Do you remember Peteano? – Parte seconda


di
Manuela Vittorelli
qui la prima parte.

21 marzo 1973, alba.
Dal punto di vista istruttorio, dal 1° agosto all’8 novembre 1972 è il vuoto assoluto: né interrogatori, né ispezioni, né perquisizioni. L’8 novembre su ordine dall’alto l’autorità inquirente si sposta sulla pista programmaticamente “non politica”, quella della malavita locale. I sei penseranno però sempre di essere sentiti in qualità di testimoni, non di imputati.

Resen subisce un unico interrogatorio (durante il quale gli viene ricordato il suo passato nella destra e proposto di fare l’infiltrato, lui rifiuta), poi niente fino all’arresto, anche se in quei mesi si accorge di essere seguito.
Lo vanno a prendere all’alba del 21 marzo 1973. Davanti alla caserma di via Nazario Sauro un carabiniere lo guarda e dice: “L’ho visto al Brennero”. Questo perché il capo di imputazione sulla provenienza dell’esplosivo è incerto e gli inquirenti hanno detto che è stato trovato in Germania: dunque per pararsi le spalle serve qualcuno che dica di aver visto Resen passare la frontiera.
Fuori della caserma c’è una folla inferocita, giornalisti, fotografi, la televisione, tutti contro i “mostri”. Gridano “assassini”, “pena di morte”, cose così.
Quando lo portano nel carcere di via Barzellini, che sta proprio lì vicino, Resen incrocia una cugina: lei lo riconosce, capisce e scoppia a piangere. Lui le grida “Ma va’ a casa, va’!”
“Chissà perché l’ho trattata così”, rimpiangerà poi. “Ero fuori di me”.

Anche a Budicin, che nel frattempo ha perso il lavoro, viene proposto di collaborare. Gli offrono in cambio un passaporto e 30 milioni, ma lui dice che non sa nulla. Gli fanno credere che i complici abbiano fatto il suo nome, che gli conviene parlare.
Gli chiedono come mai cercassero l’esplosivo a Pieris. “Mah, forse volevano far saltare l’auto dei Rustja”, ipotizza. Budicin è terrorizzato. Però non fa nomi, non confessa. Il capitano Chirico lo informa bonariamente che l’unica cosa che può fare è avvisarlo del mandato di cattura, per permettergli di scappare.
Poi passano i mesi. Budicin non scappa. Per ingenuità, per ignoranza o semplicemente perché è innocente: fatto sta che il trucchetto della fuga (che equivarrebbe a una confessione) non funziona.
I carabinieri di Verona vanno a prenderlo alle 5 di mattina del 21 marzo per portarlo a Gorizia. Mentre gli prendono le impronte, un maresciallo gli domanda “Non tremi?”, dato che in quei momenti lì tremano sempre tutti. E lui risponde “No, perché non ho fatto niente”.

Furio Larocca si è sempre dichiarato innocente. Lui non ce l’aveva con i carabinieri, dice, lui ce l’aveva con i Fabris e i Rustja. Alle 5 del 21 marzo 1973 si sveglia, apre gli occhi e si vede circondato dai mitra. Sua madre è in lacrime, suo padre ha un grave malore.
Il primo pensiero di Furio è: “Qualcuno ha spaccato la macchina a Rustja o a Fabris”.

Gianni Mezzorana da novembre non è stato più sentito dagli inquirenti: sa che le indagini vanno avanti, ma è tranquillo. La sera del 20 marzo 1973 resta una mezz’ora a guardare un camion che brucia in una piazzola vicino a casa sua. Poi va a dormire. Alle prime luci dell’alba si ritrova i carabinieri attorno al letto con i mitra puntati. Lui pensa che abbiano bisogno di una testimonianza per il camion della sera prima. Se lo portano via.

La mattina del 21 marzo 1973, alle 6, i carabinieri vanno a prendere anche Enzo Badin. Lui non sospetta nulla, crede che sia per qualcosa che ha a che fare con il giornale. Del resto non è neanche stato formalmente interrogato, era convinto di seguire l’inchiesta. Quando legge il proprio nome e cognome sul mandato di cattura, e la parola strage, pensa a un errore. Finisce in cella d’isolamento.

Ma per primi i carabinieri vanno a prendere la Maria Mezzorana. Sono le 4.40 del mattino, è ancora buio. Lei dice “Andemo, andemo subito a chiarir” e si infila il cappotto. Mentre la portano in caserma e poi in carcere continua a ripetere “I xe mati!”.

Trieste, 1° aprile 1974.
Il processo dovrebbe svolgersi a Gorizia: invece no, viene fissato a poco più di un anno di distanza dall’arresto dei sei imputati alla corte d’assise di Trieste, come a Trieste nel marzo del 1973 si è svolto il processo per vilipendio e danneggiamenti contro Larocca e Budicin.
Non mi soffermerò qui sull’identità politica e sull’atmosfera reazionaria di Trieste in quegli anni, né sulla magistratura nera. Mi basta osservare che era la sede migliore per un processo che non doveva puntare a destra né avere implicazioni politiche. Ma quale strategia della tensione, quali trame eversive, quale pericolosità del fascismo.
Il processo per la strage di Peteano si apre il 1° aprile 1974.
Nel frattempo la stampa locale e quella nazionale non hanno fatto molto per mettere in discussione la direzione presa dalle indagini. Quando Mingarelli ha annunciato gli arresti, un anno prima, un giornalista ha svelato dettagli sconosciuti ai suoi colleghi avvalorando la tesi dell’odio e della vendetta in un articolo che non lasciava spazio ai dubbi. Quel giornalista è Giorgio Zicari del Corriere della Sera, lo stesso che aveva sbattuto in prima pagina Valpreda come autore della strage di Piazza Fontana (Zicari nel 1974 ammette in un’intervista all’Espresso di aver collaborato con il Sid).
Per quanto riguarda la stampa locale, il giorno prima dell’apertura del processo il colonnello Mingarelli va in visita ufficiale alle varie sedi dei giornali, Gazzettino, Messaggero veneto e Piccolo: strette di mano, complimenti, cordialità, plauso e incoraggiamenti.
Il processo, benché clamoroso, verrà seguito solo parzialmente dalla stampa nazionale: sono presenti per tutta la durata solo La Stampa e Il Giorno (al cui inviato, Gian Pietro Testa, dobbiamo tutto: è grazie a lui se non c’è stato un totale isolamento del processo).
Perché i sei di Gorizia non fanno notizia, sono dei poveracci.
Poveracci, sì, ma innocenti.

Il processo.
In un processo che non deve essere politico la battaglia politica comincia subito. In particolare l’avvocato della difesa Nereo Battello, comunista, imposta il processo su basi del tutto impreviste per i giudici e per la parte civile, attaccando i modi con cui gli inquirenti hanno condotto l’inchiesta. Accusa Mingarelli di aver sospeso le indagini a destra per ordini giunti dall’alto, di non avere ascoltato come testimone Giovanni Ventura che aveva dichiarato di immaginare chi fosse il responsabile della strage e lo aveva definito “uno pronto a tutto”.
Battello mette poi in luce gli errori clamorosi commessi durante le indagini.
Per esempio, quando il PM Pascoli contesta a Resen perfino il viaggio ad Amburgo per imbarcarsi, negando che risulti una prenotazione a suo nome, Resen cava di tasca il conto dell’albergo e lo presenta alla corte.
Per esempio, il proprietario della Cinquecento rubata, Marcello Brescia, viene chiamato a riconoscere in Furio Larocca uno dei giovani che quella sera stavano all’osteria di via del Brolo. Lui inforca gli occhiali, guarda gli accusati, indica Larocca e dice: “Dovrebbe essere quello là con la barba, ma non è lui”. Ne sono sicuro, aggiunge. Ma come, gli chiedono, perché in fase di istruttoria quando è stato messo a confronto con lui l’ha riconosciuto? Ma quale confronto, risponde lui, mi hanno solo fatto vedere una fotografia e basta, quello lì io non lo riconosco.
Le testimonianze di volta in volta confermano gli alibi ma soprattutto evidenziano il modo in cui Mingarelli e Chirico hanno condotto le indagini.
Perfino il legale di Larocca, l’avvocato Pedroni, che è missino e non è certo interessato alla pista nera, osserva: “Riporto i giudizi da voi espressi nel rapporto al magistrato: Gianni Mezzorana: esperto di vetture (non sa guidare la macchina, non ha la patente, è molto miope…); la sorella Maria: classica figura di istigatrice; Larocca: un violento; Badin: un noto esperto balistico; Budicin: capace di tutto per danaro. Dove avete preso queste informazioni?”
A un certo punto Mingarelli dirà la frase che riassume perfettamente il suo metodo di indagine: “Io sono stato come una scopa che ramazza tutto al buio, poi sceglie”.
Poi Di Biaggio scardina anche la tesi dell’esplosivo e nega di aver mai parlato di Peteano. Emerge anche come teste poco affidabile: “Io volevo i soldi e la libertà. I carabinieri si erano mostrati condiscendenti”.

Ma la sorpresa maggiore viene con la perquisizione della baracca di via Giustiniani, in zona Montesanto, dove Mezzorana avrebbe tenuto nascosta per cinque giorni la Cinquecento rubata.
Si osserva che la baracca è abbastanza spaziosa per contenere una macchina anche più grande. La porta della baracca è chiusa con un lucchetto. Le chiavi del lucchetto, secondo Mezzorana, ce l’hanno suo fratello e il signor Nardin. Allora si manda a chiamare il signor Nardin, che ha in uso la baracca insieme al fratello di Mezzorana. E il signor Nardin spiega candidamente che nel maggio del 1972 lì c’era tanta di quella legna accatastata che non ci si passava nemmeno a piedi, figuriamoci parcheggiarci una macchina. E che le chiavi le aveva solo lui, tanto che il fratello di Mezzorana doveva chiedergliele se voleva accedere alla legnaia.
Questo significa solo una cosa: che là dentro la Cinquecento non c’è mai stata.
Un giornalista domanda al signor Nardin: “Ma lei non è mai stato interrogato?”
“No”, risponde lui.

Per fare più breve una storia già lunga e complicata.
Il 7 giugno 1974 la corte si ritira in camera di consiglio e vi rimane sette ore. La sentenza: assoluzione per insufficienza di prove. Mentre gli imputati si abbracciano, l’avvocato Battello (inquisito, denunciato, attaccato personalmente) scoppia a piangere.
Seguirà un’assoluzione in appello nel 1976, quindi un rinvio a giudizio in cassazione per un nuovo esame nel 1978 e poi la definitiva assoluzione con formula piena nel 1979.
Dopo la conclusione del processo di primo grado per il colonnello Mingarelli giunge la promozione a generale.
Potremmo ancora parlare della successiva denuncia alla corte di cassazione del procuratore Portelli per i reati di abuso e omissione di atti d’ufficio, falso ideologico e violazione del segreto istruttorio, e dell’interpellanza di Loris Fortuna in Parlamento. Ma questa è già un’altra storia, meglio documentata.
Noi adesso vogliamo ricordare i nomi dei colpevoli.

La verità, circa.
“Ecco, allora c’è una precisazione da fare. L’attentato di Peteano non ha le connotazioni della strage. È strage sul piano giuridico. Cioè sulla base degli articoli del codice penale può essere, viene definita strage. Perché il numero dei morti poteva essere indeterminato. Cioè invece di tre carabinieri ne potevo uccidere cinque, sei, sette. Però non è strage, nel senso che l’attentato di Peteano colpisce per la prima e unica volta un apparato militare dello Stato. In un posto solitario, dove viene esclusa la possibilità di colpire i civili e ha una finalizzazione esclusivamente di opposizione al regime, cioè non si colpisce l’apparato militare del regime per dare la possibilità al regime di sfruttare quest’attentato. Ha avuto, come era nelle mie intenzioni, implicazioni politiche pesantissime. Perché anche se sono state sottaciute, negli ultimi anni, di fronte alla Commissione stragi, Francesco Cossiga ha dovuto ammettere che dopo l’attentato di Peteano iniziò il percorso di divaricazione tra l’Arma dei carabinieri e il Sid da un lato, e la destra dall’altro. Cioè l’arma dei carabinieri pur tacendo, occultando le prove, depistando le indagini, insieme ad altri apparati dello Stato (Ministero dell’interno, Guardia di Finanza) prese atto che dall’estrema destra gli era venuto un attacco di quella gravità. E cominciò a prendere le distanze, a staccare dall’estrema destra. Quindi a definire l’attentato di Peteano una strage si confondono un po’ le idee alle persone nel senso addirittura di far credere che l’attentato di Peteano avesse le stesse finalità della strage di Piazza Fontana, della strage di Bologna, della strage dell’Italicus. Esattamente l’opposto”.
Vincenzo Vinciguerra, Carcere di Opera, 8 luglio 2000

La verità si sa solo dodici anni dopo l’eccidio, e solo grazie a una spontanea assunzione di responsabilità: nel 1984 Vincenzo Vinciguerra, militante di Ordine Nuovo latitante dal 1974 (prima in Spagna, dove aderisce ad Avanguardia Nazionale, e poi in Argentina), parla.
Vinciguerra si è costituito nel 1979, motivando il suo gesto con la volontà di non compromettere con la latitanza la sua dignità di militante rivoluzionario. Al momento della confessione Vinciguerra si trova in carcere per il tentato dirottamento all’aeroporto di Ronchi dei Legionari dell’ottobre 1972, che si era concluso con la morte dell’ex-paracadutista Boccaccio e la fuga di Cicuttini.

Dice Vinciguerra: “Mi assumo la responsabilità piena, completa e totale dell’ideazione, dell’organizzazione e dell’esecuzione materiale dell’attentato di Peteano, che si inquadra in una logica di rottura con la strategia che veniva allora seguita da forze che ritenevo rivoluzionarie, cosiddette di destra, e che invece seguivano una strategia dettata da centri di potere nazionali e internazionali collocati ai vertici dello stato […] Il fine politico che attraverso le stragi si è tentato di raggiungere è molto chiaro: attraverso gravi provocazioni innescare una risposta popolare di rabbia da utilizzare poi per una successiva repressione. In ultima analisi il fine massimo era quello di giungere alla promulgazione di leggi eccezionali o alla dichiarazione dello stato di emergenza. In tal modo si sarebbe realizzata quell’operazione di rafforzamento del potere che di volta in volta sentiva vacillare il proprio dominio. Il tutto, ovviamente inserito in un contesto internazionale nel quadro dell’inserimento italiano nel sistema delle alleanze occidentali”.

Dunque Vinciguerra si assume la responsabilità per “fare chiarezza”, avendo capito che tutte le precedenti azioni dell’estremismo di destra, incluse le stragi, in realtà erano state manovrate da quello stesso regime che si proponeva di attaccare. L’attentato, nelle sue intenzioni, doveva essere un atto rivoluzionario: un’azione di guerra esplicitamente rivolta contro lo Stato, impersonato dai Carabinieri, e non contro una folla indiscriminata.
La confessione gli costa la condanna all’ergastolo. Solo quando la condanna passa in giudicato e non c’è più la possibilità di ricevere benefici in cambio di rivelazioni, collabora. Così la magistratura ricostruisce l’attività di Ordine Nuovo a Udine, guidata da Vinciguerra insieme al fratello gemello Gaetano (pare che perfino Freda parlasse compiaciuto di questo gruppo di “giovani decisi, disposti a tutto”).
Ma a Peteano Vinciguerra non ha agito da solo.

Nel frattempo il fascicolo su Peteano è finito nelle mani del giudice Felice Casson, che ha cominciato a far luce su una trama complessa di depistaggi e omertà. C’è da dire che molti sapevano, e molti avevano paura di esporsi. Per esempio già nel giugno del 1972 un funzionario della prefettura di Trieste aveva inviato agli inquirenti alcune lettere anonime, nelle quali descriveva gli attentatori.
All’inizio degli anni Ottanta Casson collega il dirottamento di Ronchi alla strage di Peteano e individua i tre responsabili: Boccaccio, Vinciguerra e Cicuttini. Quando partono i mandati di cattura, nel 1982, Vinciguerra è già in carcere (ma non ha ancora parlato). Cicuttini invece è latitante a Madrid, dove ha sposato la figlia di un generale franchista.
Casson riesce a dimostrare con una perizia fonica che il telefonista di Peteano è Cicuttini. Inoltre rinvia a giudizio per favoreggiamento aggravato Giorgio Almirante (che uscirà dal processo per amnistia): una serie di documenti bancari dimostra che Almirante ha finanziato Cicuttini in Spagna, fornendogli circa 34.000 dollari perché si operasse alle corde vocali.
Finalmente, dopo 26 anni di latitanza, Cicuttini cade in una trappola (non c’è stato verso di ottenerne l’estradizione, neanche con la condanna all’ergastolo): i magistrati italiani gli fanno offrire un lavoro a Tolosa e lui ci casca. I francesi lo arrestano, viene estradato, finisce in carcere.
A quel punto Cicuttini chiede di poter scontare la condanna in Spagna, essendo ormai cittadino spagnolo. Nel febbraio del 2001 il ministro della Giustizia Fassino risponde di no. Per forza, lo stragista sarebbe subito scarcerato.
Nell’ottobre del 2002 il nuovo ministro, Castelli, trasmette alla procura generale di Venezia la richiesta di promuovere il procedimento per accontentare Cicuttini “esprimendo parere positivo al trasferimento in Spagna”. I giudici veneziani rispondono di no. La difesa di Cicuttini fa ricorso in cassazione, il Guardasigilli conferma il parere positivo.
E la Cassazione, sesta sezione penale, con la sentenza 1729, risponde nuovamente di no. Equivarrebbe alla concessione della grazia, dice.
In quel momento Cicuttini ha scontato circa 600 giorni di carcere per ogni carabiniere ucciso.
In questo momento, invece, quel ministro della giustizia è sottosegretario alle infrastrutture.

Dunque, la verità, circa, sull’esecuzione materiale: i tre rubano la Cinquecento il 26 maggio, tolgono la ruota di scorta e piazzano all’interno del bagagliaio da 5 a 8 chili di candelotti di esplosivo presi in un paio di cave del nordest. Collegano un meccanismo a strappo al sistema di apertura del cofano e la macchina venne portata la sera stessa sul luogo dell’imboscata. Per renderla ‘sospetta’ sparano con una pistola automatica calibro 22 due colpi sul parabrezza. La pistola è di Cicuttini (verrà trovata accanto al corpo di Boccaccio dopo il fallito dirottamento, ma non se ne farà nulla).
Poi: “Senta, vorrei dirle che la xe una machina che la ga due busi sul parabrezza. La xe una cinquecento bianca, vizin la ferovia, sula strada per Savogna”. Altro che Mezzorana o Badin, quella è la voce di Cicuttini.

Un’altra storia.
I dubbi non sono tutti chiariti. Per esempio, come mai l’attentato nelle dichiarazioni di Vinciguerra è un attacco allo stato eppure lo stato fa di tutto per coprire e depistare?
Come ha scritto il senatore Pellegrino nella sua relazione della Commissione Stragi: “può ritenersi un fatto storico accertato […] l’illecita copertura attribuita agli estremisti di destra da parte di alti ufficiali dell’Arma dei Carabinieri, tra questi il col. Mingarelli, condannato dalla Corte di Assise di Venezia per falso materiale ed ideologico e per soppressione di prove, con decisione confermata dalla Cassazione nel maggio 1992” , così come “certo, o almeno estremamente probabile, deve ritenersi altresì che altro settore degli apparati, e cioè il SID (Servizio Informazioni Difesa), conoscesse l’identità dei colpevoli fin dal 1972”.
Una spiegazione sembra offrirla la scoperta della struttura di Gladio, emersa proprio durante le indagini del giudice Casson sulla strage di Peteano. La vicenda giudiziaria si chiude nel 1987 con la condanna all’ergastolo di Vinciguerra e Cicuttini quali esecutori materiali della strage. Ma da dove provenivano le armi? L’esplosivo veniva da quella cava di Aurisina scoperta pochi mesi prima dell’attentato e che poi è stata identificata come uno dei nascondigli di Gladio, provenienza secondo Casson anche degli accenditori a strappo usati per innescare l’autobomba? I depistaggi servivano a impedire che venisse alla luce la struttura segreta, che non a caso aveva complesse ramificazioni proprio qui a nordest, la zona più esposta alla minaccia comunista?
Sono molto interessanti anche altre dichiarazioni di Vinciguerra, che si è autodenunciato per esporre chi tirava i fili, e che critica Casson per essersi fermato al livello basso dei carabinieri. I carabinieri, per Vinciguerra, nella strage di Peteano hanno svolto due ruoli: uno di copertura e uno di depistaggio. Di copertura, perché in quegli anni la politica del governo era usare i neri per colpire i rossi. Di depistaggio, perché quando hanno saputo, qualche giorno dopo, che l’attentatore era lui hanno usato il deposito di Aurisina tentando di accreditare un collegamento che non c’era: perché col Nasco di Aurisina hanno fatto saltare Gladio (e Gladio era un elemento che sfuggiva al controllo dell’Arma).
Questa la versione di Vinciguerra: il Ministero degli interni e la polizia di stato hanno dato l’ordine di disinteressarsi di Peteano. Sono state fatte sparire le prove, le lettere anonime che descrivevano assai bene gli attentatori. I Servizi segreti, Miceli e il Sid a loro volta hanno lavorato per il depistaggio e per la sparizione delle prove. E infine, la Guardia di Finanza: l’ufficio “I” aveva come informatore un fascista che a sua volta, dopo l’attentato, è andato a raccontare che i responsabili erano Vinciguerra e Cicuttini, nomi e cognomi.
Vinciguerra fa un’altra rivelazione interessante: tra il 1971 e il 1972 per ben tre volte Delfo Zorzi e Carlo Maria Maggi gli chiedono di assassinare Mariano Rumor, presidente del consiglio al tempo della strage di piazza Fontana. Guarda caso le tre richieste coincidono rispettivamente con la scarcerazione e l’arresto di Freda e l’imminente arresto di Rauti. Dunque c’è un collegamento tra questo piano e piazza Fontana: si voleva eliminare un personaggio politico compromesso con la strage, dice Vinciguerra, che intuisce un legame ad altissimo livello tra Polizia, Ministero degli interni, apparati di sicurezza e Ordine Nuovo.

Ma anche questa è già un’altra storia.
Qui volevo parlare dei sei di Gorizia, di una strage anomala, dell’embolo del nordest, di una strada che io cerco di fare il più possibile (perché è molto bella) e Paolo fa ogni mattina (perché va al lavoro). Raccontare di frasche, campi di calcio, viottoli, legnaie, piste da ballo, trattorie con gioco di bocce e tiro al piccione, ristoranti. Di carrozzieri, meccanici, spiantati, muloni, pescatori, operai, imbianchini, donne con tanti fidanzati. Di partite di calcio sul primo e di film sul secondo.
Di una scritta sul muro di viale Virgilio, “Mariano Rumor boia”, di me che chiedo ad Antonia “Ma nonna, chi è Mariano Rumor?”, di lei che risponde tranquilla, soprappensiero, “forse un delinquente”.
E come facesse a saperlo non l’ho mai capito.

I sei di Gorizia si sono fatti 15 mesi di carcere, di cui due di isolamento. Poi c’è chi ha tirato avanti, chi ha ripreso a lavorare e ha fatto una vita tranquilla, chi ne è stato segnato, chi non ne può più di essere indicato come un piccolo delinquente comune ogni volta che si commemora la strage.
Alla Maria le questioni di cuore hanno dato sempre del filo da torcere. Un giorno ha dato appuntamento a due morosi sul ponte sull’Isonzo e uno dei due è finito di sotto. Adesso a Gorizia ci si ricorda di questo donnino biondo soprattutto per questo.
Romano è diventato uno chef famoso e bravissimo.

Nota dell’autrice

Questo post deve tutto al libro di Gian Pietro Testa, La strage di Peteano, Torino, Einaudi, 1976, e qualcosa ai ricordi della mia famiglia.

Altro materiale prezioso:
Aa.Vv., La strategia delle stragi dalla sentenza della Corte d’Assise di Venezia per la strage di Peteano, Roma, Editori Riuniti, 1989
Mammarella Giuseppe, L’Italia contemporanea (1943-1998), Bologna, Il Mulino, 1998 (Nuova edizione de G.Mammarella, L’Italia dalla caduta del fascismo a oggi, Bologna, Il Mulino, 1974) Mestre, 5 maggio 1987, La strage di Peteano, processo (file audio della durata di circa 6 ore)
Pellegrino Giovanni-Sestieri Claudio-Fasanella Giovanni, Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro, Torino, Einaudi, 2000
Relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi (documento .pdf di 584 pagine)
Testa Gian Pietro, Le stragi nere, Roma, Avvenimenti, 1992

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7 Commenti

  1. se posso dirlo senza entrare nel merito della storia
    mi piace davvero molto come scrive questa donna
    che leggo per la prima volta, e mi piace come ha
    scritto di questa brutta storia
    un saluto
    paola

  2. Niente da dire, una narrazione avvincente e completa sotto il punto di vista documentario, davvero complimenti.
    Una sola postilla: Vinciguerra, ufficialmente (ed anche stando alle sue memorie, esposte un un paio di libri e in alcune interviste video o a mezzo stampa, oltre che in qualche sito neo-fascista) sarebbe “solo” responsabile, nel giugno 1972, della strage di Peteano. Dovrebbe essere il suo “battesimo del fuoco”. Se così è, come accade che a uno come lui ci si rivolga (e stiamo parlando di individui ben più “scafati”, ufficialmente) per chiedergli di assassinare un ministro ex-presidente del Consiglio (cosa che verrà poi tentata nel 1973 alla Questura di Milano dallo pseudo-anarco Bertoli, su istigazione degli stessi personaggi menzionati sopra), o un attentato ai danni di Giorgio Almirante nei pressi di Bologna (lo aggiungo io, avendo letto i libri autobiografici di Vinciguerra)? È un dubbio che mi resta.

  3. Ho molto amato: si legge come un giallo. Tutto è benissimo spiegato e nello stesso momento appassionante. La scrittura va nel centro della vicenda con uno stile sobrio.
    Ho molto imparato su un periodo che sembra complicato per uno sguardo straniero.

    Complimenti.

  4. le storie non sono mai lontane, e portano sempre al presente.
    Ben realizzato, il citizen reportage con ausilio d’archivio.

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francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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