Descrivere non è occupare
di Massimiliano Manganelli

Il testo di Daniele Barbieri su La scuola delle cose ha il merito di prendere sul serio gli interventi raccolti nel numero curato da Marco Giovenale; ha però il difetto, tipico di una certa tradizione polemica, di leggerli come se fossero il manifesto implicito di una nuova avanguardia. Ne risulta una discussione che attribuisce agli articoli – in particolare al mio – intenzioni normative e rivendicazioni di centralità che in essi semplicemente non compaiono.
Quando si parla di scritture di ricerca o di scritture non assertive non si sta occupando un territorio. Si sta tentando, più modestamente, di descrivere il funzionamento di alcune pratiche testuali. L’idea che ciò comporti una «retorica dell’esclusività» – con tanto di analogia bolscevica – dice più sul modo in cui continuiamo a pensare il campo letterario in termini di avanguardie e retroguardie che non sugli oggetti di cui si discute.
Anche la critica alla nozione di non assertività nasce da un equivoco. Non si tratta di una categoria vaga, sovrapponibile alla semplice apertura interpretativa (che riguarda, com’è ovvio, molta poesia di valore), ma di una nozione pragmatica. Non assertivo non significa interpretabile in molti modi, ma privo di mandato interpretativo. La differenza è pragmatica, non ermeneutica.
Il richiamo a Opera aperta di Eco, spesso evocato per liquidare queste posizioni come “già viste”, rischia di mancare il punto. Che ogni opera richieda cooperazione interpretativa è cosa nota da decenni; meno noto è ciò che accade quando la cooperazione non è più un effetto, ma una condizione di esistenza del testo. Non è un’intensificazione dell’apertura, è uno spostamento di piano.
Quanto all’esempio Arminio/Zaffarano, brillante ma fuorviante, il problema sta nel confondere testo e regime di funzionamento. Non è la stessa sequenza verbale a cambiare senso perché cambia il nome in copertina, è il dispositivo di lettura a essere diverso.
Sul tema dell’io, infine, il discorso di Barbieri arriva paradossalmente a confermare ciò che contesta. Se l’io è sempre una costruzione, un «teatrino pronominale», allora la sua riduzione non è un programma ideologico, ma un dato tecnico. Il problema dell’io non è morale né ontologico: è operativo. Trasformarlo in una bandiera – in un senso o nell’altro – significa spostare la questione fuori dal testo.
In conclusione, il testo di Barbieri polemizza con un’avanguardia che nessuno ha proclamato e smonta un programma che nessuno ha formulato. La ricerca non ha padroni, certo. Ma non per questo smette di produrre pratiche riconoscibili, dispositivi leggibili, modalità di funzionamento che possono essere descritte. Farlo non significa occupare il campo. Significa, più semplicemente, provare a capirlo.
