Le parole “mondo” dei Greci

 

ph. Josef Koudelka, Grecia, Tempio di Poseidone

 

di Neil Novello

Noi ritorniamo da dove siamo venuti. L’adagio figura due immagini di un medesimo fenomeno culturale. Anzitutto narra che la «parola», la vivente parola greca, allo scopo di fondarla risale la via della cultura occidentale. E racconta che la stessa parola, ogni qual volta è richiamata in altra lingua da sé, emana un riverbero orientato verso la sua origine naturale. Da una tale parola, che viene dal mondo greco e al mondo greco ritorna, siamo tutti abitati. Soprattutto, la greca è incarnata in noi. Ne siamo posseduti perché è il codice culturale della nostra civiltà, il nome stesso della nostra esistenza quotidiana. Chi allora voglia riandare al suo «cuore» ripercorrendo la virtuosa selezione operata da Giulio Guidorizzi nel Lessico dei Greci (Raffaello Cortina, 2025), in un minimo vocabolario di trenta lemmi, ritorna appunto dove tutto è iniziato, nel luogo in cui nasce la cognizione di occidente.

L’origine, o meglio il nome proprio del nulla prima di ogni evidenza, per la mitologia greca, non per la ionica filosofia presocratica di Talete, Anassimene e Anassimandro, è il cháos. Esso è il primordiale vuoto, l’abissale nulla dell’universo. Qui il silenzio coabita con l’idea stessa di assenza. In tale mancanza, si edifica la realtà mitologica greca. E appare, quale originaria presenza nell’assoluta vuotezza del cháos, già qualcosa di più umano. In origine, il mito è un momento vitale che irrompe e genera un atto di fondazione, di pienezza: Éros. Non si può donare forma di creazione senza l’empito di un’erotica. Anzi, in essa si identifica la fondamentale legge di ogni nascita, così nella storia dell’uomo come nella mitologia primordiale. Appartiene dunque alla storia erotica dell’inizio la vicenda mitologica di Gea, la terra, e Urano, il cielo. Qui la Terra è contenuta in un resto di mondo: la totalità del Cielo. Così il loro amplesso, l’amore desiderante tra il Cielo e la Terra, sarebbe stato eterno se proprio un figlio della Terra, Crono, il Tempo, come racconta Esiodo nella Teogonia, non avesse evirato e dunque estinto la brama erotica del padre. Le «forze primordiali», dunque. E il lessico relativo al mito delle origini. Perché la Grecia, il suo sostrato magico-religioso, ciò che dà luogo a una siffatta visione del mondo, sta nel nome, nella cognizione di inizio.

Dopo il cosmo, viene l’uomo. Così dopo il mýthos viene il lógos. La parte del Lessico riguardante l’«io interiore» è un cammino tra quattro meravigliose parole: psyché, enthousiasmós, manía, óneiros. E psyché, che si può tradurre con la parola anima, richiama un celebre frammento di Eraclito: «Per quanto tu cammini per ogni via, i confini dell’anima non li troverai». L’anima allora sconfina. È la sua natura sia interiore sia esteriore che la fa essere quella che è, anima appunto. Dalla Grecia omerico-arcaica, quella studiata da Gilbert Murray ne Le origini dell’Epica greca, fino al Fedone platonico, a maturare è dunque la cognizione di «vita interiore», qualcosa che con l’anima richiama l’identità «spirituale» dell’uomo. Anzi, a leggere La cultura greca e le origini del pensiero europeo di Bruno Snell, il luogo culturale in cui lo spirito inizia a manifestarsi è la tragedia di Eschilo, il luogo di incontro di due diverse idee dell’infinito, il mitologico e la scoperta dell’interiorità. Così la parola enthousiasmós ci giunge come la reale testimonianza, l’effetto di un fenomeno che si produce propriamente a livello dell’anima. Un «dio entra nel loro corpo» scrive Guidorizzi a proposito delle baccanti del Coro nella tragedia di Euripide. Qui troviamo la radice interiore dell’enthousiasmós, un’essenza divina che viene a risvegliare l’essere, a proiettarlo nel suo stesso infinito. E così si è éntheos, si è in Dio, ciò che nella poesia occidentale durerà fino all’indiarsi di Dante nel Paradiso. L’iniziazione ai Misteri (eleusini, orfici ecc.), con l’obbligato e particolare riferimento ai Misteri dionisiaci, nella Grecia antica traccia dunque la via all’esperienza estatica dell’enthousiasmós. È la via a una condizione di divinità umana. Pure però un’incursione nelle più remote tra le terre ontologiche. La parola greca si presta così a sconfinamenti, deviazioni ed elevamenti, poiché si defila dai centri correnti del significato conquistando inediti spazi immaginari. In tale maniera, si disancora e diverge seguendo alternativi meridiani di senso.

Della «vita interiore» dell’uomo, anzi quale sua espressione perturbante, è anche la manía. Se è vero che Dioniso figura l’anello di congiunzione tra l’«annientamento» e la «rinascita», la parte più catastrofica del dionisiaco richiama l’immagine della «follia» come caduta. Nel Fedro di Platone, una particolare interpretazione della «follia» riguarda il cosiddetto «divino straniamento». La condizione folle, oltre a essere una malattia, è anche qualcosa di più, è essere appunto éntheos perché la manía, lo stato di iniziatica follia, equivale, in termini moderni, a un dérèglement de tous les sens. Non si tratta di afferrare un’idea di deragliamento verso l’astrazione. La parola qui esperisce l’universale perché esprime e rivela un’occulta profondità di mondo.

L’uomo greco, pensatore dell’origine, è anche un infaticabile indagatore del limite. Il luogo di massima attrazione, sia che l’indagine riguardi il mondo materiale o l’immateriale, richiama la forza più dirompente, più annientante della vita: il destino. E nel destino, nel Fato, è inscritto il futuro, proprio il tema del vissuto quando esso balena, come peraltro insegna Eric Dodds ne I Greci e l’irrazionale, nei sogni notturni. L’esperienza onirica greca equivale a un «oracolo personale». Esso richiama un tópos della spiritualità ellenica, la passione consapevole per ciò che viene. Così conoscere il tempo futuro è divinarlo, come si legge nella tradizione greca in Artemidoro, mentre in Aristotele il sogno notturno appare un’entità inattingibile, isolata nella sua realtà fenomenica.

La parola greca ammette una cognizione dell’aperto, anche quando la parola è pólis, la città. Con Díke e nómos, la giustizia e la legge, l’interiore conosce l’esteriore, e la città si salda al più profondo spirito greco. Díke non è la mera giustizia della legge. Un’idea interna alla civiltà greca, già presente in Omero e ancora più in Esiodo, anzitutto la interpreta come legge non scritta. Essa non rinvia solamente al qui e ora. Va al di là di sé stessa. Díke può vendicare l’ingiustizia, può esercitare un’occulta violenza quando il colpevole, l’ingiusto, si macchia di hýbris, di tracotanza. Ciò perché lo stato di colpa (anche se colpevole e colpa non sono nozioni pertinenti), volontario o involontario che esso sia, sta nel non aver addomesticato la violenza della pulsione. Il nome della trasgressione è áte:

Áte è un meccanismo autodistruttivo che opera inibendo la normale lucidità di giudizio e destrutturando gli schemi di pensiero e i codici di comportamento che rendono possibile una corretta vita di relazione. Chi è vittima di áte smarrisce la mente, e lo smarrimento è una forma provvisoria di perdita di coscienza.

L’identità etico-religiosa di áte, che dunque è un formidabile alleato della hýbris, poiché spesso l’invalicabile limite che determina la colpa di hýbris è proprio áte a infrangerlo («Áte porta a hýbris»), di áte come smarrimento della facoltà razionale, evoca, per così dire, un antidoto al suo demoniaco, incontrollabile innesco. Nel Paradiso perduto di Milton, Lucifero esemplifica la colpa di áte. Più in generale, qui si può risalire ad Anassimandro, al suo celebre frammento (nella traduzione di Giannantoni):

Da dove infatti gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità, poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo.

L’idea di díke, come il suo opposto, l’adikίa, ingiustizia, si salda all’idea di thymós come luogo in cui alberga una nuova cognizione. Guidorizzi parla della «consapevolezza di un sistema pubblico di valori», qualcosa di determinato, necessario a controllare l’indeterminato. Ora il tratto comportamentale che separa l’uomo dal commettere hýbris senz’altro è il controllo, la repressione di áte. L’originario antidoto al tremendo accecamento viene proprio da díke e dalla sua coscienza culturale: nómos, la legge. A un primo grado di lettura, l’interpretazione originaria del nómos non riguarda propriamente la legge scritta ma qualcosa che somiglia ai nómina di Antigone nella tragedia sofoclea. Più che altro, esso è un tópos che richiama il sentimento di appartenenza dell’individuo alla comunità (il retroterra della politiké). È la nozione di politiké, concepita come categoria culturale, a proiettarsi nella legge, in un orizzonte in cui la grecità sembra transitare dall’umanità all’uomo, dal singolo (eroe, agonista…) all’idea di comunità democratica.

Anche nel sacro ritroviamo l’identità aperta della parola greca. La móira figura una potenza superiore, perché superiore è la stessa forza degli dèi: móira è il destino. Se essa figura la parte di ciascuno nella vita (parte di ricchezza, parte di gioia, parte di dolore…), móira è anche la parte di vita, la parte di tempo vitale. Accettarla significa compiersi in un destino terreno.

I Greci usano parole anche per fissare la forma dell’essere in azione. La parola ménos indica un semplice aumento di vitalità. Nel mondo omerico fatto di dèi ed eroi, di sovrannaturale e sovrumano, la superumanità eroica appare un tangibile effetto della volontà divina. Proprio come il kýdos, qualcosa di più del ménos. L’eroe che ne è insufflato è istantaneamente ammantato, non di una maggiore vitalità, ma addirittura di un’«aura di invincibilità». Achille, come scrive Jakob Burckhardt in Storia della civiltà greca, è il suo archetipo. E a proposito di Omero, il mondo epico-eroico esprime altri due modelli culturali: il kléos e l’aidós, la gloria e il suo contrario, la vergogna di non essere gloriosi. Una proiezione del kléos, una sua traslazione in ambito sportivo, come ricorda Burkhardt è la cultura della vittoria nell’agón olimpico. A Olimpia, attraverso la prova agonistica, l’atleta partecipa per sconfiggere l’avversario, per primeggiare come un eroe omerico. E l’agonismo olimpico è solo un aspetto di quell’umanità agonale, centrale nella poesia di Pindaro, che riguarda lo spirito greco fino alla fine del VI secolo a. C., spirito che riveste un significato esemplare nell’intera civiltà occidentale.

La parola greca incarna lo spirito greco. La sua ampiezza di significato rimanda a un’origine culturale in cui è possibile cogliere la profondità del mondo, il mondo fisico e il metafisico. E ciò sia nel reale spazio della vita umana sia nel campo della speculazione più immaginaria.

 

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Ornella Tajani insegna all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di critica della traduzione e di letteratura francese contemporanea. È autrice dei libri Scrivere la distanza. Forme autobiografiche nell'opera di Annie Ernaux (Marsilio 2025), Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS 2021) e Tradurre il pastiche (Mucchi 2018). Ha tradotto, fra i vari, le Opere integrali di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato opere di Rimbaud, Jean Cocteau, Marcel Jouhandeau. Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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