Quale realtà? – Note in margine alla questione del realismo in letteratura

di Giulio Milani

(Un contributo di Milani – scrittore, nonché editor ed editore di «Transeuropa» – sul dibattito sollevato dall’editoriale del dossier che Andrea Cortellessa ha curato per “Specchio+” di novembre, e che Nazione Indiana ha qui pubblicato.)

Il poeta, potremmo dire parafrasando Thomas Eliot, è un imitatore di voci. “Lui rifa la polizia con mille voci” s’intitolava infatti, in bozze, la prima e la seconda parte di Terra desolata, e alludeva all’operazione di mimesi di un’intera tradizione culturale. Questo camuffamento del poeta, per cui la poiesis si fa mimesis performativa, parrebbe dunque il contravveleno più efficace che in epoca (postmoderna?) il narratore possa assumere per fare scudo all’intolleranza del genere umano in fatto di realtà. Poiché è vero, come scrive Marco Rovelli in apertura a Lager italiani, «Se questa storia ti ha fatto male, non ci creder perché non è ver. Finisce così un antico canto popolare. La storia che racconta è troppo spaventosa. Meglio credere non sia vera. Ecco, disponiamoci ad ascoltare una fiaba. Una fiaba troppo spaventosa per essere creduta. Dunque: c’era una volta…».

Raccontare la realtà come fosse una fiaba, camuffando per smascherare, mentendo per rivelare. Non è forse questo che ogni narratore ha sempre fatto, dentro l’attività mitografica di continua decifrazione e nel contempo cancellazione delle “tracce” dei nostri misfatti propria del fare letterario e culturale in senso ampio? Ma prima di affrontare la spinosa questione del cosiddetto «referente reale» dell’attività mitografica (se mai l’affronterò), partiamo dall’efficacia sociale di questa attività.

 

La Bibbia ci racconta una favola, la favola della cacciata del paradiso, dove agli uomini sembra capitare in sorte la più atroce delle sventure: dovrai lavorare per vivere, e «con fatica»! Fu questa favoletta senza conseguenze? Il popolo ebraico, a ogni buon conto, è stato il primo a codificare un principio di parità sostanziale tra esseri umani: dove tutti lavorano per condanna divina, non si può dare tuttavia che qualcuno lo faccia al posto di un altro: non si può dare schiavitù. Per contrappasso destinale, nella dinamica vittima-persecutore che in maniera figurale accompagna la storia dell’Occidente, bene lo avevano compreso i nostri ex alleati ad Auschwitz, là dove i nuovi schiavi erano accolti dal loro stesso proclama: “Il lavoro rende liberi”. Per dire, anche, quanta intelligenza possa esserci nell’assumere perfino da persecutori la prospettiva del (totalmente?) Altro.

Il compito del narratore è dunque smisurato. Se la battaglia (psicologica, estetica, etica o morale) è anche quella di restare nel tempo (ma restare in che senso, lo vedremo), quel che resta del sacrificio compiuto per noi sulla pagina dal narratore è qualcosa che riguarda il destino di molti.

Nelle epoche più antiche, miti e favole rappresentavano a tutti gli effetti una forma di legislazione umana. Scaturite dai resti del sacrificio, dalla sua coda farmacologica, codificavano permessi e divieti in ordine ai comportamenti umani. La religione, in questo senso, rappresentava – e rappresenta ancora – un sapere sulla violenza delle dinamiche umane. Ovvero, per quel che qui ci interessa, un sapere sulla realtà umana. Questo aggettivo, umana, non è accessorio. Può essere considerato, per esempio, il punto di incontro ermeneutico fra un ex decostruzionista come Gianni Vattimo e un post-strutturalista qual è René Girard.

Ma sentiamo cosa ci dice qualcuno che (in fatto di sintesi) se ne intende. Sentiamo Slavoj Žižek: «Si dovrebbe distinguere fra storia simbolica (l’insieme dei racconti mitici e dei dettati etico-ideologici espliciti che costituiscono la tradizione di una collettività – ciò che Hegel avrebbe definito la sua “sostanza etica”) e il suo Altro osceno, la storia fantasmatica e “spettrale” non riconoscibile che sostiene effettivamente l’esplicita tradizione simbolica, ma deve rimanere “forclusa” per essere operativa. Quello che Freud tenta di ricomporre in L’uomo Mosè e la religione monoteistica (la storia dell’uccisione di Mosè, ecc…) è questa storia spettrale che perseguita lo spazio della tradizione religiosa ebraica. Santner usa una formulazione ben precisa che richiama direttamente la definizione di Reale come Impossibile di Lacan, nel suo seminario Encore: la storia fantasmatica spettrale racconta la storia di un evento traumatico che “continua a non aver luogo”, che non può essere iscritto nello stesso spazio simbolico introdotto dal suo accadimento – come avrebbe detto Lacan, l’evento traumatico spettrale “non cessa di non scriversi” (e ovviamente proprio in quanto tale, in quanto non esistente, continua a durare; e cioè, la sua presenza spettrale continua a perseguitare i vivi). Non si diventa membri a tutti gli effetti di una collettività semplicemente identificandosi con la sua esplicita tradizione simbolica, ma quando, allo stesso tempo, ci si assume la dimensione spettrale che regge questa tradizione: i fantasmi che ancora perseguitano i vivi, la storia segreta costituita dalle sue fantasie traumatiche che si può leggere “fra le righe”, attraverso le omissioni e le distorsioni.» (La fragilità dell’assoluto. Ovvero perché vale la pena combattere per le nostre radici cristiane).

Ecco il nodo gordiano tra realtà umana (o «sociale», nei termini di Žižek) e il suo «doppio spaventoso» (Girard) o «Altro osceno, spettralità fantasmatica» (ancora Žižek) altrimenti noto come «Reale» (Lacan). Ecco l’abisso in cui ha da sprofondarsi il nostro narratore-palombaro, oggi, per ricercare la verità (il «referente reale») del «gesto traumatico fondamentale: e cioè – per usare i termini classici – del crimine che fonda l’Ordine costituito stesso, il gesto violento che introduce un regime che retroattivamente renderà illecito/criminale il gesto stesso» (ancora Žižek).
Il ritorno dalla Grande Guerra, la stessa che in questi giorni celebriamo come «male necessario», un capitolo fondamentale nel processo di italianizzazione se non di fraternizzazione europea, conserva in sé tutti i tratti tipici di questo rito di (ri)aggregazione, che l’umanità da sempre conosce e dimentica: l’unanimità mimetica che si sviluppa intorno al corpo (sacro) della vittima immolata per il bene della collettività. Non è stato così anche di fronte al corpo rovesciato, sputato e vilipeso del Duce, quando dovemmo fondare la Prima Repubblica? E non fu lapidazione mimata, ma pur sempre lapidazione simbolica e “reale”, il lancio di monetine all’hotel Raphael che portò al trapasso nella Seconda? Con tutto il corredo di santificazione ex post della salvifica vittima, il culto alla memoria del «caro estinto».

La nostra è dunque una «generazione di traumatizzati senza evento traumatico» – come a ragione scrive Andrea Cortellessa nell’editoriale del dossier che ha curato per “Specchio+” – non diversamente dalle precedenti. Lo è, in quanto non lo riconosce o non riesce a raccontarlo o non gli si crede quando lo racconta, proprio come succedeva ai reduci di Russia o della Grande Guerra o di Auschwitz o del Vietnam o di Guantanamo o di Bolzaneto.

Il fatto che il figlio non abbia sparato un colpo, poi, non significa che manchi di esperienza in fatto di dinamiche vittima-persecutore. Chiunque abbia frequentato una seconda media o un asilo infantile, prima che un ufficio o un università o un qualunque consesso sociale, ha sufficiente esperienza della tragedia della realtà umana. Non occorre aver ammazzato qualcuno o essere vittima o testimone di un delitto o di un dramma epocale per sapere quali dinamiche hanno prodotto determinati effetti di capro espiatorio e unanimità mimetica nella storia dell’umanità come nel quotidiano, e per raccontarli.

E se anche così non fosse, o non bastasse, proprio l’inesperienza – come la noia, ci insegnavano gli antichi – è la molla dell’intelligenza e della prova del fuoco.

 

 

 

Nessuno dovrebbe, credo io, stupirsi o indignarsi nell’apprendere che i personaggi, in fondo, sono ombre, fruscianti figure espiatorie che il narratore si prende la briga – altre volte la croce – di mandare avanti al posto altrui: mosse da desideri non diversi dai nostri, queste figure incappano per noi lettori in esperienze ed eventi complessi, e in base al modo con cui affrontano le temperature del desiderio e le febbri dell’identità e le diaboliche prove del fuoco alle quali il narratore non esita a sottoporli per il suo e per il nostro diletto ed ammaestramento, noi lettori traiamo indicazioni e soddisfazioni assai preziose circa l’esperienza delle cose e del mondo: un ragionamento non dissimile è implicato in quest’idea di Daniele Giglioli, citata da Cortellessa, dello «scrittore come qualcuno che va dove noi non andiamo, che ci va al posto nostro». (Non è un caso infatti che Giglioli sia stato presente al convegno di Falconara del 2006 da noi organizzato su queste tematiche – tematiche differenti rispetto alla fuffa realista che ha invaso oggi le librerie italiane – e che di conseguenza sarà presente con un contributo dal titolo “René Girard e la teoria letteraria: un caso ancora aperto” nei relativi atti del convegno che Transeuropa pubblicherà all’inizio dell’anno prossimo, e di cui auspicabilmente potrebbe occuparsi, a quanto mi è stato detto, proprio la rivista Allegoria.)

Ma torniamo alle nostre esperienze. Ci ricordano certi studiosi, fra i quali Carlo Ginzburg, che a partire dal Settecento la borghesia nascente prese a nutrirsi del romanzesco dentro un’assimilazione dei cosiddetti riti di iniziazione che non passava più attraverso l’accesso diretto all’esperienza, ma per il tramite, appunto, della loro sostituzione e riformulazione romanzesca.

Il cosiddetto paradigma indiziario conobbe di conseguenza, proprio grazie alla letteratura d’immaginazione, un utilizzo sempre più consapevole e innovativo: all’avvio di un processo di mobilitazione economica e sociale tra i più formidabili che la storia dell’uomo avrebbe conosciuto, l’«educazione sentimentale» del lettore attraverso la disamina probatoria delle esperienze dei personaggi, la ricostruzione indiziaria e smitizzante delle ragioni dei loro successi e delle loro sconfitte, consentì una sublimazione e un raffreddamento delle passioni e degli appetiti nascenti che potremmo paragonare agli effetti – anch’essi, se vogliamo, ottenuti in modo romanzesco – della catechesi cristiana sugli spiriti altamente eccitabili dei cavalieri erranti del medioevo: ricorderete il rituale religioso che presiedeva all’ingresso nel modello di vita cavalleresco, le veglie di penitenza e di preghiera che su ispirazione della Chiesa i cadetti della nobiltà non sposati e privi di feudi, gli iuvenes, dovevano compiere prima di indossare le armi, al momento della cosiddetta investitura, per divenire paladini del cristianesimo ed eroi “senza macchia e senza paura”… Cos’altro rappresentava, quel set di veglie e di penitenze e di giuramenti che oggi fa sorridere, se non il provvidenziale tentativo di stemperare la violenza sanguinaria dei costumi sovrapponendo e sostituendo al paganesimo sacrificale dei riti di passaggio l’assai più commendevole cerimonia cristiana?

Da questo punto di vista, come sostiene il Girard di Menzogna romantica e verità romanzesca, il narratore soteriologico moderno non farebbe altro che portare avanti, attraverso l’impiego della menzogna romantica e del camuffamento mitografico, le medesime istanze di rivelazione e demistificazione della violenza del desiderio affidate da Cristo alla predicazione neotestamentaria.

Se così stanno le cose, ben vengano allora i reporter mimetici, i nostri detective dell’orrore: in prima persona, come è giusto che sia in quest’epoca dalla soggettività opaca e dalle ideologie deboli e dalla presa di parola vittimista e cattivista insieme, questi alter ego dei loro stessi personaggi – ed esattamente come i propri personaggi, affascinanti e seduttivi capri espiatori – si scriveranno addosso la pelle sacrificale che la perfomance di immedesimazione richiede. (A proposito, dacché siamo tra “indiani”, vale forse la pena segnalare la vicenda di Grey Owl-Gufo Grigio, di cui si racconta nel film omonimo, esempio perfetto di mimetismo incarnato.)

Poiché è vero, come ci ha insegnato Pier Vittorio Tondelli, che ciò che resiste letterariamente non è che la storia di se stessi. Ma se stessi chi, verrebbe da chiedere? Se stessi gli altri. Con tutto il corredo di invidia, voyeurismo, indifferenza, moralismo persecutorio, pornottica che la sola vista degli altri – questi inarrivabili modelli/ostacoli del desiderio – ci produce.

Non si tratta di questione da poco, e bene farebbe, lo scrittore – ovvero qualcuno che si occupa e si preoccupa, prevalentemente, di progetti narrativi – a confrontarsi con il proprio tempo e con i classici di ogni tempo in cerca della prospettiva adatta, del nuovo stile che i contenuti di sempre richiedono perché la sua opera diventi scienza storica “spettrale”.

Un passo in questa direzione, lo ha fatto proprio il Michel Houellebecq de Le particelle elementari. Un testo che non è stato scritto senza preoccupazioni stilistiche e formali, tutt’altro, visto che è in dialogo tecnico e di pensiero con il Bouvard e Pecuchet di Gustave Flaubert (ossia l’autentico luogotenente di tutto il filone realista, se vogliamo). I due fratelli in agone – il paradigma fondativo del potere, in senso religioso-sacrificale – sono qui declinati secondo le posizioni fumettistiche dei due saggi idioti flaubertiani. Persino l’impiego delle enciclopedie dei saperi, l’uso della saggistica di impianto scientifico è perfettamente specchiato. Così le contraddizioni, i cozzi di significati nei tambureggianti rovesci di fronte prospettico, negli apparenti salti di argomento fra un capoverso e l’altro. Così l’uso dei tempi, coi tipici e inaspettati, sorprendenti passaggi al presente universale, però qui motivati dall’intreccio e dall’uso di una prospettiva in prima persona che gioca carsicamente con la terza (dunque uno stile meno sentenzioso che in Flaubert, e letterariamente più vicino alla sensibilità odierna, anche in fatto lessicale). È come se Houellebecq avesse messo il motore ai deltaplani di Leonardo, per farli volare davvero. Per provare che con un adatto motore, anche Bouvard e Pecuchet potevano volare. Adesso mi si informa che Houellebecq è anarchico, o magari anarco-individualista, un nichilista forse di destra à la L. F. Céline, che «sta già tutto» in Mondo Cane. Ma davvero? Pensate che lo si è detto, e scritto, anche di Flaubert. Anarchico. Individualista. Reazionario. Nichilista. Il banalmente cattolico Flaubert. E non è forse il testo di Houellebecq banalmente cattolico, tanto nell’analisi meccanicistica del comportamento umano quanto nel sottoporci i rischi della delega di responsabilità all’ateismo scientifico dietro la messinscena del mito della clonazione? Non ci (ri)dice quanto la dottrina insegna? Se Houellebecq è il clone di qualcuno, a mio avviso è il clone di Flaubert, rielaborato in maniera post-moderna (e posticcia, anche, visto che il romanzo, un capolavoro, è stato io credo ottenuto assemblando materiali disparati e pre-esistenti come la vicenda dello scrittore sessuomane e cinico-romantico, che prende una porzione spropositata della scena, probabilmente il romanzo originale su cui è stato innestato il disegno flaubertiano di cui ho detto). Questo sì uno splendido esempio di postmodernismo figurale, alla Erich Auerbach della dialettica fra anticipazione e adempimento!

Quanto al nostro paese, cito due casi semplici di difformità accomunabili, se radiografate con gli opportuni strumenti: Gomorra di Roberto Saviano e Sirene di Laura Pugno. Apparentemente, anche qui, fatti contro fantasie. In realtà, due magnifici esempi di scienza storica “spettrale”, diversamente articolati, certo, ma a partire da una medesima indagine, o viaggio, attraverso i postumi di un «evento traumatico rimosso», dunque un viaggio al termine dell’identità. Con la differenza che la Pugno gioca la stessa carta generazionale di Saviano a livello simbolico-strutturale, impiegando i materiali “minori” della cultura manga giapponese, svelati nella loro essenza mitica e mortale, mentre Saviano ne fa un uso funzionale solo alla costruzione della voce narrante – il ragazzo candido e colluso, colpevole e innocente insieme, che “scopre” la violenza fondativa e mitizzante del sistema sociale in cui vive.

Non voglio dilungarmi oltre, ma in conclusione mi domando: può tutto questo discorso avere anche solo lontanamente a che vedere col pregiudizio realista o naturalista secondo il quale la rappresentazione narrativa, come quella artistica, non sarebbe altro che una fotografia o una copia – più o meno riuscita, più o meno “verosimile” o tangibile – della presunta realtà? Ci risulta che proprio Gianni Celati, per esempio nelle sue lezioni universitarie al Dams di Bologna, abbia insegnato a un’intera generazione di scrittori e di artisti a non confondere i due piani, e a confrontarsi piuttosto col sottofondo mitico/spettrale della realtà antropologica. E allora dov’è, se c’è, la “dittatura dei fatti”? In casa d’altri, evidentemente…

Per chi suona la campana

Oggi si torna dunque a parlare di realismo, di realtà, di reale. È il prodotto di un complotto dell’industria editoriale? Anche. Ritengo scorretto tuttavia dare a intendere che la semplificazione dei concetti, la banalizzazione ad uso della massa, per inseguire un gusto che come spesso capita pochi pionieri avevano anticipato, suggerito, disseminato nelle loro opere e nei contesti (minoritari) di riferimento, sia la prova che non esista altro orizzonte di comprensione possibile. Io non credo affatto. Non mi sfuggono le improvvisazioni, le approssimazioni, le operazioni pensate negli uffici da commercialisti tanto per tirare via un altro libro che possa tamponare le rese esponenziali degli editori (produciamo 60.000 novità all’anno) o assicurare il turn over delle librerie appiattito sul concetto del “comprare solo quello che si vende subito”, ovvero sul concetto allargato dell’editoria on demand. Tuttavia esistono anche altri motivi, che hanno a che fare in primo luogo con spinte culturali più ragionate e salde.

Registriamo negli ultimi anni un incremento della qualità dell’offerta saggistica di impianto accademico e divulgativo da parte della piccola editoria di proposta, per esempio, che al di là della solita fuffa per l’avanzamento di carriera o per la stupefazione dei begonzi, mostra una buona vitalità di profilo nazionale e internazionale, dentro un mercato assai più stabile. Com’è possibile questo? È semplice: poiché si può ormai affermare che i grandi editori, in Italia, hanno smesso di fare saggistica di ricerca. In certo modo, si può quasi affermare che abbiano cessato di fare saggistica tout-court.

Per i piccoli, è un’ottima notizia, dal momento che l’aggressività di questi colossi è qualcosa di inenarrabile. (Si veda l’esempio – tra l’altro un laboratorio indispensabile alla coscienza civile del nostro paese – della casa editrice Chiarelettere, che ha alle spalle il gruppo Mauri-Spagnol: praticamente un editore formato collana di libri tutti uguali, che ha programmato di sfruttare un filone sino all’esaurimento.) Per le sorti culturali del nostro paese, tuttavia, ce ne sarebbe abbastanza per lanciare qualcosa di più di un allarme.

Nelle redazioni dei grandi editori, infatti, non esistono più intellettuali capaci di pensare progetti editoriali a lungo termine. Ma anche se esistessero, chi li vorrebbe più? Il tempo dei Pavese e dei Vittorini, ovvero di intellettuali di calibro organici a grosse strutture imprenditoriali, è davvero finito. È nelle piccole strutture periferiche, nelle redazioni mobili di macchine non tanto grandi né comode, che oggi, in Italia, si progetta e si fa ricerca. O almeno, ci si prova, con tutti i limiti strutturali che conosciamo o possiamo immaginare.

Ma qualcuno, mi domando, se ne è accorto? O siamo ancora convinti che la ricerca, “quella vera”, sia rimasta a ogni buon conto patrimonio della grande editoria?

Acclarato o meno che possa essere, dalle periferie del paese – o se vogliamo pensarlo in questo modo, dai «nodi di rete» di cui sono fatte certe realtà editoriali “minori” – promanano oggi molti dei libri che poi producono determinati scartamenti, o «dislocazioni», nell’officina degli scrittori e dei registi. Dunque è anche all’ombra di campanili meno mappati che la critica dovrebbe guardare, cercando magari di svolgere il proprio compito “istituzionale”: «quello di leggere i testi e di proporre fra essi connessioni e interazioni – non solo all’interno del lavoro di uno stesso autore […] ma anche fra i vari testi letterari ed extra-letterari che circondano l’opera […] con dati e bilanci alla mano.» (P. V. Tondelli)

L’operazione concertata con l’antologia I persecutori, per esempio, raccoglieva un invito che partiva da determinate premesse. Come ha generosamente notato Luca Mastrantonio «il valore originario de “I persecutori” è nell’assenza di un criterio che non sia letterario – semmai venato da una visione poetica, filosofica – e dunque nessun massimo comune denominatore anagrafico, gli scrittori vanno dai venticinque ai quarantacinque; nessun principio comune territoriale, nessuna ferrea logica di appartenenza (se non un certo nucleo gravitazionale come il sito di Nazione Indiana cui molti di loro fanno parte e che pure nell’ossimoro della nazione indiana ben racchiude/dischiude; non è un caso, comunque, che la nuova collana di Transeuropa è “Narratori delle riserve”).»

Al di là degli esiti – tutte le antologie sono discontinue, non si può adoperare lo stesso metro che useresti per valutare un romanzo o una raccolta di racconti – abbiamo qui l’esempio di un “lavoro di contesto” a ridosso della questione del cosiddetto realismo in letteratura. Come lo intendiamo e come lo pratichiamo. Con chi e con cosa siamo in dialogo. In ascolto. Quali sensibilità collettive vorremmo intercettare e rappresentare. Quindi questa antologia svolgeva, e svolge, un ruolo critico. Programmatico. Come direbbe Tondelli, che è l’iniziatore in Italia di questo genere di antologie-laboratorio, la specificità «risiede non tanto nella forza di un singolo testo, quanto nel fatto che il testo in questione è una singola intensità di una lunghezza d’onda collettiva. Nello stesso tempo, questa filosofia situa il progetto a metà strada fra sociologia e universo letterario vero e proprio. Più che un’ipotesi letteraria (insita, per esempio, nell’idea stessa di rivista)» I persecutori è dunque «un’ipotesi di lavoro letterario. La differenza è proprio tutta in questo lavoro. Forse, allora, […] altro non è che un’indagine letteraria, non giornalistica, sul lavoro culturale» di determinati scrittori italiani. E poiché non dubito che coloro che si sono lasciati antologizzare lo abbiano fatto perché credevano nel progetto, ritengo che allo stato attuale dell’arte le alternative disponibili siano davvero poche.

Avere un vocabolario comune, perfettamente iscritto nelle istanze del letterario, non è contingenza accessoria. Una bussola per non smarrirsi, e per continuare la navigazione in acque, come si vede, tutt’altro che tranquille. Così com’è, ognuno con la sua teoria verificata dai fatti suoi, buona parte di questo tentativo è destinato a scomparire per emorragia, per mancanza di progettualità o nel displuvio delle progettazioni di default. E mi dispiacerebbe non poco, poiché la storia della letteratura e delle idee è anche una storia di incontri e di intrecci, oltre che di biforcazioni e di commiati.

 

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15 Commenti

  1. “Il compito del narratore è dunque smisurato.” leggo nel testo di Giulio Milani, e ciò deve trovare tutti d’accordo. Certo, si tratta di vedere se questa smisuratezza è proprio quella che ci indica lui, o invece un’altra, ma ciò è secondario rispetto al fatto fondamentale che in effetti il narratore si propone un compito smisurato. Smisurato in doppio senso, che deve raggiungere luoghi spirituali in cui gli altri uomini in genere non arrivano, e che lì la materia si sottrae alla consueta misurazione.
    Ciò esclude che la narrativa debba spiegare la realtà. La scienza e la filosofia lo sanno fare meglio.
    La narrativa deve rappresentare il pathos, il dolore che la realtà ci procura, e non la stessa realtà. E tale pathos, esistente nell’anima del narratore, può esser rappresentato ed espresso in qualsiasi racconto d’invenzione: l’importante è che ci sia e che venga sentito dagli altri uomini, non il tipo di immagini (fantastiche o meno) che lo ospitano.

  2. Grazie, Marino. Ricordo anch’io con piacere quel soggiorno al Nord.

    @Sandro
    Ho posto la questione del compito, o dei compiti del narratore anche per rispondere all’idea che le narrazioni abbiano solo intenti o possibilità ludiche, di intrattenimento.
    Sono d’accordo anche col tuo secondo enunciato, dal momento che il mio articolo risponde alla domanda “Quale realtà?” – in ambito letterario – e la risposta è: quella umana. Nell’ambito della realtà umana, infatti, anche alla narrazione è a mio avviso concesso un compito e un ruolo conoscitivo.

  3. Non ci ho capito niente. Sono annegato tra le parole alla quindicesima riga.
    I casi sono due, sono io poco intelligente (è possibile) oppure è una specie di gioco di combinazione dove si interviene buttando un po’ di materiale senza preoccuparsi che il materiale sia in collegamento col mondo esterno. Un fantasy game insomma.
    Nel secondo caso vorrei darvi l’idea di organizzare dei tornei.

  4. Premessa maggiore: Io l’ho capito, e capisco uno che dica su questo scritto Non sono d’accordo, ma fatico a capire uno che dica Non l’ho capito
    Premessa minore: Tu non sei poco intelligente, a quanto ne ho capito negli anni di questa reticolare conoscenza
    Conclusione: Sarà che la tua lettura era svogliata e il tuo commento fatto per amor di polemica (altro dato che di te mi risulta piuttosto chiaro in relazione alla nostra conoscenza pregressa)?

  5. Dicevo ieri che l’affermazione del mio caro amico Giulio circa il compito del narratore è giusta in generale, a prescindere dal particolare significato che lui vi attribuisce. Ciò va spiegato e proverò a farlo. Il compito del narratore è per lui un compito essenzialmente sociale, soteriologico, come lui dice, cioè salvifico nei confronti degli altri individui della sua società. Ciò non può essere contestato: da quando esiste, la letteratura ha una sua riconosciuta e importante utilità sociale, declinata, a partire da Aristotele, nei modi più vari. Ma Giulio si stacca da ogni precedente estetica filosofica per aderire ad una visione assolutamente nuova, antropologico – religiosa, del fatto letterario, quella di René Girard, in cui l’ utilità sociale del narratore assume un senso anch’esso nuovo e molto particolare. La teoria di Girard – mi si scusi dei colpi di scure con cui debbo procedere per ragioni di brevità – è un’antropologia, cioè pretende di dire qualcosa di definitivo sulla natura umana: rifiuta cioè una visione aperta, plastica, essenzialmente modificabile, storica, dell’uomo, per inchiodarlo ad una sua pretesa natura mimetica cui sarebbe fissato da sempre e per sempre. Non entro in dettaglio. Questa natura mimetica sarebbe poi alla base della sua eterna e insopprimibile aggressività e violenza intraspecifica. In sostanza, l’istinto di morte, che Freud aveva scoperto nell’inconscio, e che con spirito illuminista aveva dichiarato integrabile a quello di vita in un progetto di civilizzazione storica in cui “L’Es doveva diventare Io”, viene di nuovo dogmaticamente appioppato in eterno all’uomo, secondo i dettami della religione cattolica. Il mondo sarà sempre una valle di lacrime. Rassegniamoci. L’uomo è cattivo. L’uomo è mimetico.
    Dati questi presupposti hobbesiani non sarebbe possibile alcuna società umana. L’ “homo homini lupus” impedirebbe prima o poi ogni aggregazione umana. Come spiegare allora la permanenza delle società umane sia pur nell’antagonismo e nel conflitto? Girard trova ancora una volta la soluzione nella psicologia freudiana. L’innata aggressività di ognuno contro tutti, che distruggerebbe la società, viene di norma convogliata, dai capi religiosi e civili, fuori della società, o, se non fuori, per lo meno ai suoi margini, con il meccanismo ben noto della proiezione paranoica, con l’invenzione del nemico esterno o interno, detto anche, nella terminologia girardiana, vittima sacrificale.
    Gesù Cristo svelerebbe, come vittima sacrificale innocente, il meccanismo segreto con cui da sempre si tiene in piedi la società, e aprirebbe gli occhi agli uomini sulla loro natura e sui meccanismi inconsci per mezzo dei quali continuano a mantenersi in vita. Indicherebbe anche l’unica via possibile per una società sopportabile: la visione disincantata della violenza innata, originale, degli uomini, e la sua conseguente implacabile repressione in nome dell’amore.
    Questa teoria è una riproposizione in chiave scientifica della religione cristiana. E come questa si basa su un atto di fede, che esista una natura umana cattiva, immodificabile dalla società e dalla storia, che si può solo sopportare e reprimere, con sacrificio e contrizione.
    La letteratura, in questo quadro, avrebbe il compito di continuare l’opera di svelamento, di demistificazione – iniziata da Gesù e proseguita dalla Chiesa – con i mezzi dell’arte letteraria. Una sorta di immersione in se stessi, nella propria vicenda umana, per metterne in luce la propria insopprimibile, ancorché resistibile, natura mimetica e aggressiva.
    Tale teoria si potrebbe riesaminare come ideologia (falsa coscienza socialmente necessaria) dell’attuale momento storico. Ma sarebbe troppo lungo farlo in questa sede.

  6. Caro Sandro, non avrei saputo dir meglio. Grazie. Mi rendo conto infatti che questo articolo può risultare, a seconda del momento della lettura di ognuno, o troppo ostico (in quanto procede da determinate premesse, anche di vocabolario) o troppo banale (per chi, come te, conosce bene l’argomento).
    Tuttavia, rispetto alla tua chiusa, in base alla quale sembrerebbe possibile una lettura ideologica di questa teoria, e quindi una sua magari anche legittima relativizzazione, vorrei segnalare che stanno arrivando importanti conferme su un fronte inaspettato, quelle delle neuro-scienze (vedi gli studi sui “neuroni a specchio” di cui ha parlato anche Sergio Garufi in altro post).
    Insomma, prima di correre in avanti (o indietro, mi pare di capire!) – come è anche giusto fare rispetto a una teoria che ha la stessa efficacia, e magari la stessa rozzaggine, di uno strumento diagnostico tipo i raggi X – forse varrebbe la pena rifletterci un momento di più, e farne – ognuno a proprio modo – tesoro.

  7. Credo sia molto utile l’intervento di Dell’Orco. Girard offre infatti dei dispositivi molto potenti – ma che sono per me utili proprio e solo nella misura in cui non vengono assolutizzati, eretti a principi monologici. Per cui si tratta di giocarli, quei principi, contro Girard stesso, contro ogni sua pretesa fondazionalista e tanto più (va da sé) apologetica. Riconoscere insomma la perspicuità degli attrezzi da lui forgiati (ma in realtà: che lui forgia combinando dispositivi preesistenti), ma solo come attrezzi finalizzati a scopi determinati, accanto ad altri – e non, come vorrebbe lui (sono d’accordo con la recensione del suo ultimo libro su Alias), buoni per tutte le stagioni.

  8. Marco, no sono poco intelligente. Non ho nessuna propensione a fare operazioni con le parole e coi concetti. Quindi ho bisogno di semplicità e concretezza. Ho bisogno delle parole ‘per tutti’.
    La cosa curiosa è che proprio Milani è stato maestro in questo.

    Comunque era uno strepito venuto fuori così, non è che volevo fare polemica, nel senso che se volevo fare polemica continuavo, invece mi pare di aver detto tutto.

  9. Io, timidamente, chiedo un piccolo approfondimento di una questione che è stata fatta balenare, qui, per me, per la prima volta: la connessione tra “neuroni specchio” e, a quanto mi è dato di capire, il “mimetismo” girardiano.
    Saremmo, quindi, di fronte non a una storia, immaginata dall’autore francese, come “L ‘uomo Mosè” di Freud, ma addirittura a una verificazione scientifica di una teoria antropologica.

    Mi pare troppo.

    Una volta chiesi a un amico fisico qualcosa sui neutrini: se hanno massa ha ragione il buddhismo, il tempo dell’universo è fatto a kalpa, espansione e contrazione, se non hanno massa ha ragione Gesù Cristo, un inizio e una fine. L’apocalisse.

  10. @soldato blu
    Messa giù così, come “verificazione scientifica di una teoria antropologica”, francamente, pare troppo anche a me. ;-) Voglio dire che qui non si tratta di mettere le braghe all’universo.
    A me interessava porre l’accento sulla vitalità di questa teoria, non differentemente da quanto posto da Marco in termini di “strumentalità” o attrezzatura. Contro o “malgrado” (direbbe Vattimo) lo stesso Girard.

  11. Mi sono dimenticato di una cosa.

    Uno scienziato ha voluto portare a fondo la verifica delle pretese buddhiste, che per indicare un kalpa raccontano la storia del vecchietto che sale sulla cima dell’Himalaia per sfiorarne la cima, una sola volta, con un foulard di seta, per poi discendere e poi, ancora risalire, sino a spianare la montagna.

    Ebbene il tempo che ci impiegherebbe il vecchio corrisponde, in scala, al tempo di durata di una espansione e di contrazione. Infilando la giustezza della cifra con una probabilità che rasenta l’impossibile.

  12. @ Giulio Milani

    Grazie Giulio per la precisazione.

    Ah, quando ho lanciato la “storiellina” la tua risposta non era ancora comparsa. Grazie di nuovo.

  13. Vorrei ancora, a sostegno della tesi anti realistica di Giulio, precisare meglio il mio pensiero. Ciò che distingue la narrativa in senso enfatico da tutte le altre possibili modalità di discorso è che in essa è presente il pàthos, che – sempre per esprimersi in termini greci – nasce dal thumòs dell’autore, si deposita nel suo discorso, e raggiunge il thumòs del lettore. Il pàthos non è conoscenza discorsiva, concettuale, è l’atto di sentire qualcosa, detto in in breve è un sentimento, un’emozione.
    Il pàthos è conoscenza come lo sono il piacere, il dolore, la paura, la speranza, l’odio, la simpatia ecc. Esso in ogni caso nasce dalla pressione del mondo sull’anima dell’individuo, il quale, se non può risolverlo nella realtà, lo esprime nel canto, nella poesia o nella narrazione. In questo senso la narrativa è un indice della bontà o meno del mondo, dice ciò che il mondo fa all’individuo in un certo momento storico, dice il dolore, il pàthos cui lo sottopone per farlo sopravvivere. Da questo punto di vista la narrativa è la conoscenza più importante, quella che davvero conta, del mondo, poiché ci dice se il mondo fa felice o infelice l’uomo. L’altra conoscenza, quella del discorso scientifico o comunque concettuale, invece ci spiega il mondo, ce ne mostra le leggi, e nel migliore dei casi ci mostra razionalmente la causa del nostro pàthos, ma mai e poi mai esprime il pàthos stesso.
    Tutto questo per dire che la rappresentazione della realtà (naturalismo, realismo ecc.) non è essenziale alla narrativa, non è il suo scopo, e pertanto può esserci o non esserci a seconda che il pàthos la richieda o meno per la propria espressione. Ritengo inoltre – ma è solo una mia ipotesi, da verificare – che con il Novecento il mondo sia così cambiato, prema a tal punto sul singolo, che questo non sia più in grado di effettuare nella realtà un’azione spontanea, cioè dettata dall’anima invece che dalla ratio. Ma ciò che vale nella realtà empirica vale anche nella realtà immaginata. Dunque il narratore, se vuole esprimere il suo pàthos, la sua anima, è costretto ad abbandonare la realtà.

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marco rovelli
marco rovelli
Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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