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E qualcosa rimane

di Gianluca Veltri

A quel tempo era un ragazzo.

Improbabile che giocasse a ramino, ancor più che fischiasse alle donne.

Stava componendo, con pazienza e incoscienza, il proprio alfabeto. Non esistono alfabeti che nascano dal nulla: un palinsesto espressivo è sempre un puzzle di esperienze, magari anche inconsapevoli, di incontri e reminiscenze.

Cohen, Drake, Dylan, De André, le musiche tradizionali popolari, la poesia del Novecento, l’amore e la politica, Pasolini, la beat generation.

In uscita da una nicchia indecifrabile, con l’inatteso successo radiofonico risalente a qualche anno prima (Alice) e una reputazione che si andava consolidando – a detta di molti – come sempre più “ermetica”, Francesco De Gregori licenzia all’alba del 1975 il disco della vita. Quello che si indicherebbe a occhi chiusi, se si fosse costretti a scegliere una cosa, una soltanto, tra le tante che ha fatto.

Il disco esce nella stessa temperie di Volume 8 di Fabrizio De André e addirittura contiene una stessa canzone, Le storie di ieri, un brano di De Gregori risalente già alle sessioni del suo disco precedente (noto come “La pecora”), dal quale era rimasto escluso. Il ragazzo e il maestro avevano lavorato al disco nuovo di quest’ultimo, nella tenuta gallurese di De André. Strana collaborazione, quella tra i due: pare non si vedessero molto, anzi quasi mai, e che, mentre l’uno scriveva, l’altro dormiva e viceversa, e che si lasciassero appunti e idee che poi l’altro arricchiva e a volte completava.

Apprendistato per De Gregori, rivitalizzazione per De André.

Dopo aver lavorato nella bottega del pigmalione, il ragazzo – che “ha una voglia strana in fondo al cuore, che nemmeno lui lo sa, se sia paura oppure libertà” – mette a punto un album nuovo, tutto suo. Ha lucida contezza di cosa ha combinato, e del fatto che i nove diamanti scheggiati di quel vinile diventeranno altrettanti piccoli mondi, isole nella corrente a sé stanti, dentro un mondo che cambia in mezzo secolo? Canta ride e stona, e ruba. Amore e furto, sì, perché “Buonanotte fiorellino” altro non è che una sorta di Winterlude di Bob Dylan – apparsa su New Morning qualche anno prima – rivisitata, e De Gregori non ancora Principe ammetterà di non essere mai stato tanto vicino al plagio come in quei due minuti; e il testo di Piccola mela è tratto a piene mani da una canzone popolare sarda. Furto artistico sia chiaro. Sa pescare con maestria, De Gregori, e tutto fa suo, imprimendo un marchio espressivo che sarà per sempre riconoscibilissimo. La ceralacca di quel timbro, che da allora in poi sarà per sempre “degregoriano”, si trova nei solchi di Rimmel.

E qualcosa rimane, di quel fascio di luce, di quelle pagine che sono soltanto chiare, e manco una scura? Certamente, la poesia non muore mai. E anche se Rimmel è un disco di musica, c’è lì in mezzo a quella mezzora scarsa tanta poesia, o se preferite poeticità. Una mezzora, grosso modo quanto Pink Moon di Nick Drake: anche lì si trattava di un terzo album cruciale (e purtroppo ultimo, in quel caso), destinato a coniare un canone; e, volendo continuare a giocare con l’importanza del Terzo Disco, più o meno anche la smilza durata di Sulle corde di Aries, incredibile capolavoro di Franco Battiato apparso due anni prima, che tracciava ben altre pionieristiche traiettorie. Se un artista riesce a condensare in modo così lapidario la propria poetica, vuol dire che ha trovato la cifra esatta della propria espressività, che i conti gli tornano alla perfezione.

In Rimmel ben tre brani dell’album restano sotto i tre minuti, e soltanto due superano i quattro – i due episodi più politici, Pablo e Le storie di ieri. A testimonianza che molto spesso l’impegno non va d’accordo con la sintesi, qualunque valore si voglia dare a questo dato? Va detto però che è una pregevole coda di sorprendente sapore jazz, a opera del sassofonista Mario Schiano, ad allungare Le storie di ieri, una canzone che dà conto della persistenza del fascismo – il fascismo eterno di Umberto Eco, si direbbe – nel sentire profondo della nostra società.

De Gregori sembra mettere in atto musicalmente, un decennio prima, un significativo estratto delle non ancora codificate Lezioni americane di Calvino: brevità, coerenza (stilistica), esattezza, (apparente) leggerezza. A causa della presunta leggerezza – opposta alla pesantezza dell’impegno militante preteso – il cantautore comincerà a diventare inviso a un pubblico che lo vorrebbe organico, vessillifero di istanze politiche inequivocabilmente etichettabili, schierato.

In questo senso, il ritornello di Pablo sarebbe semplicemente perfetto:

Hanno ammazzato Pablo:

Pablo è vivo.

E pazienza se, nel testo, Pablo non sia il “compagno” spagnolo, e che bisogni accontentarsi del “collega” spagnolo. Ma lo slogan diventerà funzionale per i tempi. Verrà purtroppo utilizzato ben presto, con la semplice sostituzione del nome, per commemorare il povero Pietro Bruno, il diciottenne di Lotta continua della Garbatella ammazzato dalla polizia durante un attacco all’ambasciata dello Zaire per l’autodeterminazione dell’Angola. Un raid che doveva avere solo un valore simbolico e dimostrativo, organizzato dal futuro scrittore Erri De Luca, all’epoca leader di Lotta continua, che confesserà per sempre enorme rimorso per l’accaduto.

Peccato che, nei solchi del vinile, a Pablo, che regala uno slogan barricadero, faccia seguito l’imperdonabile valzer musette di Buonanotte fiorellino, che sciorina versi pieni di languore:

Per sognarti, devo averti vicino,
e vicino non è ancora abbastanza.

Buonanotte, buonanotte, monetina

Uno sgarbo perfettamente voluto da De Gregori, che rivendicava il diritto artistico della libertà espressiva, della scelta dei temi e dei toni, anche se ciò poteva comportare un completo abbandono amoroso. È questo versante che apre la strada verso una concezione di De Gregori “borghese” e disimpegnato. Il giornalista Giaime Pintor, sulla rivista Muzak, definisce De Gregori kitsch e melenso, avvicinando i suoi versi ai pensieri che si trovano nei baci Perugina e ai romanzi sentimentali di Liala, quintessenza di mielosità. La divaricazione porterà nel giro di un anno alle pesanti contestazioni subite dal cantautore al Palalido di Milano, a opera di gruppi della sinistra extra-parlamentare. Verrà sottoposto a un violento e traumatico processo – ma forse sarebbe più esatto definirlo una vera e propria aggressione –, accusato di non occuparsi abbastanza della rivoluzione, dei “compagni” e degli operai, e di pensare soltanto agli incassi dei suoi concerti.

Ma Rimmel è anche Pezzi di vetro, Quattro cani, destinate a diventare impegnativi banchi di prova per i chitarristi da falò: nel disco le chitarre sono suonate tutte dal bravissimo Renzo Zenobi; e poi la “santa voglia di vivere” dell’immortale title track, e lo “zingaro” che ha fatto le carte ma è “un trucco” – oggi non si potrebbe dire né cantare più un verso del genere, non sarebbe abbastanza woke.

E ancora, il pianista di Piano bar, che non è Antonello Venditti: una delle tante leggende metropolitane alimentate da dischi mitici come questo, insieme alla bufala che a lungo volle Buonanotte fiorellino dedicata a una fidanzata morta in un incidente aereo: completamente falso. Invece è veramente dedicata a Marco Pannella Il Signor Hood, un’ariosa ballad di sapore country che ribattezza il leader radicale come il nuovo Robin Hood. Senza alcuna co-militanza, ovviamente; anzi, com’è scritto nel sottotitolo in retrocopertina, “con autonomia”.

 

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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