Per una critica telescopica: genere lirico e sfondi antropologici 1
(La seconda parte del saggio è pubblicata qui.)
di Andrea Inglese
Voglio proporre una serie di riflessioni non troppo sistematiche, che hanno però almeno due tratti in comune. Si tratta di riflessioni orientate a formulare domande intorno a prospettive di ricerca già avviate, che possono interessare l’attuale discorso critico sulla poesia italiana. E tali riflessioni pretendono di porsi ai margini del discorso critico o, più precisamente, tra il discorso critico e qualcos’altro. Ora questa posizione di margine è giustificata da due ragioni, una teorica e l’altra personale. Condivido, innanzitutto, l’idea di Fortini che lo scopo della critica «consiste nella implicazione di vari ordini di conoscenze in occasione e a proposito della conoscenza di un oggetto letterario» (1). Una critica quindi che, secondo la parafrasi che ne fa Mengaldo, «si pone come mediatrice, ma non fra opera, o autore, e lettori (…), bensì (…) fra il senso della prima e quello che il critico crede sapere in generale della società, realtà, mondo» (2). Ciò significa che il raggio d’azione del critico abbraccia, sul versante specialistico, la strumentazione tipica dell’analisi dei testi letterari, ma su di un altro versante, consapevolmente dilettantesco, esso si apre sul mare magnum dei discorsi non letterari.
Quanto alla ragione personale, essa riguarda la volontà di non indossare fino in fondo i panni del critico, a tal punto da far dimenticare (e da dimenticare io stesso) la mia esperienza di poeta. La riflessione del poeta e del critico vanno spesso nello stesso verso, ma anche, a volte, in direzioni opposte. Anche questo fenomeno, che può presentarsi nella forma della contraddizione interna o in quella del conflitto tra istanze distinte, credo possa dire qualcosa ai critici-critici. (O solamente alludere all’opportunità di percorrere la via del saggio, inteso come «attività fondata sulla coesistenza di più usi del linguaggio, quello letterario o metaforico-simbolico, quello scientifico o univoco, quello etico, quello persuasivo, eccetera» (3).
I
Nelle pagine introduttive all’antologia Dopo la lirica (2005), Enrico Testa tratteggia lo sfondo culturale sul quale, a partire dagli anni ottanta, deve essere letta la più recente produzione poetica. E scrive: «Sul piano culturale, gli ultimi anni sono contraddistinti (…) soprattutto dalla marginalità della poesia nell’universo del consumo e dalla progressiva riduzione del prestigio del discorso letterario, incapace di sincronizzarsi col ritmo vorticoso del mutamento del costume e del sentire» (4).
La marginalità del genere poesia sul mercato editoriale, e soprattutto nell’ambito della distribuzione e della stessa organizzazione delle librerie, pone certo un problema al critico, ma di carattere minore. Il critico attuale, se vuole lavorare in modo rigoroso nell’ambito della poesia contemporanea, deve dimenticare facili punti di riferimento editoriali, e costruirsi con pazienza una mappa delle pubblicazioni minori di poeti che spesso minori non sono. Oltre a ciò, egli dovrà prima o poi, visto che oggi è ancora riluttante a farlo, prendere sul serio la circolazione in rete della poesia, e le differenti forme di dialogo, dibattito e riflessione, a cui essa sta dando luogo. (Per uno strano fenomeno, la poesia che sembrerebbe destinata a sparire dalle librerie, in quanto merce culturale indesiderata, non richiesta, vive intensamente in rete, in tutte le forme possibili, dalla scrittura amatoriale a quella più accorta ed elitaria. Ciò significa che, benché difficilmente quantificabili, e di certo ridotti rispetto a quelli della narrativa, i lettori di poesia sussistono.)
La questione del prestigio del genere è invece più decisiva, e non credo si possa ridurre a un semplice fenomeno di sociologia della letteratura. Anzi, proprio la sociologia della letteratura può mostrarci l’ambiguità di tale fenomeno e la necessità di indagarlo anche sotto ottiche diverse. Se ci riferiamo al significato corrente del termine “prestigio”, possiamo concludere che la poesia non gode più, né presso il grande pubblico popolare né presso quello più ristretto dei ceti maggiormente colti, di quell’alta considerazione e rispetto, di cui godeva in tempi passati. Ci si può limitare a trarre la conclusione che il gusto del pubblico è cambiato e che la società, nelle sue forme di vita materiali e spirituali, si è evoluta così velocemente da rendere obsoleto un determinato genere letterario, o la letteratura nel suo insieme. In realtà un tale discorso ci spinge al di fuori dei confini della poesia e della storia delle opere poetiche per porci domande sullo statuto del genere in quanto forma simbolica. In tale prospettiva, il genere letterario acquista prestigio, in quanto svolge una determinata funzione sociale all’interno di una cultura data. Il compito di chiarire come e in che senso un genere svolga una funzione sociale è compito della teoria dei generi e della storia della cultura.
Guido Mazzoni, nel saggio Sulla poesia moderna (2005), si è principalmente occupato di definire il genere “lirica moderna” in termini di forma simbolica e, di conseguenza, in termini di egemonia e declino di tale forma all’interno della cultura occidentale degli ultimi due secoli. Questa apertura “telescopica”, attenta alle connessioni tra studi sulla lunga durata dei fenomeni letterari e studi dei modelli culturali, permette di indagare a fondo, e nello stesso ambito di problemi, i tratti paradigmatici della poesia moderna e le ragioni della sua progressiva irrilevanza culturale. Uno dei meriti maggiori dello studio di Mazzoni è stato quello di porre la questione della lirica moderna non esclusivamente sullo sfondo delle estetiche romantiche e simboliste, ma di considerare quest’ultime, a loro volta, come espressioni di un sistema di valori e idee più vasto, ossia l’individualismo inteso come ideologia specifica della modernità. Ciò implica connettere la riflessione intorno al fenomeno letterario a studi che riguardano il modello culturale in cui esso s’inserisce. Mazzoni fa riferimento a punti di vista filosofici, come quello di Charles Taylor e alla sua capitale definizione di espressivismo, alla storia delle idee di Cristopher Lasch e al suo concetto di narcisismo, alla sociologa dell’arte Nathalie Heinich e alla sua analisi sullo statuto della singolarità nel mondo artistico. Questo lavoro di connessione conduce a delle formulazioni sintetiche, capaci di cogliere pienamente il carattere problematico della forma simbolica in questione:
“La poesia degli ultimi due secoli, il genere che meglio di ogni altro incarna la componente narcisistica dell’individualismo moderno, è anche un gigantesco sintomo storico: evidentemente una parte della cultura contemporanea dà per scontato che si possa dire una verità universale chiudendosi in sé.” (5)
Questo giudizio è in gran parte condivisibile, ma tende a fornire una visione unilaterale del rapporto che lega la lirica moderna all’individualismo. Considerare la lirica esclusivamente come “sintomo” di una fondamentale contraddizione insita nell’ideologia individualistica porta a obliare tutto quanto, invece, nelle concrete realizzazioni poetiche tende a costruire un segno, una figurazione consapevole della contraddizione, un modo di abitarla in termini non esclusivamente negativi o mistificanti. Io stesso ho parlato, anche se con riferimento soprattutto al genere romanzesco, di “tentazioni del solipsismo” proprie alla letteratura moderna, così come ho analizzato la “mitologia dell’interiorità” che costituisce non di rado il presupposto ideologico di certa prassi poetica (6). Ma quest’ultima, appunto, in quanto azione, sfugge sempre alle imposizioni astratte del progetto o della dottrina estetica. Il genere lirico, quindi, offre nelle sue varie e concrete manifestazioni itinerari che lo pongono al di fuori di un orizzonte esclusivamente egocentrico e narcisistico. E questo non accade solo nella scrittura di coloro che pretendono consapevolmente di sfuggire alle leggi del genere, elaborando strategie antimoderne o antiliriche.
In una descrizione più dettagliata dei tratti paradigmatici del genere lirico, Mazzoni osserva:
“Interrotte la catena sociale e la catena cronologica, l’io regredisce a schemi di pensiero narcisistici, nega l’alterità del mondo o lo riduce ad argomento di un breve monologo in prima persona. Forma simbolica di un’epoca che ha concesso agli individui una libertà senza precedenti, il nostro genere comunica, a un primo livello, l’idea che la società sia un insieme di monadi separate e immerse in un flusso di esperienze discontinuo.” (7)
Qui a mio parere si rischia di misconoscere una delle caratteristiche fondamentali della lirica moderna in alcune della sue più alte manifestazioni: ossia proprio la percezione, e la restituzione, dell’alterità del mondo, della sua radicale estraneità ai criteri di comprensione e descrizione della mente umana. Ora, proprio l’esperienza che rende possibile una tale percezione è connessa con la condizione di singolarità del soggetto. Estraneità del mondo e singolarità radicale costituiscono le due facce di una stessa esperienza, o se vogliamo di una stessa postura mentale, che a sua volta nutre di sé la scrittura poetica e trova in essa una sua peculiare espressione.
Non è casuale, allora, che proprio Paul Celan, uno dei poeti che più radicalmente hanno interpretato nella seconda metà del Novecento il paradigma della lirica moderna, ci offra un’illustrazione del nesso estraneità del mondo/singolarità dell’io che ho richiamato. Si tratta di un brano tratto dal discorso proferito il 22 ottobre 1960 in occasione del conferimento del Premio Büchner. Celan formula ad un certo punto una definizione della poesia in termini che ci suonano familiari: «E allora il poema sarebbe (…) linguaggio, diventato figura, di un singolo individuo – e, nella sua più intima sostanza, presenza e imminenza» (8). Poche frasi dopo, ci troviamo di fronte a queste osservazioni:
“Il poema tende a un Altro, esso ne ha bisogno, esso ha bisogno di un interlocutore. Lo va cercando; e vi si dedica. Ogni oggetto, essere umano, per il poema che è proteso verso l’Altro, è una figura di questo Altro. L’attenzione che il poema cerca di porre a quanto gli si fa incontro, il suo acutissimo senso del dettaglio, del profilo, della struttura, del colore, ma anche dei «palpiti» e delle «allusioni», tutto questo io credo non è la conquista di un occhio in gara (o in concomitanza) con apparecchiature ogni giorno più perfette: è piuttosto un concentrarsi avendo ben presenti tutte le nostre date. «L’attenzione» – mi concedano di riportare qui, dal saggio su Kafka di Walter Benjamin, una frase di Malebranche –, «L’attenzione è la preghiera spontanea dell’anima». Il poema – tra quali condizionamenti!– diventa l’opera di qualcuno che tuttavia continua a usare i sensi, rivolto a tutto quanto appare integrandolo, apostrofandolo; diventa colloquio – spesso un colloquio disperato.” (9)
Prima di inoltrarmi in un commento alle parole di Celan, è opportuno un chiarimento preliminare. La sua lingua in prosa è altrettanto densa e ardua di quella poetica, nonostante appaia di primo acchito più avvicinabile. Il filosofo francese Philippe Lacoue-Labarthe ha dedicato un saggio molto bello all’intero discorso di Celan e lo ha inserito nel volume La poésie comme expérience (10). Anche l’analisi di Lacue-Labarthe s’incentra sulle nozioni di estraneo (unheimlich) e di straniero (fremd), legandole a quella di “voce singolare”. La sua prospettiva rimane però strettamente legata, per ragioni ovviamente anche filologiche, al pensiero tedesco e a quello heideggeriano in particolare. A me interessa, invece, seguire una pista antropologica, a costo di sacrificare una ricchezza di richiami semantici che è possibile identificare tra la parola del poeta e quella del filosofo, nell’ambito della lingua tedesca. Non solo, ma voglio mostrare come la riflessione di Celan non debba per forza giustificare solamente gli esiti espressivi di estrema oscurità, che sono tipici della sua poesia. Strade diverse possono muovere dalla medesima intersezione di estraneità del mondo e singolarità dell’io.
La condizione di singolarità, di solitudine senza appartenenza, costituisce una soglia estrema dell’identità, che coincide idealmente con l’azzeramento o la sospensione di tutti gli aspetti del nostro essere legati a degli status di carattere sociale. La massima presenza a sé dell’individuo, però, piuttosto che favorire un ripiegamento sui propri ricordi e le proprie fantasticherie, tende a intensificare la percezione di quanto esiste al di fuori dell’io, nella realtà circostante. E la facoltà chiave di questa esperienza è appunto l’attenzione. Ma l’attenzione non è qui modellata su attitudini e posture pratiche, legate al vivere sociale e alle funzioni che in esso variamente assumiamo. Si tratta di un’attenzione senza orientamento e oggetto predeterminato. Non è neppure un mondo, nel senso di totalità organizzata, quello che viene in primo piano, ma un manifestarsi anarchico di dettagli, di profili e rilievi. E a questo risveglio percettivo si accompagna l’esigenza di dire ciò che appare. Ma non si tratta di descrizioni o cronache, ma di colloqui, invocazioni, apostrofi.
Ciò che si tratta di cogliere è la particolare apertura del soggetto nei confronti del mondo, una volta che egli sperimenta la sua condizione di singolarità. La soglia che in tale esperienza emerge non è quella tra l’io e se stesso, in una sorta di ripiegamento riflessivo ed egocentrico, ma quella tra l’individuo come membro di un ordine sociale e culturale e l’individuo come singolo, ossia come escluso da quell’ordine e intruso in un mondo pre-sociale e pre-culturale, anteriore alla rete dei significati condivisi dalla collettività. (Con il termine “singolarità” ci riferiamo ad un polo estremo all’interno di un ideale spettro di identificazione, di cui una società dispone nei confronti di un individuo che ne è membro. Al polo opposto vi è la perfetta “equivalenza”. In altri termini, ogni individuo può essere riconosciuto e identificato a partire da due punti di vista estremi ed antitetici. Secondo l’uno, ogni individuo non è che un esemplare umano equivalente a qualsiasi altro, e come tale è sempre sostituibile, in quanto ciò che conta è la funzione che svolge. Secondo l’altro, ogni individuo è unico nel suo genere, e quindi incomparabile rispetto ad ogni altro, oltre che insostituibile.)
Sia chiaro che questo discorso non deve essere ricondotto all’ambito della psicologia, ma semmai a qualcosa che potremmo definire “l’orizzonte trascendentale dell’esperienza lirica” nel mondo moderno. Ma neppure questa definizione è esente da fraintendimenti. La derivazione di tale concetto dalla tradizione della fenomenologia husserliana potrebbe suggerire che sia possibile accedere alla struttura di una tale esperienza, indipendentemente dal testo poetico che ne costituisce l’espressione. In realtà, l’esperienza non è scindibile dalla sua espressione, così come l’ipotesi di una sua configurazione trascendentale non è verificabile che sul piano dei concreti e singolari esiti espressivi che ne costituiscono il compimento. Quello che insomma non dobbiamo fare è considerare gli stati di coscienza come entità indipendenti dalle pratiche specifiche in cui essi vengono alla luce e producono senso. Tale precisazione permette di comprendere perché l’esperienza di cui Celan ci ha parlato non sia una prerogativa del poeta. Noi possiamo rintracciarla in contesti diversi, come quello filosofico. Ma intrecciata alla pratica filosofica, una tale esperienza avrà esiti espressivi e assumerà valori semantici diversi. La descrizione di alcune “esperienze fondamentali” da parte di Heidegger, di Sartre, di Lévinas o di altri pensatori, mostra come la pratica filosofica si serva anch’essa di esperienze incentrate sull’esteriorità e sull’estraneità nei confronti dell’universo sociale e culturale. Il terreno retorico che valorizza e orienta tali esperienze è però quello della riflessione sull’essere o sulle sue categorie. Insomma, se esiste una soglia che ci separa dai nostri ruoli e dispositivi sociali, inoltrandoci in una zona di inusuale coincidenza con noi stessi nella forma della singolarità, essa può essere varcata provenendo da o ritornando verso pratiche diverse. Ma affinché vi sia attribuzione di senso e lavoro espressivo, l’esperienza di cui abbiamo parlato deve prevedere un ritorno, ossia specifiche modalità di valorizzazione e recupero, che siano esse filosofiche, artistiche o letterarie.
Più in generale, questo discorso potrebbe svilupparsi in direzione di un’antropologia sociale, che per via comparativa sappia confrontare forme simboliche che appartengono a società molto diverse e lontane nel tempo. Il rapporto tra estraneità del mondo/singolarità dell’io, che abbiamo riscontrato nell’esperienza tipica della “lirica moderna”, potrebbe essere indagato in società tradizionali e non individualistiche attraverso alcune esperienze legate al rito della festa (11). Determinate soglie dell’esperienza umana sono rintracciabili in mondi culturali molto diversi, e di conseguenza il significato che ad esse viene attribuito muta. Ciò non ci impedisce, però, di riconoscere l’esistenza di certe invarianti di carattere antropologico e di inserire studi letterari di lunga durata in una tale ottica.
Torniamo ora a Celan e alla lettura che ho dato delle sue parole. Un ulteriore elemento di conferma, ci può essere offerto dalla considerazione di due testi poetici. Ho scelto testi di due autori contemporanei, ma di età diverse e di lingue diverse. Il primo è di Charles Simic, poeta di lingua inglese, nato a Belgrado e stabilitosi negli Stati Uniti; il secondo di Durs Grünbein, poeta tedesco. Leggiamo Un muro di Simic, presente nella raccolta Charon’s cosmology del 1977:
Questa la sola immagine
che ne salta fuori.
Un muro tutto solo,
illuminato male, invitante,
ma nessun senso della stanza,
nemmeno un cenno
del perché ricordo così poco e tanto chiaramente:
la mosca che osservavo
le sue ali in dettaglio
di un lucente turchese.
Le zampe che, con mio divertimento,
seguono una minuscola crepa –
l’eternità
intorno a quel semplice evento.
E nient’altro; e nessun luogo
a cui tornare;
e nessun altro,
per quanto ne so, da controllare. (12)
Colui che parla appare solo, isolato, concentrato su se stesso: parla non di “cose”, ma di “immagini”, almeno nei due versi d’esordio. E quando il legame tra immagine e cosa viene stabilito, è un muro che ci viene presentato, ossia un elemento separatore. Come dobbiamo interpretare, allora, ciò che segue: le descrizioni e le riflessioni della voce poetante? Ci conducono nella zona oscura e regressiva del narcisismo, nelle immagini sregolate della fantasticheria privata, nell’egocentrica concentrazione intorno alla propria persona? No, ma neppure ci conducono verso la storia e le vicende umane. Siamo portati ad evocare un muro male illuminato, come tagliato fuori dal suo contesto architettonico, e su questo muro spiccano le ali di una mosca e la minuscola crepa su cui essa si muove. La figurazione è costruita intorno ad un’attenzione per il dettaglio, che nel contempo permette di cancellare ogni secondo piano e sfondo. Come dobbiamo considerare questa grigia triade di oggetti, il “muro-mosca-crepa”? Fungono nuovamente, come dice Mengaldo riguardo al “correlativo oggettivo” di Eliot e Montale, da «araldici emblemi mentali, e sono abbandonati a una frammentarietà e aleatorietà che riflette il decentramento del soggetto» (13)? Se gli oggetti diventano emblemi mentali, ossia sono pretesto o supporto “esteriore” di significati “interiori”, allora non è cosi che dobbiamo leggere il “muro-mosca-crepa” di Simic. Penso, ad esempio, a questi tre versi di Montale, tratti da Vasca (Ossi di seppia): “Alcuno di noi tirò un ciottolo / che ruppe la testa lucente / le molli parvenze s’infransero”. Qui in effetti abbiamo una specifica variante dell’egocentrismo lirico. L’io poetante, in effetti, possiede una certa dottrina sul mondo e nel flusso fenomenico predilige e trasceglie quegli eventi che di quella dottrina sono immagine, simbolo, emblema. La triade montaliana “sasso-specchio d’acqua-riflessi” è costruita secondo la logica di una favola filosofica, ossia di un sistema di significati che appartengono all’io e anzi ne definiscono il punto di vista sul mondo. Certo, in Montale il riassorbimento centripeto del mondo è costantemente esposto al movimento inverso, centrifugo, di aderenza alla nuda esteriorità delle cose. Ma il lavoro poetico si costruisce proprio a partire da questo rischio, e la sfida è accettata con la consapevolezza di imporre il proprio ordine mentale al caos fenomenico.
In Simic prevale la nuda esteriorità del mondo al di fuori di ogni possibile figurazione emblematica. La mente trova nell’esterno il suo limite. Ma poiché la mente individuale è sempre espressione di una mente sociale, portandosi dietro significati condivisi, ad arrestarsi alla superficie del muro è l’intera sfera dell’umano, che quel muro ha da sempre inserito in una rete di relazioni e funzioni. O, in altri termini, il muro si è sganciato, è fuoriuscito dalla mente sociale, dalla mappa di suoi saperi e di sue pratiche, e fronteggia l’io poetante rinviandolo alla sua momentanea singolarità e inappartenenza. In realtà il medesimo movimento può essere visto in una duplice prospettiva: o è l’individuo che, accedendo alla sua condizione di singolarità, scivola fuori dalla mente sociale, oppure sono gli oggetti che, affiorando come la radice sartriana, neutralizzano le coordinate di significazione usuali e comuni. Ma all’interno di questo regime di estraneità, si apre lo spazio per quello che Celan chiamava il colloquio, ossia la reiterata prova della nominazione e dell’evocazione. Si tratta di una vera prova, di un cimento, poiché noi nominiamo d’abitudine le cose che non vediamo. Ora che invece le vediamo in bilico tra una massima prossimità e una massima lontananza, nella loro mostruosa e mirabile corporeità, non abbiamo le parole per nominarle e descriverle. E la vicenda della poesia non coincide con una compiuta nominazione, ma con una figurazione, ossia con la costruzione di un evento complesso. È quest’evento, nel suo insieme, nella sua struttura retorica, ritmica e lessicale, che corrisponde alla nominazione delle cose. (E s’intenda il termine “corrispondere” nel senso di “contraccambiare”, e non certo nel senso di “rappresentare”, “somigliare a”, eccetera. Ad un evento di visione io faccio corrispondere – rispondo con – un evento di dizione.)
Nella chiusa la voce poetante, dopo aver indugiato sulla triade oggettuale, torna a soffermarsi sul soggetto, tentando di collocarlo in rapporto ai rilievi di mondo precedentemente emersi. Ma l’esperienza dell’estraneità non consente né rimandi metonimici, in grado di ricostruire una catena di oggetti e situazioni, né permette un ritorno verso una qualche patria interiore («And nothing else; and nowhere / To go back to;»). Similmente, non vi sono rimandi ad esseri umani o viventi, di cui si tratterebbe di “controllare” o “indagare” la presenza o la storia («And no one else / As far as I know to verify.»). Non vi sono quindi ritorni possibili né sul fronte degli “strumenti umani” né su quello delle “vicende umane”. I dettagli rimangono sospesi e chiusi, uguali a loro stessi, senza dare adito a slanci verso ulteriori significazioni. Non si lasciano insomma integrare in nessun sistema, che sia quello delle riflessioni morali o delle visioni idiosincratiche.
Leggiamo ora il testo di Durs Grünbein, tratto dalla raccolta del 1994 Falten und Fallen:
Questi gesti sono insensati, eppure uno stupore
li tiene desti. Furia e minacce
contro una mosca, rigido rispetto
a capo chino ai morti e tutti i cenni
e saluti a far dolce le prigionie solitarie:
volendo è divertente, o decoroso.
Ma davanti all’inerzia delle nuvole
diventa tutto assurdo.
Nessuno vede il clown mentre s’inganna.
Hanno un colpo di sonno i testimoni,
gli è sfuggito un battere di palpebra,
segni di dita divaricate, quando furbizia
nel viavai d’indizi scioglie la lingua. (14)
La furia delle giustapposizioni di Grünbein, che agisce contro il principio di riconduzione all’uno tipico dell’analogia, pone il lettore sempre di fronte a una tendenziale entropia delle immagini, senza che sia sempre possibile ricondurle ad una ben determinata logica interna. Ciò nonostante è riscontrabile nella prima parte del componimento quel movimento tra l’io e il mondo che abbiamo già visto in Simic. Per certi versi, esso appare ancora più esplicito in questo testo. I gesti quotidiani, dal più banale e istintivo – lo scacciare la mosca – al più rituale e impersonale – l’inchino nei confronti dei defunti – sono resi assurdi dall’“inerzia delle nuvole”. L’armatura delle consuetudini, ciò che sorregge la nostra persona e le fornisce la propria coesione fatta di riflessi istintivi e gesti convenzionali, viene percepita nella sua radicale infondatezza e gratuità attraverso l’intrusione del mondo, sotto forma di “inerzia delle nuvole”. Rovesciando gli attributi che una solida tradizione letteraria ha attribuito alla nuvola, emblema di leggerezza e soavità, Grünbein ce la presenta come l’elemento morto, inassimilabile, definitivamente esteriore alla rete di abitudini che costituiscono il cosmo interiore della persona. Ma anche qui l’irruzione del mondo nella sua esteriorità si accompagna alla condizione di singolarità dell’individuo. Una distanza interna si pone tra l’io ed i propri ruoli, ed è ciò che ricorda la figura del clown intento all’autoinganno. Il singolo, in quanto individuo sciolto e irrelato, non è in realtà nessuno. È solo attraverso la recita sociale che può assumere un’identità e divenire qualcuno. La chiusa della poesia, con quel riferimento a “List” – che significa sì “furbizia” ma anche “stratagemma” –, induce a pensare ad un ritorno su di sé del clown, ad un sopravvenire della finzione usuale che ristabilisce il fluire del discorso, ossia quel dire senza vedere, quel dire per “indizi” e continui rimandi, laddove la visione della nuvola ha, in precedenza, imposto un momentaneo silenzio.
Note
1)Franco Fortini, Ventiquattro voci per un dizionario di lettere, Il Saggiatore / EST, Milano, 1998, p. 163.
2)Pier Vincenzo Mengaldo, Giudizi di valore, Einaudi, Torino, 1999, p. 65.
3)Franco Fortini, Ventiquattro voci per un dizionario di lettere, cit., p. 163.
4)Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, a cura di Enrico Testa, Einaudi, Torino, p. XIX.
5)Guido Mazzoni, Sulla poesia moderna, il Mulino, Bologna, 2005, p. 214.
6)Andrea Inglese, L’eroe segreto. Il personaggio della modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di linguistica e letteratura comparate dell’Università di Cassino, 2003. In particolare, si veda il primo capitolo intitolato Espressivismo e modernità. I rapporti esistenti tra l’ideologia di un’epoca, le sue formulazioni filosofiche ed estetiche, ed infine i generi letterari, come forme simboliche, sono estremamente ardui da analizzare, in quanto pongono un problema centrale, che è quello del punto di vista “esteriore” a un dato modello culturale. Lo ricorda, ad esempio, Gabriele Frasca introducendo il suo saggio La lettera che muore: «Occorrerebbe dunque che al ricercatore tipologico-culturale fosse dato di sottrarsi al flusso percettivo in cui si scioglie la sua stessa porzione di esperienza, per districarsi insomma da un modo di sentire così tanto connaturato da apparire fatto non solo della sostanza della cultura ma addirittura dei ritmi biologici dell’osservatore» (Meltemi, Roma, 2005, p. 8.)
7)Ivi, p. 240.
8)Da Il meridiano, in Paul Celan, La verità della poesia, trad. it., Einaudi, Torino, 1993, p. 15.
9)Ivi., p. 16.
10)Philippe Lacue-Labarthe, La poésie comme expérience, Christian Bourgois Editeur, Paris, 1986 e 1997.
11)Elementi di riflessione in tale senso si possono trovare nei lavori dell’antropologo Jean Duvignaud. Indagando la natura della festa, come manifestazione collettiva di destrutturazione e ricomposizione dell’ordine sociale, l’autore si pone il problema di definire alcune esperienze cruciali, ricondotte preliminarmente alla categoria di trance. Dal nostro punto di vista, potremmo definire la festa un accompagnamento collettivo a stati di singolarità. Per Duvignaud si tratta di una sospensione momentanea del funzionalismo sociale. E aggiunge: «Ciò che per l’analisi è più difficile da cogliere è la natura di questi stati “destrutturati”, di queste “zone d’ombra” che la letteratura con maggior forza ha tentato di sperimentare. Qui non si tratta più di segmenti di realtà collettiva compresi nell’esercizio del sacro, ma di rotture momentanee del “corso delle cose” e per la quali è necessario definire una durata originale e una percezione originale dello spazio». In Jean Duvignaud, Le don du rien. Essai d’anthropologie de la fête, Stock, 1977, Paris, pp. 39-40, traduzione mia.
12)«A Wall. That’s the only image / That turns up. // A wall all by itself, / Poorly lit, beckoning, / But no sense of the room, / Not even a hint / Of why it is I remember / So little and so clearly: // The fly a was watching, / The details of its wings / Glowing like turquoise. / Its feet, to my amusement / Following a minute crack – / An eternity / Around that simple event. // And nothing else; and nowhere / To go back to; / And no one else / As far as I know to verify.» in Charles Simic, Hotel insomnia, a cura di Andrea Molesini, Adelphi, Milano, p. 40.
13)Pier Vincenzo Mengaldo, «Grande stile e lirica moderna», in La tradizione del Novecento, Vallecchi, Firenze, 1987, p. 11.
14)«Wie viele Gesten sind sinnlos, und dennoch / Hält ein Staunen sie wach. Wütend / Einer Fliege zu drohen, in steifer Andacht / Vor den Toten den Kopf zu senken, / Mit Grüßen und Winks sich die Einzelhaft / Zu versüßen, kann amüsant / Oder anständig sein. Vor der Trägheit / Der Wolken wird alles absurd. / Niemand sieht diesen Clown sich betrügen. / Den Zeugen, kurz eingenickt, / Ist der Lidschlag entgangen, der Hinweis / Gespreizter Finger, wenn List / Im Verkehr der Indizien die Zunge löst.» in Duns Grünbein, A metà partita, a cura di Anna Maria Carpi, Einaudi, Torino, 1999, p. 139.
Questo saggio è apparso sul numero 16 della rivista “Incroci”, numero interamente dedicato alla critica letteraria.
(Foto A Inglese)
L’Escluso non chiede mai nulla
di quello che sembra precluso
al suo desiderio demente
gli affari del giorno li affida
con fare efficiente
all’uomo che nato per sbaglio
sul ciglio di una baratro orrendo
piuttosto che perdere il fare
esclude dal proprio orizzonte
la luna le stelle ed il mare
[da: Riti Liri Escrementi Ali (1978-1979)]
Un grazie ad Andrea Inglese, per il magnifico articolo.
[…] continua a leggere su Nazione indiana […]
[…] (La prima parte di questo saggio è apparsa qui) […]