Iroko

di Simone Redaelli

Le mattine che usciamo di casa assieme, è ancora buio. Se è inverno, come oggi, troviamo il furgone pieno di ghiaccio. Io entro e mi siedo al mio posto. Papà apre la portiera del guidatore, mette in moto, e la richiude. Con il “culo” – come dice lui – del disco orario, cioè con la parte seghettata della targhetta blu di plastica che si usa per non prendere la multa, gratta via il ghiaccio dal parabrezza.

Seduto al mio posto, in quella bolla ovattata, che si fa via via più calda, aspetto.

Quando papà si mette al volante e inizia a guidare, nessuno dei due parla. Lui non ha voglia. Neanche io ho voglia. Papà guida benissimo. È calmo e sicuro di sé. In compenso, alla prima o alla seconda svolta, si ricorda della sua agenda. Forse vuole controllare un appuntamento, o segnarsi qualcosa. Allora, mentre tiene il volante, si piega verso il vano portaoggetti. Potrei farlo io. Lui sta guidando e io sono comodo. Ma papà non me lo chiede mai, e io non mi offro. Potrei dire qualcosa, perché tutte le mattine che mi porta al lavoro con lui, la situazione si ripete. Ma non dico niente. Lui appoggia l’agenda sulle mie gambe. E io la tengo, con entrambe le mani. Aspetto. Lui però torna subito a concentrarsi sulla guida. Non mi chiede mai di controllare nulla.

Arriviamo al cantiere prima dell’alba.

Parcheggia il nostro Renault Trafic grigio metallizzato in uno spiazzo. Lo paga 204 euro al mese, perché ha dato un anticipo di 8.374 euro e prevede di chiudere l’acquisto in 59 canoni, il che significa che sarà nostro, a tutti gli effetti, fra poco meno di 5 anni. Ho letto il contratto.

È lungo 5,08 metri, largo 2,28 metri e alto 1,97 metri. Ha le dimensioni giuste perché, se deve posare, nel vano di carico ci stiano almeno 50 pacchi di doghe di legno, che corrispondono a poco più di 100 metri quadri di parquet, oltre alla colla per legno, allo stucco, alla sega circolare, alla cassetta degli attrezzi, e ad altri materiali, in base alle necessità; se deve lamare e verniciare, ad esempio, oltre alla levigatrice e alla carta abrasiva, servono anche le latte di vernice e i pennelli. A volte, lo guardo caricare prima del lavoro.

Oggi, poserà circa 30 metri quadri di iroko. L’iroko si caratterizza per un tono scuro che va dal giallo carico con richiami dorati al giallo bruno, tonalità che tuttavia tendono a scurirsi dopo la stagionatura: il risultato finale è un elegante striato chiaroscuro. Un metro quadro di iroko ha un prezzo che oscilla fra i 30 e i 100 euro, che dipende dallo spessore delle tavole e dalla scelta del legno. Ho sentito papà discuterne con i fornitori.

Una prima scelta presenta fibre orientate e leggere stonalizzazioni, ovvero minime variazioni cromatiche fra tavole della medesima partitura, ma non prevede la presenza di alburno, che è la parte più chiara e più tenera del tronco dell’albero. In altre parole, un legno di prima scelta appare morfologicamente e cromaticamente compatto. Ormai, non lo si trova quasi più.

La partitura per questo lavoro, che in totale consta di 50 metri quadri e che papà porterà a termine fra oggi e domani, gli è costata 3.350,15 euro. Ho visto il preventivo.

Con fatica, faccio scorrere il portellone laterale del furgone e guardo papà afferrare e impilare i primi due pacchi da 15 chilogrammi ciascuno. Quando le sue mani stringono il legno, i suoi denti si serrano in bocca. Quando solleva il peso con le braccia, per un attimo le sue ginocchia cedono.

Sul carrellino portapacchi pieghevole, di colore arancione, uno sopra l’altro, ci stanno due pacchi. Si può provare ad aggiungerne un terzo, ma in quel caso, il rischio che il carrellino si ribalti al primo scossone aumenta.

Secondo un muratore, che oggi m’ha regalato un pacchetto di cracker al nostro arrivo, lo spiazzo dove si parcheggia dista circa 200 metri dal montacarichi che permetterà a papà di portare il materiale al terzo piano della palazzina, dove deve lavorare. Ciò significa che deve percorrere, più o meno, la lunghezza di due campi da calcio. In totale, fra andata e ritorno, farà quasi 30 viaggi, perché oltre al legno, deve portar su anche la colla, la sega circolare, lo stucco e la cassetta degli attrezzi.

Un imbianchino fa un cenno a papà dal terzo piano: il montacarichi è indisponibile. Forse è occupato, oppure è guasto. In ogni caso, l’edificio è ancora sprovvisto di ascensore.

Sono le 8 di mattina, il cielo è luminoso ma senza sole, e papà è già sudato. Un pacco alla volta, sta portando il materiale a mano, su per le scale. Ogni tanto, l’imbianchino scende e lo aiuta. Per portare 25 pacchi di legno al terzo piano di questa palazzina ci vogliono quasi 2 ore.

Masticando i cracker, passo il tempo a guardare il bracco mobile di una gru rossa e bianca che solleva carichi da 990 chilogrammi sotto la direzione di un operaio in gilet giallo. Dietro la gru, c’è un enorme cumulo di macerie che sembra cenere.

L’appartamento è spoglio e le pareti sono bianche. L’imbianchino, quello che ha aiutato papà a portare il materiale nel salotto dell’appartamento, gli dà una pacca sulle spalle e ci dice che lo rivedremo per pranzo.

Restiamo soli.

La palazzina ha un riscaldamento a pavimento. Me ne rendo conto perché l’appartamento è privo di caloriferi. Essendo poco sensibile alle variazioni di umidità e temperatura, l’iroko è un’ottima scelta in questo caso. Si caratterizza infatti per un basso grado di ritiro o dilatazione, a cui corrisponde un’ottima stabilità. Ideale per questo genere d’interni.

Papà inizia a stendere la colla sul massetto, ossia sul fondo del pavimento del salotto, che è in cemento cellulare.

Il cemento cellulare è molto poroso e, a giudicare dal fondo di questo pavimento, qualcuno deve aver già applicato un primer per consolidarne la superficie e renderla omogenea. Deve averlo fatto papà ieri, mentre io ero a scuola.

Papà stende la colla a mano con una spatola dentata e poi la copre con una tavola di legno. Per posare 15 metri quadri di pavimento deve restare inginocchiato per 3 ore di fila camminando carponi.

Ci ho provato anch’io, imitando papà. Dopo 5 minuti, iniziano a formicolarmi le caviglie. Papà è da un mese circa che non sente più un paio di dita del piede destro, le articolazioni sono andate, o almeno così dice lui. Dopo un’ora di lavoro, inizia a toccarsi la parte bassa della schiena. Accenna una pausa. Dopo 3 ore, dentro i pantaloni, le gambe gli tremano.

Verso l’una qualcuno chiede se può entrare. Lui dice di sì. Ha appena steso un telo grigio su una zona del salotto dove non ha ancora posato. Ci siamo seduti per pranzare. L’imbianchino, e quello che dev’essere il suo giovane apprendista, ci imitano.

“Quanti appartamenti devi fare?” gli chiede l’imbianchino.

“Solo questo” risponde papà, mentre apre una busta confezionata di prosciutto cotto, se la adagia sulle gambe, e inizia a riempire un panino, “a meno che non mi richiamino. E voi?”

“Idem” dice lui.

Guardo la pelle intatta, morbida e priva di calli delle mani del ragazzo, le unghie pulite. Poi gli chiedo: “Quanti anni hai?”

Mi sorride. “Diciannove.”

Indossa una salopette da lavoro con poche macchie di tinteggiatura, un paio di scarpe antinfortunistiche quasi prive di graffi.

“Da quanto tempo fai questo lavoro?”

L’apprendista guarda il suo mentore, forse cerca di ricordare. “Due mesi?”

“Sono due mesi, due settimane e tre giorni” dice l’imbianchino. Poi tira fuori da un tascone laterale della sua salopette un coltellino svizzero e inizia a tagliare una mela. Mi allunga uno spicchio.

“Appunto, sono due mesi” ribatte l’apprendista, sorridendo e dando di spalla all’imbianchino.

L’imbianchino non dice nulla.

“No”, dice papà, gettando la busta vuota di prosciutto in un sacchetto. “Sono due mesi, due settimane e tre giorni.”

Il pomeriggio è come la mattina. Papà riprende da dove si è interrotto. Stende la colla sul cemento cellulare con una spatola dentata e poi la copre con una tavola di legno.

Con la sega circolare taglia le doghe che fanno ad angolo, quelle in prossimità delle pareti: usa una matita da lavoro, di quelle spesse, con la punta enorme, per segnare la riga di taglio. Per farlo, si mette gli occhiali da vista, che pendono sempre dal suo collo, sorretti da un cordino in plastica. Poi aziona la macchina, e con fermezza avvicina la doga, tagliandola dove previsto.

Quando taglia le doghe, papà è molto concentrato, sembra pensarci sempre due volte. Ma non pensa a dove ha tirato la riga, a dove deve tagliare. Quello è mestiere, è automatico. Pensa alla lama rotante a qualche centimetro dalle sue dita. Pensa a cosa sta facendo.

A ridosso del muro perimetrale, bisogna sempre lasciare un giunto di dilatazione di 8-12 millimetri, ossia uno spazio vuoto non coperto da parquet, per consentire il ritiro o la dilazione del legno ed evitare che, nel tempo, si deformi o si imbarchi. Ad appartamento finito, il giunto non è mai visibile, perché viene coperto dal battiscopa. Può capitare, anche se con papà succede di rado, che a ridosso del battiscopa si arrivi un po’ corti con l’ultima doga. Per coprire i buchi, e in generale eventuali imperfezioni della partitura o della manodopera, si applica uno stucco dello stesso colore del parquet appena posato.

Questo appartamento consta di 150 metri quadri calpestabili. 20 metri quadri sono di balcone, dove mi ritrovo adesso, perché oggi ho già osservato tutto quello che c’è da osservare, ho imparato tutto quello che c’è da imparare. Il balcone dà sulla ferrovia, fra Milano Porta Romana e Milano Tibaldi: siamo proprio al centro di un enorme cantiere dove sta nascendo un nuovo complesso residenziale. Ho origliato una discussione fra un ingegnere e un geometra: è previsto che costruiscano cinque palazzine. Una l’hanno già tirata su. È quella in cui ci troviamo io e papà. Un’altra è ridotta a scheletro di cemento armato. Le restanti sono ancora ferme a cumuli di terra e ampi spazi vuoti, proprio qui, sotto ai miei occhi.

Alle quattro, la giornata di lavoro è finita. Bisogna raccogliere i cartoni vuoti dei pacchi di legno. Ma per quelli ci vuole poco: durante la giornata, ogni volta che un pacco finisce, papà apre il cartone e, insieme alla plastica che lo ricopriva, lo getta in un punto dove non deve posare. A fine lavoro, la pila è pronta per essere raccolta. Poi si devono recuperare i pezzi di legno scartati e abbandonati, spazzare e raccogliere la segatura, portar via i barattoli di colla vuoti. Bisogna sempre lasciare il posto pulito e in ordine. Domani, papà tornerà a finire il lavoro.

Sul furgone, mentre guida verso casa, sembra contento. Guidare a fine giornata, per papà, è rilassante. E a volte accende la radio. Spesso però arrivano delle telefonate di lavoro, e lui risponde in vivavoce o con gli auricolari. Quando parla con i clienti è calmo, preciso, di buon umore. Se deve segnarsi un appuntamento sul calendario, ancora una volta, come accade tutte le mattine, si ricorda di aver lasciato l’agenda nel vano portaoggetti. Si allunga, la prende, ma non smette di guidare. Me la mette sulle gambe, io la stringo con le mani. Al telefono risponde sì, certo, la settimana prossima va bene, oppure domani ho un buco verso le tre. Ma non mi chiede mai di segnare qualcosa. Non l’ho mai visto fermarsi con le quattro frecce per parlare al telefono.

Sono le sei di sera. Papà si è fatto la doccia, poi si è seduto sulla sedia, in salotto, e si è addormentato. Io invece sono pieno di energie.

“Papà, andiamo a giocare?”

Silenzio.

“Papà, dormi?”

“Va bene” dice lui, con un tono un po’ impastato, “sono sveglio. Non sto dormendo. Vai a metterti la giacca.”

In cortile, prova a parare i miei tiri. I suoi movimenti sono lenti, macchinosi. Quando fa un piccolo scatto per recuperare il pallone, fatica a sollevare i piedi da terra. E quando si rialza da sotto una siepe con il pallone in mano, riesce a malapena a tenersi dritto.

Dopo cena, papà siede alla scrivania, davanti al computer. Mette ancora gli occhiali. Risponde alle mail di lavoro. Sistema le fatture.

Io, invece, vado a letto. Per me, si è fatto tardi.

 

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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