Pensare la poesia di ricerca

di Daniele Barbieri

Leggo La scuola delle cose n. 19 (aprile 2025), un numero a cura di Marco Giovenale, con interventi di Gian Luca Picconi, Massimiliano Manganelli, Luigi Magno, Chiara Portesine, Renata Morresi, Chiara Serani, Luigi Ballerini e Daniele Poletti. Il tema del numero è, come si può intuire dal nome del curatore, quell’area del campo della poesia che definisce se stessa poesia di ricerca. Il numero è complessivamente interessante e ho trovato diversi degli interventi particolarmente utili, ma le tesi sostenute si prestano a vari spunti polemici.

Il primo riguarda proprio l’espressione poesia di ricerca. Ci ricorda Manganelli che il termine postpoesia, coniato da Jean-Marie Gleize (ne ho discusso in un precedente intervento qui su NI), ha finito per essere troppo ampiamente utilizzato dalla critica italiana, quasi buono per qualsiasi occasione, finendo per diventare sostanzialmente inutile. Per questo Marco Giovenale preferisce parlare di scritture di ricerca o di scritture non assertive. Il problema è che la descrizione che il medesimo Manganelli dà di queste scritture di ricerca (e alla quale gli altri articoli che se ne occupano sembrano adeguarsi) è troppo ristretta e ne individua di fatto esattamente il settore di cui Giovenale si fa portavoce. In altre parole, a mio parere, l’espressione scritture di ricerca (o anche poesia di ricerca) individuerebbe il genere complessivo e non una specie, mentre di fatto quella stessa specie se ne impossessa, implicitamente dichiarando che le altre specie che appartengono al medesimo genere non sono poesia di ricerca. Non posso fare a meno di pensare alla strategia dei Bolscevichi nel 1917, che prendono il Palazzo d’Inverno non contro gli zaristi, bensì contro tutti gli altri partiti rivoluzionari, insieme con i quali avevano già spodestato lo zar. Certo, l’entità della battaglia e quella della posta in gioco non sono paragonabili, ma il metodo è un tipico metodo da avanguardia: la retorica dell’esclusività. Siamo noi e nessun altro a fare la rivoluzione, a fare la ricerca.

Preferisco riesumare, per proseguire il mio discorso, il termine di Gleize, che mi sembra più onesto. Da questo momento in poi parlerò dunque di postpoesia e postpoeti, per indicare l’ambito promosso da Giovenale. Quanto alla non assertività, non è troppo difficile rendersi conto che qualsiasi testo che si presti a molte letture (quali sono di solito i testi poetici di valore, e non solo quelli) non asserisce nulla, o asserisce solo superficialmente e in apparenza, come peraltro anche la postpoesia non può non fare. Si tratta dunque di una categoria troppo ampia, molto più ampia di quella stessa di poesia di ricerca.

Se poi pensiamo alla poesia di ricerca come genere (cui la postpoesia indubbiamente appartiene) si rivela difficile definirne dei confini. Da un lato non si possono dare delle linee alla ricerca artistica: quelle che elenca Gleize e che qui Manganelli riprende (il cut-up, il sought poem, l’eavesdropping…) sono indubbiamente possibilità, ma non necessità, e nemmeno lo è la riduzione dell’io, e tantomeno la letteralità (ammesso che sia possibile). Un autore che faccia ricerca su un modo diverso di fare lirica o di fare uso delle metafore, certamente non sarà un postpoeta, ma potremo dire che per questo non sta facendo ricerca? L’Humpty-Dumpty di Lewis Carrol domandava provocatoriamente ad Alice chi sia il padrone delle parole: non dovremmo forse noi domandare chi sia il padrone della ricerca? In altre parole: chi decide che cosa sia legittimamente ricerca? Il fatto è che non si possono stabilire dei criteri a qualcosa il cui senso stia esattamente nel trovare dei criteri nuovi. La de-coïncidence di François Jullien evocata da Poletti sta certamente al cuore di tutta la faccenda, ma per de-coincidere bisogna trovare un punto di vista imprevedibile, diverso da quelli assodati. Altrimenti si sta nella scuola, si sta nel paradigma, ed è proprio il paradigma specifico della postpoesia a essere spesso enunciato in queste pagine.

Si aggiunga che la classificazione proposta da Gleize per il campo della poesia contemporanea (lapoesia, ripoesia, neopoesia, postpoesia) riduce un campo bi- o tridimensionale a una linea. In una situazione a più dimensioni le direzioni in cui si può andare sono infinite, mentre lungo una linea si va in una direzione oppure in quella opposta. In altri termini, si va avanti oppure indietro, e non ci sono altre possibilità. Nella classificazione di Gleize, insomma, è implicita un’idea di progresso (non lontana da quella della scienza), ed è implicito anche quale sia il lato verso cui si va avanti. Certo che si tratta di una semplificazione, la quale come tutte le semplificazioni può portare dei vantaggi, ma questi vantaggi sono sempre relativi a uno scopo preciso, che dev’essere già noto. In altre parole, Gleize sta classificando il campo della poesia in maniera da mostrare la postpoesia come la punta più avanzata di una progressione lineare. Rappresentando il medesimo campo come una costellazione di realtà differenti, con somiglianze di famiglia qua e là, non si potrebbe ottenere il medesimo effetto retorico. Siamo di nuovo, insomma, all’interno di una retorica da avanguardia: la rivoluzione siamo noi, gli altri stanno contro o, per bene che vada, più indietro.

 

Quello che Manganelli sembra dimenticare nel suo articolo è che la chiamata in causa del lettore come condizione indispensabile per le opere non è cosa degli ultimi anni. Era esattamente il tema di Opera aperta, il libro di Umberto Eco del 1962, cioè 63 anni fa. Ma già in quello scritto Eco faceva notare come qualsiasi opera d’arte sia inevitabilmente un’opera aperta, e richieda la collaborazione del lettore (e poi l’intero Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, del 1979, sarà acutamente dedicato alla questione), ma certamente – Eco stesso lo dice – le opere delle avanguardie avevano talvolta un grado di apertura in più. Quanto all’abbandono della metafora, ammesso che sia davvero una strategia interessante (e non un buttare via il bambino insieme con l’acqua sporca del suo abuso), essa non conduce affatto alla letteralità del messaggio. Se leggessimo letteralmente i testi di Michele Zaffarano (che mi sembra l’autore in Italia in cui la postpoesia si esprime più limpidamente) non troveremmo che una sequenza di asserzioni banali, e non potremmo cogliere l’ironia che le riscatta.

Tuttavia, viceversa, attraverso la possibilità di una lettura trasversale, potremmo arrivare a salvare qualsiasi testo. Mi sono divertito a immaginare che cosa accadrebbe se leggessimo una poesia di Franco Arminio come se l’avesse scritta Michele Zaffarano (novello Pierre Menard di questo gioco).

Prendi un angolo del tuo paese

e fallo sacro,

vai a fargli visita prima di partire

e quando torni.

Stai molto di più all’aria aperta.

Ascolta un anziano, lascia che parli della sua vita.

Leggi poesie ad alta voce.

Esprimi ammirazione per qualcuno.

Esci all’alba ogni tanto.

Passa un po’ di tempo vicino ad un animale,

prova a sentire il mondo

con gli occhi di una mosca,

con le zampe di un cane.

(da https://www.donnad.it/franco-arminio-poesie)

Se fosse Zaffarano l’autore di questi versi non potremmo leggerli letteralmente. L’elenco di banalità che si sussegue al loro interno dovrebbe essere interpretato come sarcasmo sulla banalità stessa. Si starebbe evidentemente prendendo in giro un’idea ingenua della lirica, con tutti i suoi luoghi comuni. Si starebbe facendo un discorso sulla scrittura, sulla banalità della comunicazione, persino sull’impossibilità di uscire davvero da questa banalità, cui siamo quotidianamente condannati. Mancano, certo, le marche, gli indizi dell’ironia. Ma poiché conosciamo l’autore, e mai ci aspetteremmo da lui un discorso serioso in questi termini, potremmo convocare l’ironia anche senza che sia dichiarata.

L’autore è però, in verità, Franco Arminio, che ci invita a una lettura davvero letterale di un testo che non fa uso di metafore. Questo fa anche di Franco Arminio un postpoeta? E se volessimo magari impelagarci a sostenere che lui è comunque un poeta di ricerca, quale sarebbe la sua ricerca?

Ma, ancora, avrei potuto scegliere una diversa poesia di Arminio per leggerla come uno pseudo-Zaffarano, e i risultati non sarebbero stati differenti: vi avremmo riconosciuto il medesimo sarcasmo sulla banalità, e avremmo potuto fare il medesimo discorso che abbiamo fatto sopra. Questo pone un problema alla postpoesia, almeno nelle sue forme più rigorose: la sostanziale omogeneità tematica, l’impossibilità di allontanarsi dal nucleo di temi su cui si fonda e su cui sempre insiste, faticando ad allontanarsene. Come se esistesse una e una sola cosa di cui parlare, magari in modi molto diversi, ma per poi finire sempre lì. Mi ha colpito che, nell’articolo di Picconi che apre il numero con una ricognizione sugli autori dell’area in questione, Inglese e Raos siano inizialmente nominati tra gli autori di Prosa in prosa, ma poi non più ripresi nel seguito, a differenza degli altri quattro. Il fatto è che Inglese, ma soprattutto Raos, fanno una poesia ben diversa da quella che viene descritta e canonizzata dalla serie di articoli. Non seguono quelle regole, insomma: non possiamo davvero considerarli fino in fondo postpoeti. Appartengono al genere poesia di ricerca, senza dubbio, ma sono di una specie diversa, cui non si dà grande spazio qui.

 

Uno spettro, comunque, si aggira nel campo della poesia, lo spettro del soggetto. Da un lato la lirica sembra presentarsi come l’espressione diretta delle istanze del soggetto; dall’altro la Neoavanguardia italiana pone (sin dall’introduzione di Alfredo Giuliani a I novissimi, nel 1961) la riduzione dell’io tra le sue istanze programmatiche. Anche qui siamo di fronte, nei fatti, a un campo tridimensionale, variegato, all’interno del quale possiamo incontrare lirica che fa a meno dell’io e poesia di ricerca in cui l’io viene nominato; anche qui è diffusa la semplificazione secondo cui la lirica starebbe alla poesia di ricerca come la presenza starebbe all’assenza dell’io. Questa semplificazione, almeno, è parzialmente giustificata dal suo essere in molti casi (non in tutti) verificabile nei fatti.

È tuttavia possibile vedere le cose in un altro modo, del tutto opposto. Fare ricerca, anche dei modi più impersonali e freddi di espressione, implica una forte attività del soggetto, il quale deve scegliere, o addirittura inventare, dei criteri di fondo diversi da quelli della tradizione. Viceversa, chi a questa tradizione si appoggia, come molti poeti lirici, mette in moto la scelta personale solo a livelli più superficiali. In questa prospettiva, per quanto paradossale questo possa apparire, dovremmo riconoscere che la lirica starebbe alla poesia di ricerca come l’assenza starebbe alla presenza dell’io, ribaltando la proporzione precedente. Stare nella tradizione comporta una molto minore affermazione del soggetto rispetto al cercare di uscirne (lo faceva già notare Guido Mazzoni nel suo bel libro del 2005).

La mia sensazione è comunque che quello del soggetto, dell’io, sia davvero un falso problema, un abbaglio, purtroppo assunto dagli stessi attori (autori) in causa. L’illusione dell’io è costitutiva del nostro essere personale e sociale, e fa parte del modo in cui ci rappresentiamo a noi stessi. Per questo tendiamo a vedere altri io dappertutto. E questo, nella società in cui viviamo, è ormai una necessità. Ma quando si legge “io” in un testo scritto che non sia una comunicazione personale, che cosa fa sì che dobbiamo far coincidere questo “io” con quello dell’autore? Si dirà che la lirica è esattamente quel tipo di poesia che si fonda su questa assunzione. Ma potremmo facilmente rispondere che la lirica è piuttosto quel tipo di poesia che si fonda sulla costruzione di un io poetico che possa essere ricondotto all’io autoriale; descrivendo le cose in questo modo abbiamo la possibilità di renderci conto che tale riconduzione (cioè tale identità) è un’illusione, e che la lirica si fonda sull’accettazione (più o meno consapevole) di questa illusione, un’illusione antica, cui il Romanticismo diede particolare forza, e che ancora resiste nella vulgata.

Quando leggiamo un romanzo, magari narrato in prima persona, non abbiamo nessun problema a distinguere l’autore da chi dice “io”. Ismaele non è Herman Melville. L’illusione lirica non solo non vi è necessaria, ma vi è proprio vietata. Cosa ci proibisce di pensare all’io lirico come una costruzione, né più né meno di quello narrativo? L’io di Petrarca come quello di Leopardi sono costruzioni letterarie, delle quali non ha nessuna importanza che corrispondano all’io degli autori.

La poesia, insomma, non meno della prosa, non è che un teatrino pronominale in cui “io”, “tu”, “ella, egli” non sono che attori in gioco, punti di vista messi in scena, efficaci nella misura in cui costruiscono situazioni efficaci, non nella misura in cui esprimono alcunché dei loro autori. Del resto, sappiamo benissimo che il poeta lirico ingenuo che crede di esprimere le proprie pene d’amore non fa in realtà che riprodurre un canovaccio secolare, in cui quell’io non è che un ruolo ben definito – e i lettori, quelli che lo apprezzano, lo apprezzano proprio perché ci ritrovano quel ruolo secolare. A un livello meno ingenuo, la consapevolezza di questa inevitabile artificiosità dell’io potrebbe permettere di fare ricerca pur continuando a usare l’io, persino pur continuando a fare lirica. Il migliore risultato del secolo in questo campo ha nome Amelia Rosselli.

Sul versante opposto, il postpoeta ingenuo potrà credere di esprimersi oggettivamente facendo uso di espressioni raccolte qua e là dall’ambiente, ma sarà poi lui/lei ad avere organizzato quel materiale, magari seguendo la propria tradizione, meno antica dell’altra, ma ugualmente non nuovissima – e i lettori, quelli che lo apprezzano, lo apprezzano proprio perché riconoscono l’attività personale all’interno delle regole di genere assestate. Cosa può fare il postpoeta meno ingenuo?

Il problema dell’io in poesia è in realtà il problema dei poeti che credono di doverlo esprimere o che credono di doverlo tener lontano; è un problema che riguarda gli ingenui (lirici o di ricerca che siano). Basta rendersi conto che l’io è un altro, ed è già in partenza lontano, a saperlo guardare è già ridotto. Lo era già persino in Petrarca, nonostante l’illusione potente che ci è stata costruita sopra – a partire da lui medesimo, magari. Ma le intenzioni degli autori non contano; non è mai su quello che si costruisce la qualità della poesia.

Il che ci riporta, conclusivamente, a un altro problema tipico delle avanguardie artistiche, le quali sono state spesso più significative per le intenzioni esposte che per i risultati conseguiti. Dal punto di vista della cultura nel suo insieme, si tratta di un fenomeno positivo, perché solleva e stimola le discussioni e le riflessioni critiche. Ma questo non salva i risultati artistici che, quando sono validi, capita anche che lo siano a dispetto delle intenzioni espresse

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Giorgio Mascitelli
Giorgio Mascitelli
Giorgio Mascitelli ha pubblicato due romanzi Nel silenzio delle merci (1996) e L’arte della capriola (1999), e le raccolte di racconti Catastrofi d’assestamento (2011) e Notturno buffo ( 2017) oltre a numerosi articoli e racconti su varie riviste letterarie e culturali. Un racconto è apparso su volume autonomo con il titolo Piove sempre sul bagnato (2008). Nel 2006 ha vinto al Napoli Comicon il premio Micheluzzi per la migliore sceneggiatura per il libro a fumetti Una lacrima sul viso con disegni di Lorenzo Sartori. E’ stato redattore di alfapiù, supplemento in rete di Alfabeta2, e attualmente del blog letterario nazioneindiana.
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