La Spada

Immagine generata da AI

di Silvano Panella

La villa era composta, silenziosa, non ostentava il disfacimento del lutto improvviso, era governata come in un giorno qualunque e in effetti, se non si fosse indagato negli animi di chi sapeva, sarebbe davvero risultato un giorno qualunque. Stavo per suonare il campanello ma la porta era socchiusa. La spinsi, entrai nel grande atrio della villa. Sulla scalinata una figura in penombra, fissa e muta, la sorella del mio amico si fingeva statua e tentava di celarsi al mio sguardo pur sapendo che ero un abile osservatore.

Raggiunsi il salone. Sul divano sedeva il colonnello a riposo, il proprietario della villa, il padre del mio amico e della figura sulle scale. Ora stava leggendo un giornale vecchio e consunto – li collezionava. Si volse verso di me e mi oppose un gesto calmo, ampio della mano, finì di leggere, richiuse il giornale in quattro, si alzò dal divano, andò alla scrivania, mi fece segno di avvicinarmi. Sedemmo l’uno di fronte all’altro. Non riuscivo a distinguere la sua espressività, il volto semicoperto dalla barba folta e brizzolata. Sulla scrivania c’era un panno di velluto color ciclamino. L’uomo lo svolse e fece apparire i due pezzi della spada, ebbe uno spasmo di ritrosia e iniziò a toccare la lama, lucida e nettata dal sangue. Dei due, il mio amico aveva utilizzato il pezzo con l’impugnatura per commettere il suicidio.

Immaginavo che l’uomo, in virtù del suo grado, avesse ottenuto il rapporto completo, immaginavo che mi chiedesse i dettagli sfuggiti all’inchiesta, i dettagli più personali e soggettivi, le ultime parole di suo figlio, immaginavo che, per quanto fosse un uomo intelligente, non avesse colto la sottigliezza insita nel suicidio. Ma non domandò nulla. La degradazione dall’esercito non era ancora avvenuta, il mio amico l’aveva anticipata spezzando lui stesso la sua spada da cerimonia. Si era suicidato sia per non sottostare al congedo con disonore sia perché il piano al quale aveva partecipato era fallito, aveva spezzato la spada sia per suggellare la sconfitta con un simbolo di disonore sia perché era più comodo rivolgere verso se stesso una lama dimezzata, la nuova punta era taglientissima. Quanto sapeva del piano il colonnello? Non abbastanza. Il mio amico accennava spesso a quest’uomo così austero e tuttavia ottimista, tanto brillante quanto privo di intraprendenza. Dove nascondeva questa brillantezza d’ingegno? Cercai nei suoi occhi, invano. Mi volsi al salone ricco di dipinti, vasi, giornali. Quei giornali vecchi e ingialliti, impilati, consultati per godimento personale, forse contenevano messaggi scritti a penna da decifrare dopo la sua morte. Ci avrebbe pensato la figlia, abilissima archivista di famiglia.

Non intendevo perturbare quest’uomo trattenuto – sarebbe scoppiato davanti a me, scoppiato in un accesso d’ira fatale, io avrei assistito a due morti, non avrei potuto negare questa duplice coincidenza e ne sarei uscito con una pessima fama. Il mio amico aveva tentato di convincermi a partecipare. Rifiutai. Non avrei potuto fare granché, non ero addentrato nei meccanismi dell’esercito, dell’economia, della vita civile come lui, come la sua famiglia, le sue conoscenze. Inoltre quando appresi i particolari del piano fui investito dalle perplessità. La gente non vi seguirà, la gente si crogiola nella critica all’operato altrui e non intende varcare tale mediocrità, gli dissi.

Quando elencai noti piani finiti male o in farsa, per poco la nostra amicizia non si incrinò. Resistette, e gli fui vicino finché mi fu possibile. Non si trattava del sacrificio per una folla di ingrati, era soltanto un intimo compimento, lo avevo capito e glielo dissi un momento prima che fosse troppo tardi. Dunque le sue ultime parole furono le mie, ci salutammo in strada con un sorriso e lui varcò per l’ultima volta il portone della caserma per mettere fine alla sua esistenza. Riuscii a evitare il clamore mediatico – tra coloro che conobbero il piano e lo rifiutarono, io sono l’unico che non è stato inquisito. Parecchio il sangue, sparso sul mio amico e sul pavimento e sulla lama ora impeccabile. Il mio amico aveva sopportato l’insuccesso del piano senza lasciarsi condurre dall’emozione. Suo padre fu fiero di questa sopportazione. Del suicidio, non so. La faccenda è inesplicabile in poche parole e lascia spazio a continue riflessioni, più ci si pensa, più ci si addentra in meandri inconcludenti.

Il panno di velluto faceva spiccare la lama più della luce della lampada, una luce troppo parziale – allungava l’ombra del paramano a dismisura, rischiarava l’impugnatura d’ebano palesandone le piccole imperfezioni. Questo panno avvolge morbidamente l’affilatura, ne è immune, non si taglia, ciò è assai strano, pensavo. Magari il mio amico si era tramutato in quel panno. Non nella spada, la spada rappresentava l’azione, ora il mio amico era un corpo immobile e un concetto persistente, immutabile, un panno ripiegato su se stesso. Non lo dissi, suo padre non avrebbe capito.

«Ha sofferto?», l’uomo mi chiese.

La sua domanda mi stupì. Il volto in attesa, credevo fosse più insensibile.

«Per un solo, bruciante momento», dissi, vago ma non così lontano dal vero.

L’uomo annuì. Aveva ricevuto la risposta e questo gli bastava. La disposizione del giardino al di là della finestra, il giardino lo ricordavo bene e ora mi bastò un suo frammento di siepi e bagolari, mi suggerì che il suicidio fosse l’inevitabile conclusione per gli abitanti di questa villa. Non una maledizione, piuttosto una corrispondenza di forme. L’uomo non sapeva nulla del piano se non tramite il rapporto che si trovava sulla scrivania, tra me e lui. Un rapporto meticoloso, sì, ma scritto da chi ignorava le aspirazioni dei partecipanti, perlopiù prigionieri per vocazione e memorialisti per scelta. L’uomo avvolse con cura la spada spezzata nel panno e me la porse. Voleva che la tenessi io. Non lo disse. Né io dissi che lo consideravo un onore, che sentivo già di essere affezionato alla spada perché era appartenuta al mio amico, di essere affezionato al panno che l’avvolgeva perché era il mio amico. Presi il fagotto e feci un breve inchino. Lasciai la villa.

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davide orecchio
davide orecchio
Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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