Chinatown 2

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di Fabio Santopietro

Abito alla cosiddetta china town da poco più di un anno in una bella casa borghese, in effetti la prima della mia vita e che se non fosse per la donna con cui vivo non potrei neanche permettermi. La casa sta addirittura su due piani. La mia è la visione di superficie del cittadino qualunque. Non ho fatto indagini, domande, ricerche o interviste. E le cose che sul tema ho ascoltato di solito mi sono state riferite da altri e di loro iniziativa. E non sono nemmeno molte.
Leggendo un articolo apparso sul “Corriere della Sera” un paio di giorni dopo le manifestazioni e gli scontri che hanno movimentato il quartiere scopro con sorpresa che qui i residenti sarebbero italiani al 95 per cento. In effetti non è quello che si vede andando a zonzo. Ho il sospetto che sia una cifra gonfiata allo scopo di rendere ancora più “duro” constatare che la stragrande maggioranza dei negozi sono invece gestiti da cinesi. Scarpe, mutande – di mutande c’è una varietà fantastica, mezze dozzine di esercizi che vendono solo mutande per lo più coloratissime – film di produzione orientale, internet point, vestiti, e sono di solito inaccessibili perché a quanto pare vendono solo all’ingrosso, mentre fino a una decina d’anni fa la zona di Paolo Sarpi era una specie di propaggine del centro per gli acquisti privati.
L’aggettivo duro l’ho messo fra virgolette perché, nello stesso articolo, così un’intervistata diceva del vivere in un quartiere che conta quattro scuole e nemmeno una cartoleria. È sorprendente che per quella signora sia duro vivere in quartiere senza cartolerie. Addirittura duro. Una signora che presti attenzione all’esercizio cartoleria me la immagino di età abbastanza giovane da poter fare quattro passi alla ricerca del suo negozio per le penne e i quaderni destinati ai figlioli delle elementari. La signora è per giunta in errore, perché nella via Messina una piccola cartoleria c’è, non è molto fornita ma io ci ho comprato matite e una risma di fogli, solo che è gestita da un cinese, in effetti abbastanza stralunato quando mi ha visto entrare, e può darsi alla signora non piaccia, o non l’abbia notata, o ci sia passata accanto senza accorgersi che era proprio una cartoleria. Che per conto mio non ho fatto fatica a scoprire. Sono andato da Mario, dal tabaccaio, un altro intervistato nello stesso articolo del Corriere, e gli ho chiesto sai dov’è una cartoleria? E alzando l’indice lui mi ha detto lì dietro, in via Messina, sul marciapiede di sinistra.
È duro vivere in un quartiere senza cartolerie, un tipo di negozio per il quale in effetti io nutro una passione.
Una seconda balordaggine la dice ancora una volta una signora. Giovane senz’altro, questa volta, perché l’ho vista intervistata in video. Per rendere più toccante la sua deposizione, ha sottolineato il suo stato di giovane mamma con due bimbi piccoli: secondo lei è “impossibile” transitare sui marciapiedi coi passeggini perché “i carrelli”, i famigerati carrelli da trasporto te lo impediscono. Questa dei carrelli la si sente in continuazione. Si direbbe che i pedoni, fissati su rotaie, da queste non possano deviare in alcun caso.
È vero, c’è una regola che prescrive un orario preciso per il carico e scarico delle merci, mi pare in mattinata, mentre il via vai di questi carrelli stracarichi spinti da cinesi sembra senza soste, ma da lì a dire in televisione che sia impossibile transitare con una o due carrozzelle ce ne passa.
Non ci sono zone franche, ha detto la sindachessa. Tutti devono rispettare le regole, come dire anche i cinesi. È giusto. Eppure, sembrerebbe strano che in uno dei paesi più irregolati del mondo siano tanti i cittadini tanto sensibili al rispetto delle regole. Nel Paese con più di 60 automobili ogni cento abitanti (contando anche anziani e neonati che non guidano) contro una media europea di cinquanta su cento e quasi 38 milioni di macchine con un solo passeggero a bordo suona bislacca questa bramosia del rispetto delle regole.
Quando un’amica che per la prima volta mi veniva a trovare ha chiesto, col sorriso sulle labbra, come fosse vivere con tutti questi cinesi, le ho più o meno risposto che il problema più grave dei cinesi mi sembravano gli italiani.
La cosa non è nemmeno del tutto vera, gli italiani non sono tutti uguali, e ce ne sono parecchi che la pensano con moderazione non priva di intelligenza. Ma di solito a prender piede non è l’intelligenza della moderazione, o la moderazione dell’intelligenza.
“I cinesi non si integrano”. Di primo acchito, quel che sembra è che semplicemente si facciano i fatti loro, con stoica fierezza che qualche volta sembra arroganza e qualche volta no.
Comunque, quelli che non discriminano, non ne parlano, o ne parlano poco. Al contrario, il suono che più di frequente si sente circolare nell’aria è appunto discriminatorio. Li si chiama “quelli” o “loro”. Da un portone opposto nella piccola via in cui abito così inveiva una tipa non cinese: “sono sempre loro”. Carico e scarico. C’era un furgone – ce ne sono sempre, in effetti – le cui formichine si davano da fare nel caricare e scaricare misteriosi imballaggi, e mentre un paio di loro si prodigavano in segnalazioni per agevolare il passaggio di una macchina, la tipa gridava appunto “sono sempre loro”.
Sullo stesso giornale sopra citato si riportava la veemenza di un passante indirizzata a un altro che l’avrebbe urtato, per sbaglio, il primo italiano e il secondo cinese, cui l’italiano avrebbe urlato “se mi urti ancora ti ammazzo”. La prima cosa che mi è venuta in mente, ingenua presumo, e a parte l’istintiva sensazione di forte fastidio e anzi vergogna e spavento, suona più o meno così: è mai possibile che, fra le persone approssimativamente normali, quelle che si alzano la mattina nella più o meno accogliente borghesia dei loro letti, che vanno al lavoro o alla scuola – il nostro era un cosiddetto giovane – che mangiano due o tre volte al giorno e magari anche di più, bevono il caffè, la birra, il vino e tutte le stronzate che si bevono e mangiano la pizza, che hanno la macchina pronta ad accogliere i loro deretani, forse più di una, venga in mente di usare una proposizione simile, in una simile situazione, con tutto quello che succede e soprattutto è già successo, venga in mente di dire, e poi effettivamente e soprattutto dica a uno che l’ha urtato fosse pure nemmeno del tutto per sbaglio una cosa come “ti ammazzo”?
E come avrebbe eseguito la bisogna, quel temerario giovanotto, con una delle sue scarpe firmate magari “made in China”? Coi piedi? Con le mani?
Una ragazza cinese intervistata, nel suo italiano raffazzonato ha espresso un semplicissimo concetto: gli italiani non ci vogliono e ci dicono di ritornare da dove siamo venuti.
Una sera io e Stefania stavamo guardando qualcosa alla televisione, un film, mi pare. Le due finestre del salotto si affacciano sulla strada dal primo piano. A un certo punto da lì si leva uno strepito, la voce di qualcuno che dice qualcosa con veemenza. Passa qualche minuto con quella voce, che pure si sentiva forte, a rimanere sullo sfondo. Non le presto attenzione. Dopo un po’ il vociare, che continua, mi sembra così insistito e puntuale, sempre sotto la finestra e senza spostarsi, che decido di affacciarmi con la sensazione che ce l’abbiano con queste parti. In effetti, giù ci sono quattro giovanetti. Uno sta seduto su un panettone e si tiene una mano sulla testa, due stanno zitti senza guardare in su se non di tanto in tanto, e il quarto urla e guarda per aria, proprio all’indirizzo delle nostre due finestre al primo piano. Vedo che i 4 non devono avere più di 17 anni e sono palesemente brilli. E quello che urla, che prima guardava alla finestra di fianco, appena apro le imposte decide di urlare a me direttamente: dice che ho sputato in testa al suo amico, quello che si tiene la mano sul capo e siede contrito sul panettone. Decido, usando un tono del tutto conciliante, di provare a fargli capire che di sputare in testa al suo compare non mi è passato nemmeno per la testa, che in effetti avevo altro da fare, cerco di partecipare, o meglio di indurlo al tentativo di capire cosa sia successo, e così gli suggerisco di osservare la costellazione di escrementi di piccione che arricchiscono la pavimentazione stradale, e che temo sia stato proprio un piccone, ahilui, a “sputare” in testa al suo amico, e mi dispiace, gli dico. Alla banda dei quattro, tutti palesemente cinesi, si aggiunge a un certo punto anche uno zelante italiano, che si prodiga nel tentativo di calmare gli animi e si mette perfino a rovistare fra i capelli della vittima per rintracciare i segni del guano. Mentre uno dei quattro si è già dileguato, un altro tenta di strattonare il facinoroso e l’offeso resta ancora zitto seduto sul panettone e con la testa fra le mani, presumo più per l’effetto degli alcoli che della cacata del piccione, finalmente il facinoroso sembra calmarsi. Si volta come per andarsene  e, con le spalle girate, solleva un inatteso vaffanculo. Naturalmente l’ho mandato a vaffanculo anch’io, che a quel punto cominciavo ad averne le palle piene, e altrettanto naturalmente la mia reazione è stata una bestialità. Infatti il ragazzino, che non aspettava altro, ha cominciato a raccattare da terra lattine spetasciate e a lanciarmele contro. La scena era anche comica, a ben vedere, perché le latte, leggere, svolazzavano come foglie senza nemmeno raggiungere la finestra. Nel frattempo mi invitava a scendere per darmi la dovuta lezione. Figurarsi.
Siccome non la piantava, di urlare e lanciare lattine (aveva anche aggiustato il tiro e più di una raggiungeva i vetri della finestra) io, lo confesso, ho alzato il telefono e chiamato la madama. Hanno detto che avrebbero fatto un giro nei dintorni e dopo una ventina di minuti i ragazzetti se la sono data a gambe.
E questo è quanto.
La somma delle voci, anche meno violente, che s’affratellano a quella dell’ammazzatore, hanno prodotto la sensazione della ragazza cinese intervistata, cioè che gli italiani non vogliono i cinesi, che a sua volta, nei meno temperanti sedicenni, ha fatto credere immediatamente, senza mediazioni, che fosse assai più probabile, sotto a grondaie affollate di piccioni e due finestre illuminate e chiuse, che il passante fosse stato preso di mira dallo sputo di un italiano piuttosto che centrato per jella dagli escrementi del volatile. Chissà quante volte quei ragazzetti, di giorno sobri, hanno orecchiato le voci “italiane” insultare i loro padri e le loro madri.
A peggiorare le cose, adesso c’è anche la manifestazione della Lega, la Lega Nord, figuriamoci. C’è anche chi dice, e lo hanno pure scritto, che la violenta esplosione di protesta dei giorni scorsi fosse premeditata, perché a quanto pare bandiere e striscioni son saltati fuori con troppa tempestività. Le istituzioni lasciano correre, forse spinte dal danaro, ma questa è un’ipotesi che non si dovrebbe formulare, dal danaro che certe organizzazioni, che probabilmente sono cinesi ma che non sono i cinesi e alle quali non tutti i cinesi debbono necessariamente affiliarsi, posseggono in abbondanza e distribuiscono con generosità. E sono in primo luogo queste fantomatiche associazioni più o meno delinquenziali a desiderare la quiete, a desiderarla a dispetto dei pregiudizi che fioccano contro la cinesità. Così la semplice gente può coltivare il pregiudizio, gli uni attaccando e gli altri non potendo reagire, perché i due poteri se ne infischiano nel primo caso e tendono a reprimerlo nel secondo, per la quiete e la libertà dei traffici.
Ma se ci sono gli italiani otturati dal pregiudizio, se ci sono pure i giovanetti cinesi inviperiti perché loro e i loro padri vengono insultati, ci sono anche quelli che oggi sulle vetrine dei negozi, con toccante goffaggine, scrivono che “siamo milanesi anche noi”. E ci sono pure quelli, e sono a giudicare dal numero degli incontri la maggiori parte, che quando al passaggio pedonale ti fermi per farli passare, benché in realtà in quanto pedoni abbiano il diritto di precedenza, non solo ti ringraziano, ma ti sorridono e si inchinano. E io voglio immaginare che in quei frangenti pensino ma to’, non stiamo sulle palle a tutti gli italiani, e penso e mi auguro, anche se ne sono tutto tranne che certo, che tali atteggiamenti, magari anche retorici, magari anche razzisti al contrario, perché forse cedo più volentieri il passaggio a una donna cinese che a un uomo italiano, facciano pensare che il pregiudizio possa passare in second’ordine, addirittura scomparire, frantumato dalla reciproca gratitudine degli inchini in zona Paolo Sarpi.

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12 Commenti

  1. Sacrosanto Santopietro, ma resta sempre la figurina del console cinese.
    Un saluto alla cara Helena.

  2. probabilmente le numerose mutande colorate vengono usate dai cinesi per difendersi la testa dagli sputi degli italiani e dal guano dei piccioni, questi ultimi affiliati ai primi in nome di una solidarietà tutta meneghina.

    PS. continuo a ritenere il problema di via paolo sarpi e dintorni non come una questione Italia vs Cina ma come un problema Residenti vs Commercianti (e dunque assimilo paolo sarpi ai navigli, dove abbiamo solo italiani).

    il sedicenne (sedicente) cinese probabilmente è adolescemo tanto quanto il suo coetaneo italiano, senza il bisogno di tirare in ballo l’orgoglio nazionalista.

  3. Ho anche io un amico sceneggiatore che si scrive i film con la propria immaginazione e poi si incazza anche per i contenuti (quasi sempre sociali) che tratta.
    Non è meglio smettete di produrre film e vivete la realtà vera?
    Probabilmente vi incazzereste di meno e potremmo comunicare.
    Buona fortuna.
    Ciao

  4. concordo, e grazie, visto che di questi tempi sembra così difficile parlare di immigrati senza di mezzo i soliti pregiudizi…
    Lavinia

  5. ripeto alcune considerazioni fatte a caldo su altri siti:
    1)la cultura cinese esiste da millenni e da millenni si autoregolamenta
    2) è un sistema sociale orientato al regime, alla gerarchia di comando
    3)qui e nel mondo producono ricchezza secondo il semplicissimo assioma “l’unità fa la forza”.

    In un ambiente di questo tipo, è sufficente parlare ad uno dei loro capi per ottennere il risultato su tutti, anzichè applicare pedantemente regole che se non passano attraverso i loro sistemi di regolamentazione rimangono astratti e inefficaci.

  6. si con la differenza che noi siamo scomodi nell’organizzazione. Anzichè 1 capo, ne abbiamo migliaia, tutti con poche idee ma confuse. Non si sa chi comanda chi e perchè.

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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