di Franco Buffoni
Fu il Tillyard, uno dei più acuti studiosi di Milton nel Novecento, ad osservare, verso la metà degli anni cinquanta, come – a differenza di quanto era sempre accaduto con altri grandi della letteratura – nei riguardi di Milton la critica si occupasse molto più di questioni inerenti la versificazione, lo stile (il Grand Style miltoniano, come scriveva Matthew Arnold), il pensiero filosofico, nonché la teogonia (cioè la geografia celeste), o la ricerca del protagonista (chi è l’eroe nel Paradiso perduto? Dio o – ben più verosimilmente – Satana?), piuttosto che di una semplice ma basilare questione: qual è il significato – vero, profondo – del Paradiso perduto? Che – in altri termini – significa chiedersi di che cosa parli veramente l’opera, aldilà della ovvia risposta “contenutistica” inevitabilmente imperniata sulla “caduta” degli angeli e la conseguente, inevitabile caduta dell’uomo.
Una delle risposte più autentiche può venire dalla riflessione sulla estrema musicalità del poema. Secondo le note categorie stilate da Ezra Pound all’inizio del secolo scorso (melopea: la poesia dove prevale l’elemento musicale; logopea: la poesia dove prevale l’elemento concettuale; fanopea: la poesia dove prevalgono l’immagine e la visione), l’opera di Milton sarebbe fondamentalmente melopeica, a scapito per l’appunto dell’immagine fulminante (oggi diremmo dell’epifania) e del logos.












