menopausa alimentato a dismisura dal panico che monta alle prime avvisaglie climateriche; tra integratori e ormoni, opercoli e candelette, cerottini e creme (nelle costosissime e ridicole declinazioni commerciali: age interrupter, age reverse, global repair ecc.) l’obiettivo commerciale consiste nell’assecondare le donne che vogliono fortissimamente sentirsi e apparire “forever young”. Il foreveryounghismo pare affliggere soprattutto la generazione X. Tremenda paura della vecchiaia che colpisce chi, essendo nato e cresciuto negli anni del benessere, ha condotto un’esistenza tutto sommato facile nella radicata presunzione di poter sempre e comunque scansare le spiacevolezze della vita, tutte: dalla prima all’ultima, che c’è sempre un antidoto, un’app, una bacchetta magica, la lampada di Aladino.
Ed eccoci tutte in fila, smaniose di chiedere lumi, erroneamente convinte che la soluzione sia sempre quella di esternalizzare i rimedi. Oltre ai vari medici specialisti a cui potenzialmente rivolgersi (ginecologi, endocrinologi, nutrizionisti, neurologi, psichiatrici, neuropsichiatri), rispondono all’appello anche gli omeopati, gli agopuntori, gli psicoterapeuti, una galassia di sciamani e incantatori che, senza nulla togliere alla loro professionalità e i cui interventi in alcuni casi possono contribuire efficacemente a lenire e contenere i disagi climaterici, esigono onorari per la maggior parte delle donne sempre più economicamente insostenibili. Questo nel privato. Se, invece, guarda un po’, ci si ostinasse ancora a rivolgersi al SSN i tempi di attesa sono tali per cui è quasi certo che la visita richiesta per problemi legati al climaterio ti verrà fissata quando sarai in post-menopausa.
Altro tema, intrecciato al giro d’affari che attanaglia il climaterio, di cui raramente si parla: lo spietato sessismo del marketing. Avete mai notato, entrando in farmacia, il packaging delle creme intime femminili? Le confezioni riportano in bella vista il problema o il rimedio: Secchezza Vaginale, Lubrificante Vaginale, Lubrificante Sessuale e via così, come fossero prodotti pensati per macchine guaste che necessitano di rabbocco. Senza alcun riguardo. Mentre il Viagra o il Cialis, tanto per dirne due, eh… loro sì che sanno essere discreti, mica leggi sulla scatoletta: Disfunzione Erettile.
Liberiamo la menopausa! Questo io vorrei dire a voce alta. Occorre liberarla innanzitutto da cliché ed etichette. Liberarla dal consumismo, e dalla medicina. Liberarla dalla paura: di stare male, di non farcela, paura di trasformarci e sì, anche di invecchiare. Quest’ultima paura si sconfigge soltanto rielaborando l’idea distorta della vecchiaia e inizio talvolta a pensare anche rifondando la vecchiaia stessa sempre più abbandonata a sé stessa, inascoltata, mortificata ed emarginata. L’ageismo è fenomeno sociale dilagante, ma nessuno lo dice, nella sciocca deleteria convinzione che basti regalare uno smartphone alla nonna per farne una nonna smart, oh yeah.
Orsù, dunque, non spaventiamo le ragazze, le giovani donne e le energiche quarantenni: il climaterio è una storia a lieto fine, diciamolo forte e chiaro, purché sia la storia nostra, unica e irripetibile, necessariamente diversa da quella di qualsiasi altra donna e il cui tracciato sia la conseguenza di scelte informate e consapevoli, compiute in totale autonomia e in piena libertà. Andare in menopausa non è una iattura, ma un inevitabile processo trasformativo, come scrive efficacemente Origgi, i cui effetti collaterali, estremamente soggettivi, molto dipendono anche dal contesto affettivo e socioeconomico in cui la donna conduce la propria esistenza. Lo stesso si potrebbe dire del ciclo mestruale e delle eventuali esperienze di gravidanza e parto: finché alimentiamo il discorso pubblico di vissuti traumatici (nessuno intende negarli, sia ben chiaro, ma non posso credere che siano la maggioranza e che dunque debbano imporsi come la norma) e pretendiamo il controllo sul corpo, rischiamo la deriva ideologica che conduce nel vicolo cieco del rifiuto del corpo.
Insomma, ancora una volta potremmo parafrasare Tolstoj, affermando che tutte le menopause felici si somigliano, ma ogni menopausa infelice lo è a modo suo. L’importante è non drammatizzare, stando con i piedi ben a terra, evitando vittimismi (“a noi donne tocca pure questa!”) che suonano lievemente puerili perché in cuor nostro sappiamo che è proprio nella straordinaria complessità e alterità del corpo femminile che risiede l’incanto della vita che solo noi siamo in grado di custodire e dare alla luce. Questo comporta il “fardello” del ciclo mestruale per decenni, ma direi che in linea di massima ci si riesce a convivere.
Allora buttiamolo via, l’odioso rametto troppo spesso usato per tracciare linee di confine; sentiamoci fiume, lasciamoci scorrere, sapendo che ci aspetta la foce, in quanto viventi siamo destinati a procedere verso il mistero dei misteri. Intanto però sarebbe bello iniziare fin da ora a sincronizzare il nostro tempo di vita con il respiro e da lì, rallentando, ripartire. Non ha poi tutta quella importanza stabilire chi siamo diventate, dopo. Forse, come la Marion cinematografica, siamo semplicemente altre donne.
Se qualcuno mi rivolgesse la fatidica domanda, azzarderei questa risposta: è ormai passato un lustro dalla menopausa e io oggi, per la prima volta nella vita, mi sento innanzitutto umana (oh meraviglia!) e poi, sì certo, una donna in cammino inevitabilmente invecchiata. Ma non so altro e non desidero sapere, l’esistenza rimane un enigma e noi tutti assomigliamo alle nuvole: mutevoli, di passaggio, in rapida dissolvenza.
La vecchiaia che inizio a fiutare e di cui talvolta avverto delicate avvisaglie nel corpo e nell’anima non è un’umiliazione, come sostiene Origgi nel suo volume, piuttosto un percorso a cui si perviene se non capita di morire prima. La cura di sé, non di stampo narcisistico, ma dettata dall’amorevole gentilezza verso la nostra dimora terrena che è il corpo, passa attraverso una inedita forma di accettazione e di tenerezza verso questa straordinaria casa che, per dirla alla Emily Dickinson, è dove siamo. E il dove siamo non è nient’altro che un ingannevole traguardo, instabile, indefinito e impermanente, della nostra traiettoria su questo pianeta, privilegio e incanto che si rinnovano a ogni passo.

cristiano.dorigo@gmail.com