Dal carcere di Bacau (2)

forest2.jpgforest91.jpg di Helena Janeczek

Io non volevo ammazzare la bambina! Io non volevo! Io non volevo scoparmi la bambina e non volevo farmi inculare né dalla vecchia checca di infermiere né da nessuno, io non volevo essere un frocio pervertito, io non volevo! Volevo sposare la mia fidanzata, volevo trovare una casa, volevo i soldi, io non volevo essere uno zingaro fetente che resterà sempre con le pezze al culo, volevo essere ricco e bello e rispettato, volevo i vostri soldi, volevo essere come voi!
E se non avessi avuto questa qui, se non avessi la mano destra rovinata, ci sarei riuscito, giuro! Ve lo giuro sulla tomba di mio padre.
Avevo sette anni quando mio padre ordinò a mio fratello che doveva portarci a fino a Budapest, me e il mio fratellino che ne aveva cinque, perché mio fratello, il più grande, gli aveva detto che ci sarebbe stato una cosa enorme, un grandissimo concerto di una band famosa in tutto il mondo che per la prima volta veniva a suonare in un paese dell’Est, e allora sarebbero arrivati a sentirli da ogni parte, persino dall’Unione Sovietica e dalla DDR, e sarebbero arrivati tutti i ragazzi più ricchi dei nostri paesi, i figli dei quadri e dei generali, forse persino i figli del nostro Conducator.
In realtà, mio fratello voleva andarci lui. Questo mio padre dev’averlo anche capito, non era mica scemo, mio padre, nemmeno se era sbronzo lo diventava, e anche se partivano le sberle in faccia, quelle col dorso, quando beccava qualcuno di noi che consumava le pile della radio per ascoltare quella musica, quella roba da froci e indemoniati come la chiamava, capiva che mio fratello più di tanto non gli stava raccontando palle e c’era davvero la possibilità di farci tornare a casa con una quantità mai vista di denaro.
Mio fratello e pure mia sorella, i più grandi fra quelli non sposati, la sentivano lo stesso, erano fissatissimi con la musica rock, non appena i miei stavano fuori e loro invece erano in casa, si piazzavano in un angolo della branda e cominciavano a maneggiare, tanto mia nonna non sentiva un cazzo, tanto il nonno era rincoglionito già da tempo e non faceva altro che ripetere sempre le sue storie di guerra, parlava da solo, parlava e parlava, e raccontava sempre da capo la storia di quando lo avevano deportato in Transdnistria, di quella volta che nel campo di lavoro aveva fregato un pezzo di pane a un ebreo di Cernauti, a questo ragazzo che aveva più o meno i suoi anni, ma era tutto delicato e bianco come una bambina, questo ebreo che a quanto pare dopo sia diventato un poeta famoso, non so come diavolo mio nonno possa averlo saputo, ma era chiaro che questo fatto lo rendeva particolarmente orgoglioso, aver fottuto il pane a un tizio che poi non era crepato come sembrava allora, ma per una cosa o un’altra era diventato persino famoso.
Parlava di giorno e di notte, anzi di notte gridava, gridava “Scheisszigeuner”, “Diebesbrut”, mentre dormiva gridava queste parole in tedesco e di giorno ce le spiegava, “zingaro di merda”, “stirpe di ladri”. Diceva che i rumeni non se ne fottevano se uno zingaro a un ebreo portava via la sua razione di pane, anzi a loro andava benone, ma quello stronzo bastardo di un tedesco, forse perché l’ebreuccio pallido, maledizione, il tedesco lo parlava molto bene, perché magari in tedesco sapeva anche dirgli delle poesie, perché gli ebrei sapevano queste cose che a volte gli servivano per leccare il culo ai tedeschi, mentre noi no; mentre mio nonno no, mio nonno sapeva solo che quell’ebreo era già quasi morto e come altre volte si era dato da fare e non poteva immaginare che ci fosse uno stronzo di tedesco che lo curava. Il tedesco comincia a sbraitare col fucile puntato, e subito mio nonno lascia cadere il pane gridando “tschuldigun’, tshuldigun’, Herr Kommandant”, continua a ripetere “tschuldigun’, tschuldigun’, Herr Kommandant”, anche se il tedesco comandante non lo era manco per sbaglio, ma era Dio in terra e per cercare di allontanare l’ira di Dio, spiega mio nonno, uno non può far altro che pregare, e infatti quello sposta il fucile, lo punta all’ebreo e gli ordina di raccattare il pane, così l’ebreo lo raccoglie e lo pulisce come può e con i denti che battono si mette a mangiare.
Stanno così. Stanno in un silenzio assoluto, tutti li guardano senza fiatare. Dovranno stare così fino a quando l’ebreo bianco come la morte non ha finito di mangiare. Potrebbe finire lì. Potrebbe persino toccare all’ebreo che trema troppo, che mostra troppo schifo a masticare il pane zuppo di terra e fango. Ma ingoia tutto. Dopo alza gli occhioni neri che dal terrore sembrano uscirgli fuori dal cranio come per dirgli “ho fatto”, e il tedesco con un cenno gli concede di abbassare lo sguardo. Chiama un rumeno, gli dice qualcosa, non si sente, non sembra più arrabbiato. Nessuno si muove, nessuno fiata.
Poteva finire lì, ma non era finita.
“Du Dreckszigeuner”, urla il tedesco, “hast noch Hunger, was? Dann friss, du Schwein!”
Tremava anche mio nonno ogni volta che ce lo raccontava, “hai ancora fame, zingaro di merda? allora mangia”, tremava e piangeva,”mangia maiale!”, faceva gesti annaspanti in aria per farci vedere, era un pezzo di carne, un pezzo enorme, il rumeno l’aveva dato al tedesco, il rumeno l’aveva portato ma aveva portato anche i cani, “ein Schweinebraten für unseren Satansbraten”, il tedesco aveva fatto un gioco di parole e rideva, il rumeno rideva, mio nonno non capiva, mio nonno tremava e piangeva e alzando le mani in aria cercava di farci vedere quel gigantesco arrosto di maiale, il tedesco lo buttava a terra e ordinava a mio nonno di mangiare, “jetzt, friss Zigeuner”, e quando mio nonno si abbassò per prendere con le mani quella montagna di carne, allora gli arrivarono addosso i cani.
Vuole buttarla, vuole mollarla ai cani e scappare, ma il tedesco lo tiene di mira e sbraita, “cos’è, razza di ladro, non volevi abboffarti, e allora mangiati la carne dei miei cani”, e mio nonno capisce che appena molla la presa quello gli spara, e allora addenta la carne cruda, se la contende a morsi con i cani, morde la carne che mordono i cani che mordono lui.
E’ così terrorizzato da non sentire il dolore dei cani lupo che lo sbranano, è così terrorizzato da sentire solo il gusto del sangue della carne, non si sa quale, così terrorizzato da pensare “i cani tedeschi non hanno fame, i cani tedeschi non hanno fame, i cani tedeschi non hanno fame.” Non sa quando è finita. Dice che se non ci fosse stata mia nonna nel campo, sua moglie che per dovere l’ha curato, che per salvarlo ha fatto rubare e ha rubato, lui sarebbe marcito entro un giorno. Invece è tornato a casa e l’ha subito ingravidata del primo figlio.
Cos’è, non vi è piaciuta? Non era questa la storia che volevate? Non ve ne fotte niente di mio nonno in Transdniestria, non sapete neanche dove stia? Stavolta non vi credo io. Vi ho visti, vi ho guardati in faccia. Eravate tutti pallidi e delicati anche voi, poveri sbirri italiani. E adesso non venite a dirmi che non ci credete, non vi risulta che abbia mai avuto un nonno ancora in vita! Se anche così fosse, cambia molto? Se non fosse stato proprio mio nonno, ma il nonno, lo zio, padre o padrino di qualcun altro, perché a qualcuno giuro è capitato, voi non mi avreste ascoltato bianchi come lenzuola?
Volete sapere quante volte ho rifilato questa storia a gente come voi, gente per bene come voi che si riempie d’orrore e commiserazione? Molte. Sì, ci marciavo, ci provavo, almeno. Non sempre funzionava. Sapete che quando la raccontavo ai miei amichetti di Sanremo, quelli che vi scoccia interrogare, c’era qualcuno cui, superato il primo shock, gli si rizzava, gli veniva proprio duro? Volete sapere chi? Volete saperlo o no? No, non volete. Non l’infermiera, certo, troppo piangnona.
Voi volete solo sapere perché si è ammazzato, lo so, lo so, ma io stavo qui dentro, che posso dire. Ho conosciuto troppi morti, io.
D’accordo, eliminiamo il nonno, benissimo per me, fa meno uno, il nonno no, il padre sì, prima che si schiantasse ovviamente, il padre che decide di mandarci a Budapest in tre, talmente esaltato dalla certezza di essere l’unico intorno ad aver scoperto questa possibilità di fare soldi da tornare a casa con birra carne e dolci, talmente su di giri dopo cena da non rispondere subito a sberle quando mia sorella, la più grande, quella morta, osa chiedergli di mandare anche lei, che lei avrebbe curato noi bambini.
“Tu stai a casa”, fa mio padre, ma mentre lo dice gli occhi gli brillano.
Il giorno dopo, mentre stiamo già per partire, all’alba, per non farci vedere dai vicini, mio padre la chiama: “vai, fai finta di essere la loro madre, li porti in giro tu, così tuo fratello può andare in giro a ripulire. Adrian però sta attento che con le mani sei bravo solo a farti seghe. Se ti beccano, se ti fai portare via la roba, te la vedi prima con gli sbirri ungheresi e poi con me, capito? E tu non provare a fare la puttana, che se vengo a sapere che ti sei fatta vedere coi pantaloni, ti spacco le ossa delle tue gambe da troia che non riesci più a camminare. Adesso andate, che Dio vi benedica”.
Da soli non eravamo mai stati lontani dal nostro villaggio lungo la strada, da Plopana, dove per volere del nostro Conducator eravamo stati collocati. Fino a quando non lo ammazzarono, Ceauşescu aveva proibito che nella nuova nazione su cui regnava e splendeva ci fossero cittadini senza fissa dimora né lavoro regolare e aveva quindi risolto la questione zigana spruzzandoci sul territorio come paprika o come sale che solo se troppo concentrati diventano amari e fanno male.
Avevamo due settimane per arrivare a Budapest e un paese e mezzo da attraversare. Non avevamo soldi e non avevamo idea della strada, sapevamo solo che dovevamo andare sempre ad ovest e i nomi di alcune città più grandi per cui conveniva passare.
La prima era questa, era Bacau, sempre avanti, su e giù per le colline, lungo la provinciale, ma col divieto di percorrerla direttamente se non per l’impossibilità di proseguire in altro modo per qualche tratto breve. Altrimenti ci avrebbero riconosciuti, non avrebbero creduto alle nostre balle su matrimoni o funerali, ci avrebbero seguiti e allora non saremmo stati più gli unici zingari di Plopana e vicinanze a mungere la vacca grassa del concerto lontano. Ma dopo quattro ore di marcia più o meno nei fossati mio fratello Mihai, quello piccolo, inciampato mille volte, si impiantò piangendo sul bordo della strada e anch’io non ce la facevo quasi più a camminare. Così mio fratello Adrian, quello grande, disattese per la prima volta gli ordini di mio padre. Ci fece riposare e proseguire sulla strada e quando vide una macchina arrivare da lontano e dentro la macchina una donna bionda e sola, la fermò e ci fece portare fino alla capitale.
La donna diceva di essere un’insegnante e di dover andare in un ufficio chiamato della pubblica istruzione, ma capimmo presto che mentiva più di noi perché insistette troppo per accompagnarci alla stazione e per il resto taceva, sembrava aver paura persino di noi zingari ragazzini e quando ripartì, si fermò alla fine della strada voltandosi un istante per essere certa che non la seguivamo. “Securitatae” mormorò Adrian a Mariana, nostra sorella, quella morta, ed era soddisfatto di aver intuito la nostra fortuna, perché se quella tizia aveva qualche guaio con la polizia segreta il nostro viaggio in macchina rimaneva segreto anche lui.
Era allora, alla stazione di Bacau, che vidi per la prima volta la torre del vostro albergo, era davanti all’ Hotel Moldova che per la prima volta Mariana ci fece mendicare e la mia mano da poco sfracellata, molto più gonfia e grossa di adesso, ci procurò i nostri primi soldi.
Mihai era un bel bambino zingaro, lercio manco farlo apposta per tutte le volte che era caduto lungo la strada, gli occhi grandissimi in un corpo magro lo facevano sembrare più piccolo della sua età, forse era davvero cresciuto meno perché a casa nostra non c’era mai granché da mangiare, anche se il peggio della fame sarebbe venuta dopo, dopo la morte del nostro Conducator, comunque era l’insieme dei suoi occhi neri e della mia mano rossa e deforme che apriva i portafogli.
La sera ci comprammo pane e formaggio, persino una bottiglia di tuica che dovemmo assaggiare anche noi bambini, ci venivano gli occhi rossi per il forte bruciore, ma era il brindisi al nostro viaggio, nostro fratello Adrian lo esigeva, verso l’imbrunire tornammo sbronzi e stravolti a dormire in stazione.
Era Mariana che aveva bevuto meno a svegliarci molto presto la mattina, dovevamo capire in fretta da dove partivano i pullman e i pulmini, avremmo dovuto cercarne uno che andava direttamente in Transilvania, a Targu-Mures o Cluj-Napoca, ma dei soldi almeno un terzo li avevamo fatti fuori e quindi ci toccava in ogni caso fare scene di suppliche e pianti per lasciarci salire.
Mihai aveva la febbre, l’aveva veramente, e si vedeva. Sarà stata la fatica o la tuica del giorno prima, non lo sapevamo, ma Mariana a quel punto si rifiutò di tirare fuori anche un solo leu, era nel panico, aveva dodici anni, era terrorizzata che alla stazione di Bacau potessero riconoscerci e allora insisteva che dovevamo partire subito, andiamo via di qui, andiamo via, gridava, o tutto finisce.
Ci fecero salire su un pullman per Piatra-Neamt, erano neanche tre ore di viaggio, era troppo vicino, ma Mihai dormiva in braccio a Mariana, l’autista ci aveva concesso solo due posti e Adrian, per non avere addosso il mio peso morto, non mi lasciava appisolare, la mano pulsava, la strada piena di buche e curve mi dava sullo stomaco, ero felice. Non avevo mai visto le montagne vere, i nostri Carpazi.
A Piatra-Neamt spendemmo tutti i soldi per cibo, medicine e un posto al coperto dove dormire. Di notte in montagna fa freddo anche in estate, Mihai aveva la febbre alta, niente di tutto questo era stato calcolato. C’erano i turisti a Piatra-Neamt, giravano per laghi, torrenti e monasteri, Adrian voleva andare a rubare, Mariana si mise ad urlare che era pazzo, che non doveva neanche pensarci fino a quando eravamo in Romania, sembrava quasi che si dovessero menare, ma poi mio fratello mi prese e mi portò via, andammo in giro a chiedere soldi, ma senza gli occhi di Mihai la mia mano da sola non funzionava, faceva più schifo che compassione, e così rimanemmo altri due giorni a Piatra-Neamt, perché la metà di quello che ci davano, lo spendevamo per la baracca di legno del campeggio dove stavamo a dormire.
Il quarto giorno trovammo un pullman che ci portava a Vatra-Dornei, a nord-ovest, in Bukovina. Mihai era guarito. Tornammo tutti a mendicare. Prendemmo un pullman per Cluj-Napoca, ci fermammo a chiedere soldi, proseguimmo per Oradea. Da lì a Budapest ci saremmo andati direttamente, per forza; sali su un pullman che ti porta oltre frontiera e non ti chiede niente tranne i soldi, ma da quello finche sei arrivato non scendi neanche per pisciare.
Costava. Non so quanto costasse, non molto per gli ungheresi che venivano da noi per vendere la roba che da loro si trovava, abbastanza per i rumeni, per noi un occhio della testa, erano solo duecento chilometri e volevano tre volte tanto quanto avevamo speso per tutto il viaggio fatto finora. Costava e ci facevano storie. Non volevano prenderci, forse per alzare il prezzo, eravamo minorenni, si vedeva, eravamo zingari, zingari sporchi e abbruttiti perché dormivamo fuori città, nei campi, per risparmiare.
Ci svegliavamo all’alba, tornavamo ad Oradea e stavamo in giro fino a sera a mendicare. Per tre giorni mangiammo solo pane. La sera del terzo giorno ci mancava un terzo della somma che ci aveva chiesto quello che ci avrebbe caricato e sarebbe partito l’indomani. Non avrebbe fatto sconti.
Eravamo disperati. Mio fratello ci mollò e andò a bere con un tizio, uno dei nostri che lo aveva invitato, mia sorella era certa che gli avrebbe portato via il nostro denaro, scoppiò a piangere, anche Mihai per lo spavento si mise a frignare, mia sorella aprì la mano mentre ancora singhiozzava, “vi prego, signori, per i bambini, vi prego, un po’ di pane”, tutto era vero, questa volta, ma nessuno se ne curava.
Adrian tornò che era quasi buio, barcollava mentre camminavamo lungo la solita strada provinciale rischiando di finire investito dalla prima macchina che passava, sputava per terra, cantava “We are the champions”.
C’era troppa gente a Oradea in quei giorni, non eravamo gli unici che volevano andare a quel concerto e nemmeno gli unici che ci andavano per mendicare.
Crollammo nel granturco, noi piccoli e nostro fratello ubriaco, mentre nostra sorella Mariana faceva scongiuri e pregava, pregava la Madre di Dio di lasciarci andare, Madre di Dio, facci la grazia, facci arrivare a Budapest, non lasciarci tornare a casa a mani vuote.
La mattina dopo ci svegliò Adrian. Ci scrollo forte e allungò dei biglietti di leu a Mariana. “Tieni, questi te li offre la Madre di Dio”. Aveva dei graffi sulle braccia, era entrato in qualche casa a rubare. Mariana non disse niente, non toccò i soldi, ripulì con le mani noi bambini e ci disse di filare. Correvamo. Smettemmo di correre per non dare nell’occhio, arrivammo al pullman. Partiva dal paese più vicino alla frontiera, da Biharia-Episcopia, da dove mi avete arrestato.

(la prima parte qui)
(e qui la terza)

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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