Dove finisce questo teatro inizia forse il mare: su “Il mare nascosto” di Luca Calvetta
di Ornella Tajani
Se è vero che il sud è una regione dell’anima – così splendidamente diceva Ettore Scola –, Il mare nascosto si configura come un viaggio in una Calabria dai tratti sfumati, che per sineddoche diventa uno dei tanti sud del mondo, sintonizzati su una medesima frequenza. Una frequenza che si riconosce, ad esempio, dal contrasto violento tra meraviglie naturali o artistiche e architetture obbrobriose – scendendo lungo la Salerno-Reggio Calabria, così come viaggiando in Puglia o nella Sicilia dell’entroterra, il minimo comune denominatore sono le costruzioni sventrate, gli scheletri di edifici mai portati a termine; paesaggi che restituiscono a chi guarda un sentimento del tempo molto peculiare.
È un sentimento ben articolato in questo primo lungometraggio di Luca Calvetta, liberamente ispirato al Petit prince di Saint-Exupéry; il dialogo fra l’aviatore e il piccolo principe diventa qui uno scambio di battute fra Ascanio Celestini e il giovane protagonista «venuto da lontano»: avatar di un migrante e al contempo incarnazione di molti «senza voce», o di molti «penultimi» (come titola una bellissima raccolta poetica di Francesco Forlani), cioè di personaggi che vivono sulle sponde della storia e che sfilano nel film uno dopo l’altro, offrendo i loro racconti al ragazzo che li incontra. «Non è una vita semplice, la mia. È la vita intera. È tutta la vita possibile», dice uno di loro: bellissima frase, che si potrebbe applicare a qualsiasi vita a patto di riconoscerne il valore, la preziosità che sta proprio nel suo essere paradigmatica.
Il mare nascosto gioca con i generi, mescolando cinema, documentario e teatro (Celestini è spesso ripreso come il cantore su un palcoscenico), mescolando riferimenti letterari (Pasolini ad esempio è citato in maniera diretta e indiretta) e risonanze poetiche, sia nella scrittura cinematografica, sia nella costruzione filmica. La giustapposizione di sequenze pur evocative provoca talvolta delle smarginature nel tessuto complessivo dell’opera, in cui si rileva qualche disorganicità: ma sono smarginature dettate da un’autenticità di fondo, da un regista al suo esordio col lungometraggio che ha voluto seguire senza distrazioni il desiderio di raccontare una storia così come l’aveva immaginata. C’è da augurarsi che anche per lui, come recita Celestini alla fine, «dove finisce questo teatro inizia forse il mare, e il mare non finisce».
