La consapevolezza del suolo nella rappresentazione del paesaggio

di Costanza Calzolari

in occasione della Giornata Mondiale del Suolo 2025 pubblichiamo un testo inedito di Costanza Calzolari, scienziata del suolo del CNR, sulla rappresentazione dei suoli nella pittura italiana; lo scritto deriva da numerosi interventi orali tenuti dalla ricercatrice in diverse occasioni a partire dal 2004 e fino al 2022, nel corso dei quali è stato arricchito, limato, corretto

Il suolo è descritto raramente come tale nell’arte figurativa, almeno fino agli anni molto recenti, ma alcune sue caratteristiche e funzioni sono indirettamente riportate nelle rappresentazioni di paesaggio.  Lo sviluppo della rappresentazione di quest’ultimo nelle diverse epoche testimonia il rapporto fra l’uomo e il suolo/territorio e, allo stesso tempo, è fortemente condizionato dall’ambiente storico e culturale.

Il paesaggio come oggetto autonomo nell’arte diventa evidente nell’età ellenistica e romana. La natura tuttavia non è descritta mai nel suo aspetto realistico, mentre la presenza dell’uomo è una costante sia fisicamente che come conseguenza delle sue attività.  Malgrado la scarsità dei documenti pittorici esistenti, l’origine ellenistica della rappresentazione di paesaggio è testimoniata indirettamente dall’eredità nell’arte romana ed in alcuni significativi e begli esempi, come il Mosaico del Nilo dell’antica Praeneste, II secolo A.C., conservato a Palestrina.  In questo mosaico, la valle del Nilo è descritta, con l’ambiente umano in primo piano, nella parte inferiore del mosaico e l’ambiente selvaggio sullo sfondo, nella parte superiore, con le fiere, identificate con i loro nomi e le scene di caccia.  Il paesaggio è riprodotto nel mosaico come una carta geografica animata ed i differenti suoli sono riconoscibili dai loro differenti colori nell’ ambiente naturale.

L’arte romana è ricca di rappresentazioni di paesaggi e della natura, come testimoniato dagli esempi degli affreschi di Pompei, dove il paesaggio è dominato dall’acqua e dal cielo, e dal genere della rappresentazione del giardino, come l’esempio del affresco nella villa di Livia a Roma.

In entrambi questi esempi l’ambiente naturale non è rappresentato realisticamente, ma verosimilmente. Nella villa di Livia  i fiori sono descritti senza considerare il giusto momento della fioritura ma la scena è “mimetica”, potrebbe essere reale.  La rappresentazione dei suoli e della morfologia del terreno è molto rara, ma non tanti sono i resti dell’età romana.  Certamente l’acqua ed i cieli, i fiori e gli alberi sono preferiti alle montagne e ai pendii.  La rappresentazione del Vesuvio dell’affresco pompeiano “Bacco e il Vesuvio” è un raro esempio, dove le vigne sono descritte sulle pendici ai piedi del vulcano.

Nel periodo tardo antico l’approccio naturalistico è sostituito drasticamente da un’iconografia essenziale, da costruzioni schematiche che portano ad una visione allusiva e simbolica delle forme, e alla progressiva perdita di ogni aspetto naturalistico e idealistico.  La visione tridimensionale dello spazio e dei volumi perde la sua importanza; le proporzioni sono indotte gerarchicamente, i colori perdono la loro funzione naturale a favore di un cromatismo semplificato.  I mosaici del IV secolo DC della villa Romana di Piazza Armerina ben esemplificano questo fatto.

Il passaggio dalla rappresentazione idealistica e mimetica ad una visione formalistica è ben evidente nei mosaici delle chiese di Ravenna (V-VI secolo). Nel mausoleo di Galla Placidia (425-450) il legame con la tradizione classica è ancora evidente. Nel mosaico del Cristo buon pastore la chiara visione spaziale del paesaggio con la sua profondità plastica è controbilanciata dalla rappresentazione schematica delle rocce, dalla presenza ieratica di Cristo e dalla trama cromatica semplificata. È qui evidente una sintesi fra l’antico naturalismo e la nuova concezione schematica e simbolica. Il suolo è riprodotto con una insolita precisione, sulla roccia sullo sfondo, come riempimento della roccia calcarea, e in basso alla base del mosaico, con una serie di “monoliti”, con fessure e “profili” di differenti colori: In una visione simbolica del paesaggio il suolo è invece riprodotto fedelmente.

In altri esempi di mosaico ravennate la visione simbolica degli elementi paesaggistici prevale definitivamente, con una rappresentazione formalistica delle entità naturali, la perdita di qualsiasi prospettiva spaziale, amplificata dall’uso uniforme dell’oro, simboleggiante la divinità, per il riempimento degli spazi. Si vedano ad esempio i mosaici di Sant’Apollinare in Classe della metà del VI secolo.

In quest’epoca, e per i decenni e secoli a venire, l’Italia è percorsa dagli eserciti di popolazioni nordiche, dal sacco di Roma ad opera dei Goti di Alarico (410) e avanti per tutto l’alto medioevo fino alle invasioni dei saraceni dei secoli XI e XII. La disaggregazione del tessuto civile, politico ed economico, e conseguentemente anche del paesaggio agrario, si riflette nell’arte, che rinuncia alla rappresentazione classica della realtà a favore di una presenza schematica e simbolica di forme naturali disaggregate, controbilanciate dalla forte e rassicurante presenza delle figure sacre.

Nei mosaici bizantini del duomo di Monreale (XII secolo), gli elementi naturali appaiono come sfondo decorativo, drasticamente semplificati nell’aspetto e nei colori. La forma dei monti che l’arte bizantina eredita, semplificandola ulteriormente, dalla cultura ellenistica, si ritroveranno in tutta l’arte medievale e nel primo rinascimento. Una eccezione a questa tendenza è rappresentata dalle miniature che decoravano preziosamente i manoscritti. Queste però non vengono considerate in questo lavoro.

Il periodo definito del “paesaggio negato” lentamente evolverà nel XIII e XIV secolo verso la riscoperta dell’ambiente naturale ed in particolare degli aspetti paesaggistici. Gli elementi del paesaggio, la morfologia dei versanti e le diverse specie di piante, restano formali, ma nondimeno si iniziano ad intravedere gli spunti che porteranno all’approccio rivoluzionario di Giotto alla natura ed al paesaggio.

Nella pala agiografica di Bonaventura Berlinghieri (1235), prima rappresentazione conosciuta delle storie della vita di San Francesco, conservata a Pescia, si ha un’idea della rappresentazione delle forme naturali ereditata dalla tradizione bizantina. I versanti della collina sono qui rappresentati in modo molto schematico, ma la collina stessa diviene la scena sulla quale si svolge l’azione.

 

Con Giotto (1267?- 1337) l’arte italiana è a un punto di svolta verso la rappresentazione gotica della natura e del paesaggio. Nelle storie di San Francesco, nel ciclo di affreschi della chiesa superiore di Assisi, Giotto sperimenta volumi tridimensionali, mentre i cieli si colorano di blu per una rappresentazione più realistica dello spazio. Il paesaggio è sempre uno sfondo, ma è ora in qualche modo necessario allo svolgimento dell’azione. Il suolo non è rappresentato, ma può ospitare erbe e alberi, e la drammaticità del paesaggio rappresentato ricorda la drammaticità dei paesaggi calanchivi dell’Italia centrale.

La verosimiglianza del paesaggio è assicurata dalla rappresentazione realistica degli alberi. In mancanza di esperienze dirette (il primo viaggiatore di cui si abbia testimonianza che avesse scalato una montagna per semplice diletto è il Petrarca, nel 1336) la forma del monte è resa verosimile, “mimetica”, copiando in scala pietre rozze, non levigate, come testimoniato da Cennino Cennini, autore di un trattato di tecniche artistiche intitolato “Il libro dell’arte”, nel 1400. Ma è soprattutto la funzione del paesaggio che è innovativa: non più semplice sfondo, ma scena dell’azione, profondamente e plasticamente legato alle figure. Un esempio è dato dal “Miracolo della sorgente” (c. 1297- 1300) conservato nella Basilica superiore di Assisi.

Gli schemi di Giotto rimarranno un punto di riferimento per gli artisti attivi nel XIV secolo e la formula del paesaggio circondato da montagne e rocce e riempito di fiumi e villaggi sopravvivrà fino alla metà del XV secolo, riapparendo nel corteo dei magi di Benozzo Gozzoli.

A Siena l’approccio giottesco trova un’alternativa in Duccio da Buoninsegna (1255-1319) conservato nel Museo dell’Opera del Duomo a Siena. Nelle predelle alla base e sul retro della Maestà, il paesaggio è riprodotto in modo non così diverso da Giotto. Ciò non di meno i cieli sono d’oro e la prospettiva è assai meno importante. Le forme inoltre sono ammorbidite, in una ricerca del bello più che del reale.

Solo pochi anni più tardi, Ambrogio Lorenzetti (1290-1348), ci darà il primo paesaggio in senso moderno: l’allegoria del Buono e Cattivo Governo (1338-1339), affresco conservato nel palazzo comunale di Siena. Il paesaggio raffigurato negli affreschi del Lorenzetti non può definirsi propriamente reale, essendo probabilmente motivato da intenti propagandistici e pedagogici. Gli affreschi tuttavia ci dipingono una immagine vivida e realistica del paesaggio toscano del XIV secolo, un tipo di paesaggio ancora vivo e ben conosciuto ai nostri giorni. Anche i colori del suolo sono realistici, con la successione tipica sulle litologie argillose della toscana centrale (di Incepituoli grigiastri e di Vertisuoli bruno scuri) visibile nell’Allegoria del Buon Governo. Inoltre il ruolo produttivo del suolo viene definitivamente incluso in un’opera d’arte, sia pure con intenti di educazione civile. Gli effetti della trasandatezza nella gestione della terra è invece rappresentata nell’Allegoria del Cattivo Governo che ricorda certi trattivi calanchivi dei paesaggi senesi.

La modernità di questi affreschi è indirettamente confermata dal fatto che rimarranno un caso isolato per almeno un secolo. L’esempio di paesaggio a tutto campo più vicino è rappresentato dalla Tebaide (1410) ora attribuita a Beato Angelico e conservata oggi al Museo di San Marco a Firenze) dipinta ottant’anni più tardi e molto meno moderna, almeno nella nostra accezione del termine.

In questo esempio il paesaggio è meno verosimile, i lavori campestri molto limitati e simbolizzati, I monti stilizzati della tradizione bizantina prendono il posto delle colline arrotondate della campagna senese descritta dal Lorenzetti.

La nuova sensibilità per il mondo naturale cresciuta nella prima metà del XIV secolo, testimoniata da Ambrogio Lorenzetti, evolse nel movimento artistico e culturale policentrico europeo conosciuto come “Gotico internazionale”. L’interesse per i dettagli del Gotico Internazionale, riguardò sia gli abiti e le armature dei cavalieri rappresentati, ma anche il mondo naturale. I Calendari, diffusi nel medio evo, che ritraevano a scopo decorativo le attività e le occupazioni quotidiane, sono esempi di rappresentazione della natura e del paesaggio molto differenti dal ruolo simbolico cui questi erano stati relegati fino ad allora.

Un ben noto esempio e,  in Italia, il “Ciclo dei Mesi” affrescato nel castello del Buonconsiglio di Trento (1400). In questi esempi la funzione produttiva del suolo è molto ben rappresentata. Le attività dei nobili, dipinti in primo piano impegnati nelle loro attività venatorie o semplicemente ludiche, sono accompagnate dalle descrizioni dettagliate dei lavori dei campi: la lavorazione del suolo, le semine, la vendemmia, la fienagione. Nel mese di aprile del Ciclo dei Mesi, il suolo lavorato è bruno scuro e contrasta vividamente con le montagne stilizzate e colorate vivacemente in secondo piano. Nel paesaggio alpino, ed in particolare in quello trentino, questa è una condizione reale, dove i suoli coltivati sono ricchi in humus e le montagne dolomitiche sono rosate e dorate.

L’attenzione per i dettagli del mondo naturale si mantiene anche in opere molto differenti dello stesso periodo. L’Adorazione dei Magi, con relativa predella con La fuga in Egitto, di Gentile da Fabriano (1370-1427) conservato agli Uffizi di Firenze, è uno splendido esempio di questo interesse. Il realismo del paesaggio è qui esaltato dalla luce che si irradia sulle forme. I suoli sono rappresentati nei loro colori reali, sui campi si riconoscono i segni delle lavorazioni e ciottoli sono sparsi in modo naturale sul suolo nudo di un ambiente semi-arido.

La concezione della centralità dell’uomo dell’umanesimo rinascimentale, associato alla fiducia nella possibilità della conoscenza razionale del mondo, porta alla riscoperta della cultura classica, con la sua visione mimetica e idealistica della realtà. Un naturalismo che supera la descrizione dettagliata, ma frammentaria, del gotico internazionale, per una visione globale del mondo ed in particolare del mondo naturale. E’ l’epoca degli studi sull’anatomia umana, della ricerca di Brunelleschi sulla prospettiva, dell’approccio matematico alla profondità dello spazio. I cieli dorati o uniformemente blu lasciano definitivamente il posto a cieli nei quali si registrano gli eventi atmosferici, le nuvole, i temporali. I paesaggi ancora restano sullo sfondo, ma sono descritti nella loro interezza, spesso attingendo alle personali esperienze dei luoghi vissuti dagli artisti. Tra gli innumerevoli esempi, alcuni sono particolarmente rappresentativi per una prospettiva di un pedologo.

A metà del XV secolo (1459-1460) Benozzo Bozzoli dipinge i suoi famosi affreschi di palazzo Medici Riccardi a Firenze: il Corteo dei Magi. Nei suoi sontuosi paesaggi Benozzo unisce il vecchio approccio al paesaggio con la nuova visione, dipingendo i monti stilizzati della tradizione bizantina accanto a più realistici paesaggi, pieni di particolari precisi.

Nella parete destra della stanza, che rappresenta la giovinezza, le rocce bianche formano una specie di scena teatrale nella e sulla quale agiscono i personaggi. Anche il colore delle rocce sembra funzionale alla variazione cromatica della parete piuttosto che indice di rocce differenti. Le forme sono paragonabili fra le rocce di diversi colori. L’elemento di realismo si ritrova casomai nella disposizione della vegetazione che si ritrova nelle incisioni e, meno di frequente, isolata in ciuffi. A parte la palma, questo può ricordare le zone di accumulo di un calanco. Sullo sfondo, nella parte destra, sotto il villaggio, compaiono segni di lavorazione del suolo (campi però sono verdi). Ancora segni di lavorazioni sono sotto il castello. Il corteo procede sulle rocce (fosso di erosione sulla sua strada in alto a sinistra) o nella gola fra le rocce.

Sulla parete di fondo, rappresentante la maturità, il paesaggio cambia completamente. Le rocce stilizzate, lasciano il posto ad un verdeggiante paesaggio “naturalistico”. Le rocce restano ancora in primo piano come base di appoggio del cavaliere e del corteo. Nel paesaggio vengono riprodotti: una fustaia con cipressi in primo piano e latifoglie dietro. Il sottobosco è nudo e appaiono i suoli bruni. Al centro-sinistra è raffigurata una valle: il fiume scorre in meandri ed è raffigurata erosione della sponda. Si riconoscono terrazzi fluviali con le scarpate inerbite.

Al centro è raffigurata una serie di colline e versanti sui quali si riconoscono i segni delle lavorazioni, a rittochino e a cavalcapoggio. Sono raffigurate colture arboree con sesti di impianto regolari, e colture intensive, fra siepi, nelle zone più pianeggianti.

Sulla parete sinistra, simbolizzante la vecchiaia, la scena è nettamente divisa in due con la parte destra caratterizzata dalle solite rocce bianche. Nella parte sinistra un paesaggio più selvatico del precedente. Ci sono bestie, ci sono i boschi, inerbiti in superficie, e non ci sono segni di colture agrarie. Sullo sfondo le rocce diventano vere e proprie montagne, i versanti sono interrotti da scarpate erose, con i suoli esposti.

Sullo sfondo, nella vallata, c’è una forra da erosione.

Nel Botticelli, (1444-1510), famoso per il suo interesse per la botanica e nella floristica, i paesaggi perdono di precisione. Il Botticelli non è interessato alla rappresentazione scientifica del paesaggio che è sostituita da una natura ideale, ricca di simboli, rappresentati come usuale dalle diverse specie vegetali, fatto che gli attirerà le critiche di Leonardo, che non poteva capire questa mancanza di interesse per il paesaggio.

Sempre nel XV secolo, l’influenza fiamminga fu ampiamente sentita fuori dalla toscana e principalmente in Veneto, con uno dei più grandi pittori di paesaggio mai vissuti: Giovanni Bellini (1426-1516), considerato il primo vero interprete del paesaggio in senso moderno.

Egli probabilmente conobbe Antonello da Messina (1451-1500), l’erede italiano della tradizione di van Eyck, che fu in Veneto. Come afferma Kenneth Clark, Bellini realizza nelle pitture del paesaggio la “suprema istanza dei fatti trasfigurati dall’amore”. Tale amore universale “abbraccia ogni ramoscello, ogni pietra …” ed è attraverso l’uso della luce che questo si manifesta.

I suoli sono ben rappresentati in alcuni grandi dipinti del Bellini, primo fra tutti il San Francesco in estasi, (1480-85 o 77-78, Frick collection, New York), e nella Madonna del prato (1505, National Gallery, London, 67×86).

Nel San Francesco in Estasi, le forme sono dipinte nella loro individualità mentre la luce pervade la scena. I suoli agrari sono riportati sullo sfondo, attorno e sotto le mura della città. Suoli inerbiti sono descritti con i loro colori bruni, e con l’intreccio delle radici erbacee. Specie erbacee crescono sui colluvi delle rocce calcaree.

Nella Madonna del Prato un suolo pietroso, tipico dell’alta pianura veneta, è realisticamente riprodotto in primo piano, in una fredda luce autunnale, evidenziato nel suo aspetto naturale dalla presenza di una sottile ombra.

Una rappresentazione verosimile del suolo è di difficile reperimento nell’opera di un grande del rinascimento italiano, Leonardo da Vinci, che unì nelle sue pitture l’approccio scientifico della sua mente con la fantasia della sua arte, che seppe trasformare l’osservazione naturalistica con la fantasia. Ancora Clark si riferisce ai paesaggi di Leonardo come al prototipo del genere del paesaggio fantastico.

Nel 1473 Leonardo da Vinci, a 19 anni, disegnò il suo Studio di paesaggio, conservato agli Uffizi. Non c’è accordo sulla veridicità del disegno, se si tratti di un luogo fisico o di un frutto della fantasia, ma questo è il primo esempio fiorentino di un paesaggio puro, privo di presenza umana, se si eccettuano le linee squadrate dei canali di irrigazione sullo sfondo. Il paesaggio è rappresentato nella sua interezza e su tutti i piani visivi.

Sappiamo bene che Leonardo studiò a fondo i fenomeni naturali ed in particolare l’erosione idrica e fluviale, ma nei suoi dipinti, nelle sue montagne i processi morfologici non sono evidenti. I monti, molto ben conosciuti da Leonardo, sono trasfigurati dalla fantasia. I monti e le valli dipinti sugli sfondi sono visti generalmente attraverso il filtro di un’aria leggermente nebbiosa, le rocce sono molto ben descritte, ma spesso disposte irrealisticamente (Vergine delle rocce), e il suolo è solo una volta riprodotto con accuratezza, come base pietrosa nella Vergine con Bambino e Sant’Anna del Louvre.

Alla scuola fondata a Venezia dal Bellini, si formarono tra gli altri Giorgione (1477-1510) e Tiziano (1488-1476). La loro opera offre alcuni dipinti con interessanti rappresentazioni del suolo. Circa la Tempesta del Giorgione (1500- 1505), conservata all’Accademia di Venezia molto è stato scritto, sul simbolismo e sul significato, e sull’importanza per la storia dell’arte, ma cosa si apprezza in quanto scienziati del suolo è il fatto che nella Tempesta è rappresentato un profilo di suolo in primo piano: la donna (una gitana, una figura allegorica?) giace sul prato e questo è rotto lasciando vedere il suolo. Anche grazie alla tecnica pittorica del Giorgione, questo spaccato appare assai diverso da altri analoghi visti in altri artisti: qui, sebbene non siano riconoscibili veri e propri orizzonti di profondità, è riprodotto qualcosa di molto simile ad un suolo bruno con un ben espresso orizzonte di superficie (orizzonte A).

Più giovane di Giorgione, Tiziano lavorò con lui in alcune opere tarde di questi. Anche se famoso soprattutto per i ritratti e per le composizioni di figure umane, i paesaggi dipinti sullo sfondo di questi rappresentano una pietra miliare nella storia della pittura del paesaggio (Clark, 1949), come esempio del “paesaggio ideale”, cioè del concetto ideale di paesaggio.

Nello sfondo dell’Amore Sacro e Amore Profano (1514, Galleria Borghese, Roma) è riprodotto un paesaggio nella luce della sera. Sulla destra il prato è rotto e appare il suolo: vi è riprodotto un piccolo movimento di massa.

L’eredità di Tiziano è direttamente riconoscibile nei paesaggi di Annibale Carracci (1560-1609) che  con il fratello ed il cugino lavorò ed insegnò a Bologna e poi a Roma, interpretando un’alternativa al dilagante manierismo italiano.

La sua Fuga in Egitto (1603, Galleria Doria-Pamphili, Roma) influenzò profondamente la storia della rappresentazione del paesaggio ed in particolare l’opera di Poussin e Claude Lorrain. In questo classico paesaggio ideale le forme del suolo ed i suoi colori sono ben riprodotti, seppure in un paesaggio idealizzato, privo dei suoi aspetti produttivi, eccetto che per la presenza di un formale gregge di pecore.

Con il XVII e XVIII secolo il paesaggio e più in generale la natura diventa un genere di per sé, ma qui solo l’opera di due grandi pittori di paesaggio verrà ricordata: Claude Gellée o Lorenese o semplicemente Claude e Nicolas Poussin.

Claude Lorrain (1600-1682), nato in Lorena, lavorò principalmente a Roma. Il paesaggio ideale trova in lui uno dei più grandi interpreti. Forse a causa delle sue umili origini le forme di suolo rimangono in certo modo naturali ad esempio nel suo “Paesaggio con figure danzanti” del 1648, conservato presso la Galleria Doria Pamphili a Roma

Anche Poussin (1594-1665) era francese, ed operò principalmente a Roma. I suoi paesaggi, così come quelli di Claude, sono influenzati dall’opera di Tiziano e Carracci, ma l’idealizzazione finisce per prevalere, col risultato di una perdita di tutti gli elementi naturalistici, almeno per quanto riguarda le morfologie ed i suoli. Si veda ad esempio il “Paesaggio con Diogene” (1647) del Louvre.

Il paesaggio idealizzato privilegia la rappresentazione naturalistica della luce e l’aria e l’acqua, mentre le morfologie e conseguentemente i suoli, con la loro ovvia dimensione terrestre, sembrano non interessare molto gli artisti, in una visione molto formale. Tra le centinaia di dipinti di paesaggi dell’arte italiana del XVII e XVIII secolo, tra le rovine e i ponti e i pastori sontuosamente vestiti, la percezione del suolo sembra persa, o almeno molto povera. Dobbiamo arrivare alla seconda metà del XIX secolo per vedere il colore del suolo apparire nell’arte italiana, improvvisamente e prepotentemente.

Ed è ancora in Toscana, nell’ambiente intellettuale della borghesia, favorito dal clima relativamente liberale del regime del Granducato di Toscana, che il nuovo approccio alla natura si rende manifesto. Soggetto della pittura diventa il mondo reale, la vita di tutti i giorni, osservata nei diversi momenti del giorno e dell’anno. Immagini neutre e semplici sono i soggetti preferiti: i campi, i contadini, i fiumi ed i canali di irrigazione, le marine battute dai venti, le boscaglie. Gli artisti dipingono le loro opere dal vero, su cavalletto, su piccole tele o tavole facilmente trasportabili all’aperto, senza l’ausilio degli schizzi preparatori. Il movimento prende il nome dal termine dispregiativo con il quale venne indicato dai primi critici del genere: “macchiaioli”, dall’aspetto a macchie delle loro opere. Esso nasce autonomamente e in qualche modo procede parallelo all’impressionismo francese, con il quale tuttavia i legami sono profondi, sia per la continuità fisica di alcuni esponenti che, nati nella macchia, crebbero nell’impressionismo, sia per la continuità culturale. Si rammenta qui tra i tanti possibili esempi, il “Pagliaio” (1880?) di Giovanni Fattori (1825- 1908), conservato a Livorno; e di Telemaco Signorini (1835-1901), “Fine di Agosto a Pietramala”.  I due dipinti rendono vividamente i diversi paesaggi: la campagna livornese dai colori ocra accesi e quella della Romagna interna dalle tinte tenui dei suoli delle marne appenniniche.

Lo stesso colore del suolo pervade i capolavori di Paul Cezanne, che colse nei suoi paesaggi tutta la luce e la brillantezza, il calore e il croma dei suoli della Provenza e della Francia meridionale; e ancora, in Italia l’opera di Giorgio Morandi (1890-1964), che riprese i colori rarefatti e trasparenti della sua Emilia (ad esempio in “Paesaggio a Grizzana”, Galleria di Arte Moderna, Firenze), e di Ottone Rosai (1895-1957) che ci ha lasciato i colori severi della collina fiorentina, ancora coltivata nel XX secolo come nel tardo rinascimento  (ad esempio “Paesaggio toscano”, Stazione Centrale di Firenze).

Mi piace terminare questa breve carrellata citando Tullio Pericoli (1936), straordinario narratore di paesaggi.  I colori del suolo sono i veri protagonisti dei suoi quadri, qualunque tecnica espressiva utilizzi. Impossibile sceglierne uno, impossibile per uno scienziato del suolo non amarli tutti.

 

NdR segnalo, a proposito della giornata Mondiale del suolo, questo convegno a Venezia, e quest’altro a Roma

 

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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