da “SUD” n° 3: Editoriale senza mestiere
Apriteci la casa dell’essere! E che cazzo!
Una figlia artista. Che idea. Come se l’arte fosse un mestiere. Siamo seri. Vuole fare la cantante! Ma ve la ricordate la favola della formica e della cicala? E da vecchi a chiedere pensioni che lo stato, i contribuenti, cioè noi pagheremo. Il buon senso italico – quanti film, romanzi, segreti di famiglia ruotano intorno a questo tema. Ma la ruota gira si sa ed oggi è piuttosto vero il contrario.
La società dello spettacolo di Guy Debord anticipa – i profeti però dicono ciò che in modo impreciso accadrà, non esauriscono la sorpresa della realtà – ed allora tutti a correre – ahinoi corrida! – a truccarsi, velinare, intrattenere. I professori diventano animatori – signor preside, il prof. di latino annoia mio figlio, anzi, più precisamente il latino annoia mio figlio. In epoca di flessibilità i cantanti sognano uno stabile, e gli artisti un posto fisso. Il resto della società canta e fa la festa. L’amico invitato ad una festa rispose: non posso, intrattengo famiglia!
In Italia, come nella famosa novella di Cortazar in cui un mistero avvolge la metropolitana di Buenos Aires – il numero delle persone che vi entrano è diverso, superiore o inferiore, da quelle che vi escono – dalle case editrici e stamperie a pagamento escono più libri di poesia di quanti non ne entrino. Come Duchamp che crea l’artista senza opera, il mercato editoriale ha inventato gli autori senza lettori. O artisti senza mestiere, se preferite.
L’arte non è stata sempre altra cosa dal mestiere. Non è stata, dal principio, irriducibile al mestiere, quasi la sua assoluta alternativa o l’immagine della sua ‘cattiva coscienza’, fino all’esclusione dei suoi compiti e fini dalla sfera delle attività sociali.
È soltanto con la secolare ed epica ascesa della civiltà industriale che l’artista viene infine posto davvero ai margini delle dinamiche produttive moderne, scagliando per reazione il suo anatema contro la logica e l’etica dell’accumulazione borghese.
Su questa esclusione, paradossalmente, l’artista costruisce la sua maschera di vate. È l’esclusione che si trasforma in privilegio, è il risarcimento simbolico della sottrazione subita sul piano materiale. L’alternativa è coprirsi del cerone del clown per nascondere il disagio di chi non offre servigi immediatamente utili al consumo. Tra il sottosuolo della confessione intima e l’empireo da cui il superuomo si fa guida delle folle, non passa in fondo grande differenza.
Nelle corporazioni medioevali la distinzione tra arte e mestiere non impediva la loro inclusione in una medesima categoria, in un unico ‘corpus’. Lo sottolinea l’elemento linguistico della congiunzione, che differenzia e accomuna allo stesso tempo. L’artista è artigiano con una tecnica da apprendere e trasmettere, creatore non solitario di un oggetto che non proclama la sua inutilità e originalità, come nell’estetica dell’arte per l’arte, ma risponde a un bisogno sociale, espresso ad esempio dalla pratica della committenza e sviluppato dal lavoro collettivo di un laboratorio. La porta della bottega dell’artista, come quella dell’artigiano, si spalanca sulla strada.
Per sottrarci a ogni ipoteca di nostalgia, non va dimenticato che se l’idea di mestiere implica sempre una collaborazione tra individui che si dividono i compiti all’interno di una comunità complessa, la corporazione prevede pur sempre un antagonismo tra gruppi di potere e di interesse: la competizione non è solo sano confronto per migliorarsi, ma sfocia di frequente in conflitti intestini e distruttivi. Eppure non mette in discussione la necessità della convivenza, neanche per un momento. Il mestiere è un affare irrimediabilmente collettivo. Come era – e non è più – la produzione artistica.
D’altronde l’antica assimilazione non nasce per caso. Si potrebbe dire piuttosto che la scissione tra arte e mestiere è il sintomo di una schizofrenia tutte moderna, mai definitivamente risolta, dove l’esistenza è surrettiziamente separata dalle azioni che la costellano. Dominio dell’arte è l’espressione dell’essere, secondo una diffusa e ancora influente vulgata romantica, mentre l’azione – il “fare” che caratterizza il mestiere – è sua imperfetta manifestazione, epifenomeno contingente e superficiale. Dell’insensatezza di tale distinzione aveva coscienza Calvino, che riteneva lo scrivere un atto pratico e materiale per eccellenza. Essere e fare è il titolo della conferenza sui fondamenti programmatici del suo lavoro, scaturiti dalla frequentazione di Pavese.
È sul senso di questa conciliazione che il terzo numero di Sud s’interroga, proponendo una riflessione sul tema dei mestieri. Si badi, ‘mestiere’ e non ‘lavoro’, a costo di riesumare un lessico desueto. Dalla frattura della modernità, il lavoro è soprattutto la risposta al bisogno materiale, la moneta con cui si scambia la propria sopravvivenza. Il lavoro nasce da una costrizione, un antagonismo: esso può fondare una classe, non un individuo. Nel mestiere, invece, l’individuo lascia un’indelebile traccia di sé, perché il mestiere è ancora un predicato dell’essere, forse il più importante: sono uno che ‘ha mestiere’, sono soprattutto quel che faccio, sono perché faccio. O più spesso, oggi, perché non faccio, non posso fare: sono braccia forzosamente incrociate.
Qualche anno fa, in un celebre sketch della smorfia, Massimo Troisi, improbabile Madonna che si rivolge a Dio come a un misterioso ufficio di collocamento, cita tutti i lavori proposti al consorte, ‘lavoretto’, ‘lavoro a cottimo’, ‘lavoro nero’ fino ad esplodere: «ma a Napoli lavoro e basta non esiste!»
Anno dopo anno abbiamo visto sparire dal basso artigiani e dall’alto masse operaie, minatori, operai di settore, in cambio una new economy sempre più astratta e immateriale. Agli antichi sindacati di metalmeccanici, che esibivano il valore di un ‘fare’, si è sostituita l’associazione dei consumatori, che rivendica invece la centralità di chi fagocita il manufatto.
Se precariato e flessibilità introducono un modello dominante di sapere anonimo, alienato, privo delle caratteristiche che rendono il mestiere un saper fare ‘esistenziale’, non si può evitare di osservare un pericolo altrettanto diffuso, forse simmetrico. Essere totalmente immersi in quello che si fa, essere solamente in quello che si fa, essere insomma quello che si fa, spersonalizza l’individuo che, al difuori del recinto nevrotico ma rassicurante del suo lavoro, non ha altra identità e passione, non comunica altro che ciò che fa.
Per lui la parola d’ordine è produrre. Produrre ordine, innanzitutto. L’idea di progresso, disinnescata da quella dell’insicurezza, ha creato nuovi mestieri e soprattutto business inimmaginabili. Si pensi ai costi di un evento sportivo o spettacolare. Alla guerra o alle Olimpiadi e al nuovo mercato degli addetti alla sicurezza, al costo dei dispositivi, dal semplice allarme alla attivazione del controllo di terra e cielo, mare e strade. L’insicurezza tradizionalmente era il futuro. Oggi è il presente.
E non risparmia nessuna piega dell’esistenza, fino a metterla in questione per intero. Morti sul lavoro, morti bianche in luoghi neri di grasso per motori: non fanno notizia perché con la vergogna l’audience non familiarizza con facilità. Non possono essere il prezzo da pagare perché il prezzo di una vita lo decide chi la vive, non altri. Eppure, continuano a strisciare nelle coscienze avvertite, emergono a tratti prima di risprofondare nell’anonimato del bianco e nero, ormai ben poco di moda, dove sempre più spesso la morte bianca stinge i colori di una pelle dai pigmenti vari e screziati.
Il lavoro disprezzato, deprezzato, sommerso; il lavoro per cui si muore – l’esito opposto al suo reale scopo, quello di garantire la vita – è la forma contemporanea e forse più pericolosa della separazione tra essere e fare. Stavolta però non restano spazi, neanche marginali, per l’essere. Il sogno dell’artista, prima nascosto nel sapere dell’artigiano, poi esibito come alternativa irriducibile a tale sapere, si sta trasformando nel brutto incubo della sua eclissi in un mondo dominato soltanto da un fare insensato e disumano. Bisogna provare ad accendere una favilla di senso. Svegliarsi.
Indice autori
David Albahari – Fernando Arrabal – Mariano Baino – Elisabeth Barillé – Piero Berengo Gardin
Mario Bernardi – Esteban Buch – Massimo Cacciapuoti – Piero Cademartori – Mario
Campagnuolo – Giuseppe Catenacci – Biagio Cepollaro – Stanko Cerovic – Béatrice Commengé
Cesare Cuscianna -Paola De Luca – Luis de Miranda – Dominique Delcourt – Zaida del Rio –
Jean-Philippe Domecq – Andrea Di Consoli – Jean Daniel Dupuy – Luigi Esposito – Stefan
Finke – Francesco Forlani – Tomas Frybert – Antonio Ghirelli – Marco Giovenale – Paolo
Graziano – Domenico Grifoni – Andrea Inglese – Petr Kral – Cristophe Leblanc – Olivier
Maillart – Giorgio Mascitelli – Giuliano Mesa – Isabelle Miller – Stefania Nardini – Walter
Nardon – Roxana Pàez – Frédéric Pajak – Matteo Palumbo – Marco Pelliccia – Alexandra
Petrova – Felice Piemontese – Maytree Platel – Lakis Proguidis – Renata Prunas – Eleonora
Puntillo – Margherita Remotti – Massimo Rizzante – Danièle Rousselier – Roberto Saviano –
Domenico Scarpa – Lucrezia Scotellaro – Giovanni Andrea Semerano – Michele Sovente –
François Taillandier – Silvia Tessitore – Paolo Trama – Jacques Vallet – Riccardo Venturi –
Lello Voce – Spyros Vrahoritis – Peter Waterhouse –Wu Ming
SUD, n° 3, periodico di cultura, arte e letteratura, LIBRERIA DANTE & DECARTES, Napoli (distribuzione: librerie Feltrinelli)