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La critica all’epoca della fine dell’opera. Omaggio a Roberto Bazlen

di Massimo Rizzante

Molti anni fa frequentavo a Parigi alcuni corsi di letteratura tenuti da rispettabili ricercatori. Il problema era che a ogni lezione si presentavano nuovi innesti che producevano a loro volta sensazionali incroci: socio-semiotica, semantica della ricezione testuale, ermeneutica del segno letterario, epistemologia della narrazione. Il mio entusiasmo scemava tanto quanto l’opera risultava introvabile.
Non andò molto meglio quando mi ritrovai con un altro centinaio di studenti alla corte di un importante teorico.
Le sue lezioni erano un monumento neoclassico eretto con scrupolo aristotelico all’arte della distinzione: lunghe liste irreprensibili di criteri, regimi, modalità, frequenze, livelli. Un sorriso da totem ipnotico gli disegnava il volto ogni qual volta celebrava il suo gusto millimetrico per le risorse etimologiche della terminologia. Ma quello che soprattutto mi colpì era il silenzio: il silenzio siderale del pubblico. Qualche colpo di tosse. Una ragazza che si soffiava il naso cercando di non farsi notare. Ricordo il suono provocato da una penna caduta fragorosamente al suolo, e che nessuno osava raccogliere. Ricordo anche che alla seconda lezione mi vennero in mente le parole di Valéry sulla noia:

“Sentimento profondo e profondamente legato all’esercizio e alla verità della letteratura, sebbene le regole della buona educazione impediscano di riconoscerlo”.

I miei seminari di gioventù non furono in ogni caso del tutto inutili. Anzi, ho imparato molto durante quell’epoca. Ho compreso in modo definitivo tutto ciò che non ero, tutto ciò che non amavo e il valore di ciò che avrei potuto amare. Fu a quell’altezza del mio incerto percorso che Bobi Bazlen si rivelò come un punto cardinale.
Che cosa devo a questo raffinato e imprendibile scrittore di note e lettere editoriali, a questo segugio di lungo corso della letteratura mondiale?
Diverse regole di navigazione critica per solcare il mare limaccioso della fine dei Tempi Moderni.
La sua chiaroveggente non collaborazione con i becchini dell’arte moderna, ad esempio.
Nella non opera critica di Bazlen si cela tutta la mancanza di fiducia nella sua epoca, un’epoca che lui chiamava di «epilogatori»: «C’è l’epoca dei prologhi, l’epoca dell’opera, l’epoca degli epiloghi», diceva. In una lettera del 1949 confermava di vivere in un’epoca di «moribondi» con queste parole: «Tutto quello che è stato fatto dalle due generazioni successive (al 1885) è frutto, mi sembra, d’un malinteso umanistico, ed è fatto senza necessità». Quanto a lui, Bazlen si sentiva qualcuno che era nato dopo l’epoca delle opere. «Fino a Goethe: la biografia assorbita dall’opera. Da Rilke: la vita contro l’opera». Le generazioni successive, spinte da «un malinteso umanistico» non hanno fatto che riepilogare le precedenti, procedendo verso l’epilogo della modernità. L’epilogo della modernità è la fine dell’opera? È questo che Bazlen adombra di soppiatto?
Roberto Calasso, nel suo saggio introduttivo agli Scritti di Bazlen, afferma che nell’epoca moderna due concezioni dell’opera vengono a scontrarsi: la prima, che pensa l’opera come «trasformazione di un materiale», si oppone alla seconda, che concepisce l’opera come «proiezione di un oggetto». Se fino alle soglie del XX secolo queste due concezioni erano «connesse», poi si scindono, entrambe destinate allo scacco:

“L’opera come trasformazione di un materiale non dovrebbe fissarsi mai; l’opera come proiezione, una volta caduto il potere vincolante del canone della proiezione – e cioè la retorica – resta affidata alla volontà del singolo, emancipato e misero, la trappola più temibile”.

Se non si sopporta l’eterna incompiutezza dell’opera né si vuole cadere nella trappola di un’illusoria emancipazione dalla tradizione, non resta che compilare note a piè di pagina, esimersi dall’ingrossare i volumina delle non opere.
Un’altra attitudine che ammirai fin dall’inizio in Bazlen fu la sua sovrana diffidenza nei confronti di ogni teoria.
La sua critica rivendica il proprio statuto etimologico: fare critica significa scegliere, innescare una crisi in chi sceglie, lottare perché l’opera sia riconosciuta come luogo di scelta.
Massimo Cacciari ha caratterizzato la «critica» di Bazlen come «estranea sia al paradigma intenzionale riflettente che alla pseudo-creatività dell’immedesimazione nell’opera», affermando che quello di Bazlen non era un «magistero interpretativo», ma «lettura».
La lettura per Bazlen, infatti, è disposizione assoluta, curiosità cosmopolita, orecchio interno. Prima di essere un’avventura della conoscenza, e forse ancor più che questo, è creazione di un vuoto e di un silenzio per la conoscenza.
Ricordate le sue parole: «Ora si nasce morti […] alcuni riescono a diventare a poco a poco vivi»? La vita affluisce a poco a poco nell’individuo man mano che l’esercizio critico si perfeziona. Non è un caso che Bazlen amasse soprattutto una qualità: lui la definiva la «primavoltità».
Per questo le ragioni della sua avventura critica si legano indissolubilmente a quelle della sua avventura umana: nell’epoca della fine dell’opera Bazlen ha con un sublime gesto di mistificazione fatto perdere le sue tracce. Egli vide con largo anticipo che nell’epoca della fine dell’opera sarebbe sopravvissuta soltanto la caricaturale immortalità della biografia degli autori.
La fine dell’opera è l’inizio dell’estetizzazione della biografia: un’altra premonizione che traspare dalle pagine di Bazlen. Anche se il suo carattere reticente potrebbe far pensare a un uomo avviluppato dal sottile velo dello snobbismo, nulla di più estraneo a Bazlen del Kitschmensch. A Bazlen non interessava la bellezza per la bellezza quanto una vita condotta per la bellezza, una vita capace di trasformarsi e creare continue occasioni di trasformazione:

“Un tizio vive e fa bei versi. Ma se un tizio non vive per fare bei versi, come sono brutti i bei versi del tizio che non vive per fare bei versi”.

Diceva Hermann Broch che in arte «chi si limita a cercare soltanto nuove sfere di bellezza, crea sensazioni, non arte. L’arte è fatta di intuizioni della realtà, e solo grazie a queste intuizioni essa si solleva al di sopra del Kitsch. Se non fosse così ci si potrebbe accontentare delle sfere di bellezza già scoperte».
La lettura di Bazlen si oppone radicalmente a ogni sistema chiuso di valori:

“Gente, perché si sente distrutta, che mi considera un distruttore e non hanno la fantasia di immaginare che distruggerli significa aprire la strada ai valori più grandi che li negano”.

Rinunciare a un sistema chiuso di valori non significa tuttavia rinunciare a interrogarsi sul valore dell’opera. Così come la fedeltà al proprio fiuto estetico non significa abbandonarsi al mare magnum dell’assenza di gerarchie. Bazlen era fin troppo cosciente che «la fine dei valori eterni» è l’inizio di una «nuova eternità» (assai più lunga della prima), l’inizio di un’epoca dominata dal Kitsch, dove alla scoperta di nuove sfere estetiche e conoscitive subentra una nozione decorativa dell’arte, e che perciò vale sempre la pena di interrogarsi sul valore dell’opera a partire dalla sua novità o «primavoltità».
Lo stesso giudizio, per certi versi impietoso, di Bazlen sulla sua Trieste è, neanche a dirlo, incompatibile con la vulgata romantica:

“A occhio e croce, direi che Trieste è stata tutto meno che un crogiolo: il crogiolo è quell’arnese nel quale metti dentro tutti gli elementi più disparati, li fondi, e quello che salta fuori è una fusione, omogenea […] ora, a Trieste, che io sappia, un tipo fuso non s’è mai prodotto”.

Trieste ha prodotto piuttosto gente, secondo Bazlen, che avendo premesse diverse ha tentato di «conciliare gli inconciliabili», degli «avventurieri della cultura e della vita». Trieste più che un crogiolo è stata una «cassa di risonanza» dell’Europa, in particolare di quell’Europa centrale (che la vulgata romantica si ostina a chiamare Mitteleuropa) che tra gli inizi del XX secolo e gli anni trenta ha contribuito a creare l’ultima stagione «viva» della letteratura europea. Lo sappiamo: «Una volta si nasceva vivi […] Ora si nasce morti […] alcuni riescono a poco a poco a diventare vivi». La «sismograficità» della cultura triestina la si poteva sbirciare nelle biblioteche «finite sulle bancarelle dei librai del ghetto». Si trattava di una cultura assolutamente non provinciale: «Provincia, perché radice – ma noi abbiamo radice nel grande mondo». In quelle bancarelle si potevano incontrare libri «sconosciutissimi, ricercati e raccolti con amore da gente che leggeva quel libro perché aveva bisogno di quel libro».
Un ultimo insegnamento di quel maestro che non si sognò mai di insegnare qualcosa a qualcuno («Non insegnare nulla alla gente: sono capaci di imparare») è il suo eclettismo, ennesima metamorfosi della Weltliteratur goethiana.
Bazlen ci presenta l’avventura critica come interrogazione sul valore dell’opera secondo un’estetica della trasformazione e dell’autotrasformazione di sé. Ma l’avventura può cominciare solo se ogni individuo è in grado di provare un bisogno specifico per un libro specifico. Perché poi l’avventura ci conduca verso ciò che è ignoto, perché si possa accedere alla «primavoltità» dell’opera, è necessario che l’esercizio critico funzioni sempre come un trasloco. Soltanto liberandosi continuamente dei vecchi mobili, possiamo occupare il nostro spazio vuoto: lo spazio della critica. Quando si legge ci si dovrebbe trovare sempre sulla soglia di casa, avendo in precedenza sgomberato tutte le stanze.
La lezione di eclettismo di Bazlen non prefigura affatto l’eclissi della critica. La vera malattia di cui soffre la nostra epoca della fine dell’opera è un’altra: è lo spirito enciclopedico, il desiderio di catalogare tutto, di possedere tutto, di memorizzare tutto per non conoscere nulla. In questo mondo troppo pieno, quasi più nessuno è in grado di provare un bisogno particolare per un libro particolare.
Oggi davanti a noi ci sono milioni di libri provenienti da tutte le latitudini del globo, biblioteche di libri, stanze piene di libri tutti attuali e tutti apparentemente degni di essere letti, ma non c’è quasi più nessuno in grado di creare uno spazio vuoto, un altrove dove accedere alla loro «primavoltità», nessun capitano di lungo corso capace di liberarci dalla zavorra delle non opere.

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26 Commenti

  1. ” Egli vide con largo anticipo che nell’epoca della fine dell’opera sarebbe sopravvissuta soltanto la caricaturale immortalità della biografia degli autori.”

    curiosamente anche Bazlen ci resta come soggetto mitologizzato, da questo punto di vista è stato un sintomo di quello che stava succedendo e sarebbe successo.

  2. Non vorrei che nella sua brevità il mio commento sembrasse negativo, mi è piaciuto questo pezzo, bazlen è stato il Lettore per eccellenza

  3. Durante il suo ultimo soggiorno a Firenze, Effeffe mi raccontava cosa venne risposto, a una sua richiesta di indicazioni su un itinerario cittadino:

    “Vede, laggiù, Armani? Lo oltrepassi, e una volta raggiunta Krizia svolti l’angolo, a destra. Prosegua fino a Cavalli, troverà un bivio, prenda a sinistra dove sta Dolce & Gabbana, ancora centro metri e sarà arrivato”.

    Quaranta [o cinquanta?] anni fa, Bazlen, durante una visita a Firenze, scriveva sul suo taccuino:

    “Al centro di Firenze… l’Upim”.

  4. per quello che può interessare:
    Cases irgendwo racconta di quando, ii° dopoguerra, dovea tappare la bocca a bazlen in società, dacch’ello incandesceva in pindarismi apologetici del fascio…

  5. E a coronare (si fa per dire) l’epilogo venne il post-moderno.
    PS.: Che anni di masochismo a go-go devi aver passato a Parigi.

  6. penso sia non nelle confessioni di un 80ario, ma nell’intervista parallela a forte.
    ho chiesto lumi a una professorona di st. cont., che m’ha risposto seccata: “impossibile, era ebreo”. al che ci ho esclamato: “….a!”

  7. trovato: Archivio storico del Corriere 6 aprile 1994

    “”Io frequentavo la casa di Elena Croce . ricorda Cases ., e li’ si parlava spesso di lui. Ogni tanto lo incontravo: faceva discorsi strampalati e una volta arrivo’ persino a difendere i fenomeni psichiatrici che avevano portato ad Auschwitz”.

    chissà cosa aveva davvero detto Bazlen.

  8. non leggo i giornali e proprio per questo ho una memoria di ferro: escludo dunque che la fonte sia quella, come che le parole di bobi fossero queste.

  9. Cases: *Bobi scopri’ Musil, mentre io, che ero un realista socialista, non lo avrei mai raccomandato. D’ altra parte, ricordo che scrisse una scheda sconsigliando le “Congetture” su Jakob di Uwe Johnson, disse che era noiosissimo.*

    donde deduco: ambedue.

  10. la “mancanza di fiducia nella sua epoca” di Bazlen è nelle parole di Broch la Zersplitterung dei valori dell’epoca, alla quale egli pensa di opporre l’opera compiuta, quella vera, completa, perché, nelle parole di Broch “lo stile è qualcosa che penetra in ugual misura tutte le espressioni vitali di un’epoca”, non c’è salvezza nelle arti isolate dal contesto dell’epoca.

  11. però c’è un però. se bobi raccomandò musil bocciando johnson, non è che cases raccomandò johnson bocciando musil, ché johnson lo raccomandò (e tradusse) filippini (x feltrinelli ≠ einaudi)

    scemo & più scemo

  12. Ormai sono andati entrambi, ma non ti sembra che ci sia una ragione di esser grati a bazlen e anche a cases, oltre che a filippini che citi e sul quale sono d’accordo, se non altro per il loro anticonformismo rispetto alla cultura italiana prevalente, così untuosa, oltre che estremamente provinciale?
    Uno ha bocciato uno scrittore l’altro un altro, e non è detto che anche Filippini non abbia detto qualche no di troppo, ma erano dei no di ben altra tempra rispetto a certi che si dicono ora, forse era merito dei tempi, non ho il culto della personalità, ma francamente, mettevano un po’ di sale in una zuppa che adesso, almeno per quanto riguarda i libri, è mediamente sciapa.
    Bazlen io non l’ho conosciuto, è morto che ero troppo piccola, ma da quello che dice chi invece lo ha conosciuto, lo ripeto, avercene, e avercene anche di quelli che li chiamavano a leggere i libri e la maggior parte delle volte seguiva le loro indicazioni. Quando lui consigliava Musil la gente qui leggeva La grande pioggia, non dimentichiamocelo, e Musil era un malloppone che far tremare le vene ai polsi di ogni direttore commerciale.

  13. si, ma considera gli effetti a cascata (solo ombreggiati nel post):

    in cura junghiana da bobi, calasso ha una gravidanza isterica, e il baby cacciari affossa il pd

  14. come sempre

    cmq, anche attribuendogli ogni possibile errore di valutazione, ogni idiosincrasia e qualsiasi altro misfatto di lettore impuro (ma esiste il lettore puro? e ci interesserebbe?) ecc. basta, almeno a me, leggere la lettera su Blanchot, con tutti i suoi malumori e le sue riserve, la sua assoluta onestà di sguardo e la sua sprezzatura, per farmi rimpiangere di poterlo leggere solo in questi due libretti
    ma credo che non ci sia proprio altro, calasso deve aver frugato in ogni angolo per poter mettere assieme le sue poche pagine

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