Gli oggetti nominati da Alessandro De Francesco sono sovraesposti. Esperiti da un punto di vista costantemente modificato, da una prospettiva provvisoria, da una luce estranea e straniante che se illumina, certo, al tempo stesso abbacina. E allora anche confonde, disloca, moltiplica, in scene solo apparentemente statiche, e brulicanti invece di fremiti continui, vibrazioni sottili del pensiero e delle cose.
Oggetti (in tedesco, non a caso, Gegenstände: ciò che sta di fronte, che fisicamente s’oppone al soggetto che li percepisce) mai descritti, mai aggettivati. Un’urgenza all’astrazione ricercata e perfino programmatica, e che però non preclude ai versi (alle immagini) una varietà di possibili significati, facendosi al contrario dispositivo garante di quell’apertura polisemica che è carattere e principio stesso della poesia.
Dopo qualche mese di pausa riapre sperimentalmente lo spazio a disposizione dei lettori di Nazione Indiana per segnalazioni e discussioni varie di pubblico interesse. Non è più una normale colonna di commenti, ma un forum separato che speriamo dia più spazio a chi scrive, e sia più utile per chi legge.
Già a partire dal titolo – Era mio padre (Fazi Editore, “Le vele”, pp. 281, € 16,50) -, l’ultimo libro di Franz Krauspenhaar si pone di prepotenza, quasi violentemente, di fronte al suo tema, evidente al punto da rendere inevitabile e pressoché automatico il richiamo a quella gran parte di letteratura contemporanea ispirata dalla morte di un genitore (in ordine sparso e fuori di qualsiasi gerarchia, i primi nomi che vengono in mente sono quelli di Handke, Camus, Gadda, Le Carré, Simon e Ernaux). Ma se la tradizione principale di questo “filone”, almeno così come è proseguita, ad esempio, nel romanzo americano contemporaneo (Moody, Antrim e Lethem, tra i più recenti), si confronta e riferisce soprattutto della perdita della madre, Krauspenhaar, piuttosto, quasi assecondando, sul piano letterario, l’inclinazione delle proprie origini, si muove sul terreno di quella che in Germania è stata raccolta sotto il nuovo conio di Väterliteratur, ovvero “letteratura dei padri” – nonostante il diverso investimento e il diverso valore che assume, in lui, il punto in cui si intersecano esperienza individuale e Storia collettiva.
The worse thing in this world is a rockstar. And the only good rockstar is a dead rockstar.
Si tratta di rock’n’roll. Si tratta di presenze. L’Iguana appare, salmodia le sue immense litanie, in un’infinita rappresentazione. E noi che lo adoriamo, siamo rapiti nella contemplazione idiota di un’icona. Idiota, perché lui è un messia che non salva, da lui non si attende salvezza, ma la celebrazione dei propri vuoti a perdere. I’m loose. Sticky deep inside. E’ l’introibo (ad altare dei): la dissoluzione di ogni sostanza interiore, lo slittamento senza fine. Iggy danza. Le danze dissolute di un dio idiota. Un dio di cui si può ridere, come voleva Nietzsche. (Iggy come la Carmen?). E Iggy è la risposta a quel Nietzsche che lamentava la decadenza di una civiltà che non ha partorito nessun nuovo dio.
Un dio che chiede di essere il (mio. tuo. nostro) cane. E che con I wanna be your dog ci lascia al nostro silenzio – ad esso ci restituisce, reintegrati nella nostra disintegrazione.
E’ un dio morto, Iggy, e proprio perché morto continua a ridere. E se continua a esser lì, è perchè si rida di lui.
Va da sé che tutto questo non va preso sul serio.
m.r.
Il seguente brano è tratto dall’introduzione al libro di Paul Trynka:
Poi c’era Iggy. L’indistruttibile Iggy, che faceva piazza pulita di qualsiasi droga gli mettessero davanti al naso, che nel corso dei mesi precedenti il suo tour manager aveva dovuto trascinare diverse volte sul palco in stato di semi-incoscienza, che soltanto due giorni prima era stato steso a pugni da alcuni appartenenti a una banda di motociclisti ma li aveva invitati al concerto del Michigan Palace per avere il resto. Che ora appariva tanto rovinato fisicamente e mentalmente, da se stesso e da coloro che gli stavano intorno, che a volte la sua energia vitale e la sua luminosa bellezza sembravano sul punto di prosciugarsi.
__Siamo in undici. Pare un po’ lugubre come sede di una casa editrice, ma forse è un ufficio secondario. Quando sono arrivato c’erano già un giovanotto barbuto e una signora di mezza età dall’aspetto comune. Di lui si poteva pensare che fosse un aspirante scrittore, mentre lei correggeva forse le bozze di sera, dopo le faccende di casa. Nel giro di mezz’ora sono arrivati gli altri, ognuno aveva in mano una copia del libro. Così si è capito che eravamo lì tutti per la stessa ragione, e ci siamo messi a parlare.
Ha molti significati il titolo del recente libro di Mariano Bàino, il romanzo o racconto lungo L’uomo avanzato, uscito nella collana FuoriFormato dell’editrice Le Lettere (con postfazione di Remo Ceserani).
Il protagonista del libro è figura allegorica di una civiltà (occidentale) definibile certo ironicamente “avanzata”; è poi un uomo in sovrappiù (avanzato = eccedente) rispetto allo scorrere normale della storia: un naufrago; e infine si aggiunga che si è davvero mosso, avanzando, arrancando, fino ad approdare al piccolo e semi-inospitale arcipelago di quattro isolotti saldati che lo accolgono a disastro avvenuto. Il suo punto di vista è fuori della storia ma proprio per questo molto avanti/avanzato nel planetario di sordità e vuoto senza limiti rappresentato dalle forze naturali, indocili. Che lo incastonano, e lo cambiano, inevitabilmente.
(…) se non che arrecava sconforto il doverci allontanare dalle usanze,
le quali tengon luogo di legge, quando vengon fermate dal giro de’ secoli.
N. SANTANGELO, Discorso inaugurale del VII Congresso degli Scienziati Italiani, Napoli, 1845
Gent.mo Signor Ministro della Pubblica Istruzione sono una docente di scuola secondaria superiore e vorrei sottoporle una questione che, se io insegnassi retorica, potrebbe apparire davvero oziosa e un esercizio per studenti brillanti, ma mi creda, non è così, è solo un mercoledì di gennaio in una scuola dove le ore contano, in barba alla comune definizione ma incontro alla necessità degli studenti, cinquanta minuti.
Come ad altri indiani, mi è accaduto di scrivere sulle pagine di Liberazione. Un quotidiano importante, le cui pagine sono state aperte, negli ultimi anni, a molte e diverse voci. Adesso Liberazione sta vivendo un momento molto difficile – e la cosa che più colpisce è che, prima ancora delle difficoltà dovute alla nuova legge sull’editoria voluta da Tremonti, è che l’editore e lo stesso Partito della Rifondazione Comunista (che è editore di riferimento) sembrano lasciare andare alla deriva il giornale. Sentire che i giornalisti di Liberazione sono costretti a scendere in sciopero come sola arma di fronte a un comportamento antisindacale della controparte – suona molto, molto amaro.
Qui, il blog aperto dai giornalisti in sciopero – ai quali dò tutta la solidarietà – per informare sulla vertenza in corso.
Catweazle? Hippy tardivo? Incontro a Knüllwald con Ulrich Holbein, immerso in una “splendid isolation” a disegnare il suo universo letterario con seducente creatività linguistica.
Mi aveva avvisato, non sarebbe stato facile trovarlo. Per fortuna mi imbatto nella postina. “Ulrich Holbein?”, sì, lo conosce e mi indica la strada, in direzione opposta al centro, in un boschetto. E intuendo che avrei avuto bisogno di ulteriori aiuti, aggiunge: “Ci sto andando anch’io”.
Infatti, giunto nei pressi dell’abitazione dell’artista, non riesco a vederla: l’essenziale è spesso invisibile agli occhi. Ma già si avvicina la donna a bordo della station wagon a mostrarmi il sentiero nella giungla incantata e il viottolo lungo quaranta metri che conduce alla casa delle streghe. La porta è aperta: si intravede l’anticamera buia e pavimentata di assi.
Non è per le merendine. E neppure per la spranga, o il colore della pelle. È l’età. Non si può morire a diciannove anni, non c’è nessuna ragione valida, neppure fossimo in guerra. A diciannove anni sei immortale, uccidere un ragazzo è come sfidare gli dei. Temo il giudizio del cielo su tutti noi, ho paura a concepire cosa siamo diventati.
Non sopporterei, per altro,
una città dove qualcuno ha sofferto a lungo, inutilmente,
per un amore, continuando a sperare, ad elaborare
una storia parallela, favorevole a sé, come un calmante,
impegnandosi nei dettagli, come un letterato professionista,
e forse la letteratura nasce così, tutta la finzione che inonda il mondo,
è nata per riparare l’angoscia d’amore, e parare
lo strazio di quell’appuntamento concesso
dopo lunghe suppliche
e che sarà annientato,
perché anche camminando in lungo e in largo,
anche tenendo gli occhi fissi agli edifici,
anche sorseggiando come un agonizzante
una tazza di tè,
la persona non viene, non è venuta, non verrà,
non è possibile udirne la voce,
non è possibile riconoscerne il soprabito,
non è possibile niente.
Con grande dispiacere, ma anche con un certo sollievo, segnalo che il mio blog canopo ha interrotto (almeno per un po’) la sua attività, dopo tre anni di posting quasi quotidiano.
Per chi fosse interessato, ho preparato un’edizione in ebook di tutte le tracce apparse su canopo, sia in formato .pdf che in formato .lit. Per la versione in .pdf, ringrazio fortissimo Michele Zaffarano, ormai un vero mago del layouting e dell’editoria in digitale.
L’ebook in .pdf (248.8 kb) è scaricabile all’indirizzo:
72. le grandi infrastrutture continentali, gli oleodotti, i gasdotti, i cavi telefonici che attraversano l’atlantico e rimangono nascosti alle tue opinioni. 73. fieri alleati dell’industria del divertimento. 74. assorti, fumando fuori dalle pizzerie. 75. raffigurazioni ideologiche dei casi, a bassa risoluzione.
I RESPONSABILI hanno dei nomi. Hanno dei volti. Hanno persino un’anima. O forse no. Giuseppe Setola, Alessandro Cirillo, Oreste Spagnuolo, Giovanni Letizia, Emilio di Caterino, Pietro Vargas stanno portando avanti una strategia militare violentissima. Sono autorizzati dal boss latitante Michele Zagaria e si nascondono intorno a Lago Patria. Tra di loro si sentiranno combattenti solitari, guerrieri che cercano di farla pagare a tutti, ultimi vendicatori di una delle più sventurate e feroci terre d’Europa. Se la racconteranno così.
Ma Giuseppe Setola, Alessandro Cirillo, Oreste Spagnuolo, Giovanni Letizia, Emilio di Caterino e Pietro Vargas sono vigliacchi, in realtà: assassini senza alcun tipo di abilità militare. Per ammazzare svuotano caricatori all’impazzata, per caricarsi si strafanno di cocaina e si gonfiano di Fernet Branca e vodka. Sparano a persone disarmate, colte all’improvviso o prese alle spalle. Non si sono mai confrontati con altri uomini armati. Dinnanzi a questi tremerebbero, e invece si sentono forti e sicuri uccidendo inermi, spesso anziani o ragazzi giovani. Ingannandoli e prendendoli alle spalle.
A detta di Gianluca, il mio mio socio di studio, noi architetti ormai ci siamo trasformati in parrucchieri. E, maledizione, ha ragione da vendere! Forse è anche per questo che ultimamente mi sto convertendo sempre più alla scrittura. Sento di avere un maggiore spazio critico scrivendo, spazio che la professione pare avere definitivamente precluso. L’architettura non è più critica dello contesto, ma la sua spettacolarizzazione.
Ne Gli interessi in comune, secondo libro di Vanni Santoni, scrittore trentenne di Montevarchi nel Valdarno, appaiono chiari due protagonisti: la lunga adolescenza di un gruppo di ragazzi nell’arco di dieci anni (1996-2006) ed il luogo dove le loro vicende si intrecciano, Figline Valdarno, il demone della provincia. Gli interessi sono quelli che teoricamente fanno da collante nei rapporti interpersonali: in questo caso però il titolo è preludio ad un certo beffardo cinismo che percorre tutta la narrazione.
Non è che possa gettarla lì, lanciarla tra le due macchine parcheggiate proprio sotto la sua finestra, infilare le mani tra le serrande abbassate e i vetri che riflettono dentro la stanza il raggio dei tre quarti di mattinata, la mela. Alle quattordici e sedici – l’ora gliela scandisce a suoni di bip la sveglia elettronica a metà del comodino – tiene ancora il volto alto, aspettando dietro i buchi delle tapparelle che quella luce più forte le riappaia; ma è tranquilla, nel pomeriggio al massimo c’è il sole e nessun altro inganno. Poi, capita che giunta notte, con le lampadine che si spengono disordinatamente (sa, oramai, che Marta resta a leggere in salone mentre Giacomo si ritira a dormire) una macchina attraversi il viale vicino, svolti ad U e le punti i fari in faccia, allora si copre gli occhi grandi con le dita, Maria e conta fino a sei prima di riportare le braccia ai fianchi e intravedere dell’auto nulla di più del cofano, abbastanza in lontananza. Si è abituata ai rumori difficilmente percepibili: se una mosca le ronza intorno è lo stridio della sedia nell’appartamento di fronte ad infastidirla. Non che riesca ad ascoltare qualcosa di vivo in casa;
«Noi che abbiamo vissuto l’assedio di Sarajevo
non ne ricaveremo, si capisce, alcun profitto …
questa conoscenza è la spada che non sguaineremo
in ogni momento [ma] io almeno terrò sempre la mano
sul suo manico».
Marko Vešović, da La cavalleria polacca
Marko Vešović, poeta, ha rifiutato l’importante premio letterario “Risto Ratković” che gli è stato assegnato in Montenegro per libro di poesie “Rastanak s Arencanom” (“Addio ad Arenzano”). Non vuole accettare quel riconoscimento che nel 1993 fu conferito a Radovan Karadžić.
Radovan Karadžić, accusato per crimini contro l’umanità, scriveva poesie molto prima che diventasse un politico. Però, i premi letterari cominciò a ottenerli solo dopo essere divenuto Presidente della Repubblica Srpska di Bosnia.
(la prima e la seconda parte si possono leggere qui e qui)
51.
respiro un angelo con il diario in faccia
la luce sotto spoglie di rugiade
quella la diga con la voce del padre
morente, e le lentiggini bambine
senza amore, tra le spirali
d’ansia e l’ecumene culla.
cura del salto spargere la voce
verso il sodale strato della terra
terriccio universale starci accanto.
Ieri stavo scorrendo in rete il calendario delle manifestazioni di ottobre nel sito dell’Accademia delle Arti di Berlino, l’istituzione di cui sarò ospite tra poco, in autunno. A un certo punto, appena sotto la metà del mese, mi sono imbattuto in un nome che mi ha scosso al punto da appannarmi lo sguardo: Gino Hahnemann.
Conobbi Gino nel dicembre 2000 durante un Praktikum al Museum Mitte di Berlino, dove lui lavorava part-time per tirar su due soldi. Mi disse presto di essere un poeta, ma la sua discrezione m’impedì di conoscerlo meglio fino agli ultimi giorni di tirocinio, quando mi donò alcune sue carte. Afferrai che aveva fatto parte della scena letteraria di Prenzlauer Berg negli anni Settanta e poco altro. Il mio tedesco non era ancora sufficiente per poter apprezzare i suoi scritti. Nel 2001, poi, ci fu un breve scambio epistolare: io tradussi una delle sue poesie – fu la mia prima traduzione di una poesia dal tedesco –, lui mi rispose con una lunga lettera cui allegò un componimento sull’oggetto della mostra cui avevamo lavorato insieme (il monumento di Federico il Grande in Unter den Linden) e un articolo di giornale che criticava l’emergere di correnti neoprussiane sulla scena politica e socio-economica berlinese.