Quella notte a Dolcedo

Marino Magliani, Quella notte a Dolcedo, Longanesi, 262 pag., 16 euro.
Hans Lotle, pensionato sessantenne in una Berlino Est a un passo dal crollo del muro, decide di tornare nella valle della Liguria dove, da giovane militare, ha combattuto per la Germania nazista e dove è stato protagonista di una brutta storia di partigiani e valligiani, di ritorsioni e tradimenti. Questo l’incipit di Quella notte a Dolcedo, di Marino Magliani.
Lotle, ossessionato per quaranta anni dal ricordo del terrore negli occhi di una bimba nascosta nei rovi, cerca una risposta, reale ed esistenziale, nei luoghi della sua gioventù. Noi, leggendolo, la cerchiamo insieme a lui, solidali.
Narratore atipico della letteratura nostrana, Marino Magliani è uno scrittore di esperienza e di vita vissuta più che di congreghe letterarie o accademiche. Pare pure facile trasformarlo in un personaggio curioso, con la sua vita errabonda, in Sud-America, nel nord Europa – dove ora vive, di fronte al cielo plumbeo del mare del Nord: invece Magliani è soprattutto uno che i personaggi li fa vivere, da grande narratore, dando loro corpo e anima.
Tutta la sua scrittura (ha pubblicato molto Magliani, ma solo ora, finalmente, una grande casa editrice gli dà credito) è un incessante lavorio sul sentimento della solitudine, sull’irrimediabile finitezza dell’essere umano, sul suo essere dolorosamente trafitto dal crudele raggio di sole del mare Ligure. La fuga oltre il panorama disegnato in modo ossessivamente preciso delle increspature, dei terrazzamenti e degli oliveti sfiniti è doveroso -perché è dell’uomo l’inquietudine- ed inutile – perché è destino ontologico la sua sconfitta.
Da ovunque parta la narrazione di Magliani inevitabilmente torna nella cuspide della valle di Dolcedo, suo paese natale, dove avviene la rottura della continuità prosaica del mondo quotidiano: Dolcedo è il ventre sentimentale di Magliani, l’attrattore poetico. Ed è per me, obbligatoriamente, luogo della geografia letteraria mondiale, insieme alla Combray di Proust, alla Macondo di Garcia Marquez, alla Casarsa di Pasolini.
[pubblicato su Cooperazione n° 15, 08 aprile 2008]
molto bella questa presentazione del libro, ammiro la scrittura di Marino, asciutta ed essenziale, il suo legame con la terra che Gianni ha così azzeccatamente paragonato alla Macondo di Garcia…
:-)
Sei stato bravissimo nel parlare del libro in poche righe. Straordinaria sintesi.
Condivido Cappuccetto rosso e Franz: è la soglia luminosa della lettura.
Gran bel libro.
elisabetta
Marino è gran bravo scrittore
onesto e preciso nelle parole,
raro indagatore di anfratti, rittani di cuore e testa
MarioB.
vado a comprarlo questo libro, fai venire voglia di leggerlo. ciao gianni
Meno male che c’è chi riesce a far venir voglia di leggere le cose belle.
Ecco, queste sono le recensioni che mi piacciono. Chiare, limpide, coincise ma non per questo inesatte o mancanti. Proprio come la scrittura di Marino, secca, mai frivola, piena di visuali. Il libro in argomento ce l’ho sul comodino e chissà, prima di leggerlo, che non riesca a farci mettere anche la dedica.
Saluti
grazie a tutti
marino