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Trevisione, il mondo il Al

di Gianluca Garrapa

Radicale solitudine

 

Avevo disorganizzato la vita per la radicale solitudine acquisita. Gualtieri non era sparito. Se ne era voluto andare, sparire come Majorana. Per non far pesare la sua scelta, per non farmi sentire in colpa. Per non farmi sentire inadeguato, anche lui. Leo era deluso. Preso in un gioco. Preso nel giro di vite dell’insignificanza. Non riusciva a scordare che quel passato c’era. Restava. Rimaneva conficcato come una fastidiosa scheggia di legno nell’epidermide. Come una segreta predestinazione. Occhi in fuga verso orizzonti simili a pareti di una grotta, i suoi occhi-pipistrelli. Quella violenza non voluta, subita, si era trasformata in autodistruzione. E il sogno, disegnato sull’ombra di una tenda leggermente mossa dal fresco delle sera d’estate, devastava gli angoli della sua coscienza tesa a non rischiare un’altra caduta.

Al giocherellava con l’invenzione di Gualtieri: uno scacciapensieri che risucchiava oggettini per farli riapparire in un angolo qualunque della stanza. Decideva lui dove, visualizzando il punto esatto in cui avrebbe voluto farlo rimaterializzare. Ad ogni sparizione e relativa riapparizione, abbozzava un sorriso ebete, spingendo l’aria fuori dal naso con una scossa leggera del capo, e annuiva, scotendo la testa a destra e a manca. Una divertita rassegnazione. Diceva di sì al vuoto, confermava le pretese del nulla e assecondava la voglia di non fare più nulla. Per sempre. Un sempre velleitario e utopistico. Solo stanchezza. Era una perla momentaneamente sfilata dal filo rovente delle attese. Divorato dentro dall’impossibilità di essere come chiunque altro. Apparire e sparire. Così pensava di poter fare del proprio passato. Strappare quell’episodio bastardo, farlo passare nel congegno di Gualtieri, ricollocarlo in un’altra dimensione. O forse tornare indietro, nell’esatto pomeriggio di tredici anni fa, e sfondargli il cranio con un sasso, a quello stronzo, ora tutto casa e chiesa. No, lui non ci sarebbe mai riuscito, con il senno di poi, a tornare indietro. Non rimaneva che scrivere e reinventarsi una vita che non aveva mai vissuto. Ma la finzione cadeva non appena suo padre apriva bocca, a ricordare tutto il suo disagio per avere avuto un figlio fallito, lui che per tutta la vita s’era rotto la schiena nel cantiere, che aveva costruito la casa in cui lui poteva dormire e mangiare, eccetera. Che ne poteva sapere suo padre della noia, dell’incapacità a vivere, dell’inadeguatezza dei giovani scrittori. Che ne poteva sapere dei mondi che l’anfologrammina gli aveva dischiuso. Dei letarghi della bonaccia mentale dell’oloina, quando c’era, e della bestia furibonda che esplodeva in lui, quando non ne aveva e non c’era, e dei pregiudizi e di tutto il resto. Era questo, in fondo, il massimo premio che gli dei avevano potuto concedergli: la possibilità di scordare tutte le sue complicazioni mentali e chimiche, abbandonandosi, di tanto in tanto, ai racconti di quando aveva conosciuto sua madre, in bici, ricordi in bianco e nero. Quando la vita era semplicemente difficile e ci si aiutava l’un l’altro senza mangiarsi come squali.

“Al? Al? Oh… ma rispondi? Tieni… è buonissima,” il braccio dritto davanti a sé, teso nella mano chiusa a pugno con le nocche rivolte verso il basso. Sorpresa! :raffaelle entrò quasi di soppiatto, mimando un passo felpato, come danzando sulla punta dei piedi. “Ero convinta che mi avessi sentita entrare,” si affrettò a dire per scusarsi del trasalimento che aveva provocato in Al. Egli era immerso nei suoi pensieri, negli scampoli di riflessioni organiche che presto sarebbero divenute idee prive di senso borghese e lui, travolto dall’orgone della benedetta droga, avrebbe ricomposto la sua indegnità morale sullo sfondo di una lenta disintegrazione psichica. Allungò il braccio e le sorrise: “Non è nulla, pensavo alla mia… vita,” disse porgendole il palmo della mano aperto a conchiglia, pronto a ricevere la dose, imbeccato come un pulcino. Al mandò giù le pasticche mentre :raffaelle, già gonfia, avvitandosi in una piccola, ridicola coreografia, vi si sedette sulle ginocchia e lo abbracciò. L’amore cosmico dell’oloina in questo inferno di persone che sbavano per un posto al paradiso. Come diventava leggera e bella la vita, allora.

 

 

 

 

Dove suona Beethoven e :raffaelle scopre che Leo è un essere umano

 

Piovvero densissime paludi dal cervello di nottambuli. Diretti verso il mare fermi a fumare sul balcone come pipistrelli immobili o bandiere inutili nell’afa di un paese in fondo all’anima di un dio che non aveva più rispetto alcuno di sé. Al fissava il volto oltre la superficie corrosa dello specchio, anticaglia della nonna che non aveva segni di riconoscimento alcuno, anonimo e desolato in fondo alla mansarda della sua vecchia casa. Edifici analogici: avevano di bello l’essere umani nella polverosa prospettiva di insetti e scarafaggi tra gli assi dissestati del parquet.

Una visione isterica di luce dall’abbaino in alto della stanza, infranse l’illusione dell’olodifussore di passato e Al riprese i sensi al nuovo e vide l’ora e più drammatico tranello della realtà. Era solo, davanti al proiettore transmentale nell’attesa di vedere il sembiante di :raffaelle prendere visione nella forma a lui più cara, e nulla accadde. Gli venne da pensare a Transmodale. Egli era sereno delle sue piccole cose, dei suoi buchi neri e delle sue invenzioni. Amava Leonardo da Vinci e lui credeva, ed era anzi patologicamente certo, che avesse inventato lui il codice binario scrivendo da destra e da sinistra. Anche Leo era mancino, scriveva solo in un verso, ma pensava anche lui simultaneamente al contrario, da destra e da sinistra. In dentro e in fuori. Al attivò l’olovisore e tentò di individuare, quanto meno, :raffaelle. Trasalì. Si voltò di scatto. Era seduto artigliando i braccioli della poltrona come se i braccioli fossero il suo nervosismo trattenuto e infine sbottò: che ci fai qui? Non dovevi essere altrove? Era lì che m’aspettavo di incontrarti. :raffaelle tirava su con il naso, aveva gli occhi rossi e i cani le sbavavano attorno tra le gambe mugolando e come facendole segno con la testa che l’avrebbero sostenuta. :raffaelle stava piangendo e al non ne capiva il motivo. Perché piangi? Cosa ti succede? Fece, deglutendo un paio di volte. No, nulla! Mi sono sbagliata ancora una volta! Cercò di giustificarsi la donna.

Leo era sparito, al solito e lei lo aveva pedinato, al solito. E aveva scoperto tutto, un’altra volta. Leo non era un personaggio elettrico e non amava :raffaelle, non poteva amare nessuno di loro. Un giorno sarebbe morto, e loro no. :raffaelle non avrebbe mai accettato l’umanità di Leo. Umano! Puah! Come fai ad esserne tanto sicura? Chi te lo ha detto che Leo è un umano? Come hai fatto a scoprirlo? Le domandò meccanicamente Al. :raffaelle proseguì verso Al che aveva disattivato l’oloproiettore e stava dirigendosi alla consolle, ne vuoi? Come fai a pensare alla droga ora? Hai capito o no? Leo è diverso da noi! Noi siamo pura elettricità e lui no! E il nostro amore… :raffaelle si interruppe e scoppiò in un pianto sconsolato e anche i cani languivano, piccoli, empatici cuccioli. Su, su! Non fare così! Tieni, bevi, calmati ora. Oh, :raffaelle… e io che mi ero disperato e avevo già visto la fine della mia vita! Al la strinse a sé forte forte ed ella iniziò a rilassarsi. I cani si erano accucciati per terra e sbirciavano dal basso quell’abbraccio con la tenerezza tipica degli animaletti ben addestrati. Spiegami cosa hai visto! Incalzò al quando capì che :raffaelle era pronta a sfogarsi un pò più razionalmente. Ed ella cominciò a parlare serenamente, erano seduti intanto mentre il tramonto si sposava agli accordi dei concerti per pianoforte di Beethoven apparso educatamente in un angolo della stanza, tra la stupore dei cani che balzarono in piedi a soppesare con le loro testoline, ora a destra ora a sinistra, l’ologramma del musicista mentre sedeva al pianoforte.

…lo stavo seguendo, a distanza, ma lui non se n’era accorto. Poi a un certo punto l’ho visto entrare nella transtazione in direzione oltremonitor. Credevo stesse viaggiando come avatar e invece… :raffaelle s’interruppe. Al la guardò negli occhi e le concesse di non portare a termine quel pensiero scomodo. Non preoccuparti, disse, anche senza di lui, un giorno, noi potremmo autogenerarci… cosa vuoi dire? :raffaelle si divincolò dall’abbraccio di Al respingendolo decisamente, nei suoi occhi brillò un moto di rabbia e il suo volto cambiò e divenne paonazzo di ira. Anche i cani si allarmarono sembrando percepire la sua improvvisa tensione. Al non poteva più tornare indietro. Si morse il labbro inferiore nervosamente e tentò ugualmente di riparare abbozzando un largo sorriso… ma non fece che peggiorare la situazione. :raffaelle aveva capito tutto e niente sarebbe più stato come prima. E tutto forse sarebbe finito per sempre.

Campo di Bataille: dilapidazione-lusso, 1-0

 

Complice l’afa d’improvviso gradevolmente (o con tragica fatalità ferragostana, quasi un improperio alla modaccia di alcuni, rispettata sovente, quasi un dover ottuso a spese della pervicacia apprensiva e civettuola della vacanza a costo di debiti improponibili e nevrotissime dimostrazioni di serena tranquillità da self-made men) complicato impose lo stile ad imitazione dell’inumano e dello sconcerto virile a fronte di femminili lascivi abbandoni, veramente saggi. Di militi ignoti sul campo della vacua semantica e di malati igniti da freddure affatto recondite. Riconquistate stragi del sabbath oligonaturale e diuretico. Rampe di lancio non sono losche e paraffina lungo la biliardistica degli eventuali emoticon ultrauterini. Rimbecillire parole lungo il dorso di un libro vocale. Proprio dorsale sonora del libro. Similmente la propria lettura mentale, amplificato nell’ascolto, ritorna silenziosa e ieratica sub specie di frontale quadrifonia. Poc’anzi, remoti lampi da tele, siccome di un Tiziano con la coda dell’occhio di paglia mentre medita l’opera propria di arte in un singhiozzo fulminante del malconcio pisano cielo, traevano sinistri mormorii da remote spitte del sotterraneo io. Fragorosamente rotto all’incantesimo pulviscolare, parallelo all’encourage, accolita rassicurante di certosine manifestazione di vanitoso vuoto. Penetranti resine e salmastre scogliere di alghe, la donna spolvera di fard i robusti di scaglie alberi perfetti quasi financo in storture convergenti a naturalissime d’arte visioni profuse da altrettante divinità pagane insplosive sotto stillicidi di luce su gocce balsamate brillanti di resina al tramontarsi della giornata. E la donna si riarmonizzò al passo della famigliuola, di ritornar impaziente alle cure di toeletta nell’antecenare. E la prolusione ebbe per tema ‘l’ebbe di ogni prolusione’: introduzione alla fantasmatica delle mongolfiere. Lo scrittoio, lampante come un ostrica nei mari della luna, era ingombro di metriche e litanie forzate. Una sedia dietro lo scrittoio, una poltrona. Egli vi si sedette con una flemma che ricordava una lumaca estenuante. Si lisciò compulsamente le gambe sui troppo solo a pensarsi pantaloni di velluto blu. Respirò rumorosamente al presente e farneticò, era nudo dalla cintola al collo e il viso era avvolto tutto, la bocca, tranne la fonologia dell’intiero fisico significante, era correttamente coperto il corpo ben membruto e in ispecie nella zona del pene, rigonfio di gagliarda implicita sognante baldanza, laddove volevasi dare significazione di questo coprirsi appunto, e l’idea l’avea ben resa con il celare dietro una costumanza di rettitudine un vago sentore di cilicio, e ben oltre la semplicissima vestizione da neocoinurbazione di novecento pieno, lo spaventevole effetto che dovevasi trarre dalla posticcia mascheratura facciale, a debite distanze notturne haverebbero sì innescato tali moti di orrore, venìa placidamente smorzato dalla buffissima rincorsa del nastro isolante attorno al grande parvente capezzolo, come che da quello sgattaiolar di occhi spiritati e folli, dovesse dileguarsi via per poco l’anima del seduto. E così avvenne che egli, distratto fin troppo dallo stipite socchiuso incapace a trattener importuni scheletri dall’armadio, strinse artigliescamente i braccioli della poltroncina in gesto di alzarsi e così non fece. E anzi :raffaellescamente posesi le ginocchia come su ceci punitivi immaginari miagolando via lungo le promesse terrene di un colonna d’ Ercole scivoloso. Hélas, si frantumò via un dente e balzò in controluce contro il vetro inzaccherato di pioggia turbolenta e variamente strappata a più logiche rettilinee celesti tra nuvole e polvere.

(L’immagine che correda il testo è un  quadro di Gianluca Garrapa).

 

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11 Commenti

  1. Mi spiace aver perso il thread di interessanti post, in questi festa-modaioli giorni. Speriamo che il 2009 sia migliore del 2008, per tutti.

    Il testo è gonfio, anzi, tronfio di pathos e di multipla sofferenza. Trasuda dolore, inappagamento e un’infantile voglia di riposizionarsi, di trovare nuove collocazioni nei propri moto-spazio-tempo con colpetti di bacchetta magica, alla ricerca di nuove accettazioni. La sistematica mancanza di gratificazioni può mandare in depressione chiunque.
    Ambiguo il risultato dell’uso del linguaggio: il testo appare insieme pretenziosamente ricercato e scritto di getto. Con qualche luogo comune di troppo.
    Della terza parte ho carpito qua e là il senso di qualche periodo.
    Ma forse mi son rimaste oscure pure la prima e la seconda.

  2. Sembra uno sguardo che si fa largo verso l’alto dal fondo di un pozzo, lo sguardo vitreo dell’annegato che penetra le alghe e il verde dell’acqua stagnante per salire alla luce salvifica di una lampada, coronata dal blu notturno di una fascia di cielo (…il quadro, neh).

  3. a me sembra piuttosto che al centro del quadro, senza geometrizzare troppo né il ‘centro’ né il ‘quadro’, vi sia un seno, il seno della madreterra e matrigna, da cui si dipartono o a cui arrivano le radici e i radicali, a seconda che si leggano d’un verso sinistro o dell’altero d’estro, e che nel chiaroscurore si faccia luce la tenebra e viceversa, inferendone una ferita da sanare senza cura, incurante dell’incurabilità

  4. se vi interessa, qui ci sono gli altri quadricromi di transmodale gualtieri:
    http://www.flickr.com/photos/32094539%40N07/
    ringrazio il mio corpo temporale (gianluca garrapa) per avermi transdotto in superficie e transmodale gualtieri per la gentile concessione del suo quadricromo. grazie anche a tutti gli interassenti per i loro feedback e grazie a marco rovelli, il cui corpo temporale vorrei conoscere se non fossi un personaggio elettrico. un saluto a leo bloom che ha prestato il suo nome comparendo al mio post(o). infine un saluto a tutti gli indyvidui.
    :)
    p.s.
    transmodale gualtieri, emulando bortolotti gherardo, tenterà, chissà quando, un racconto psigitale ideato da leo bloom nell’ambito di un esperimento mentale che stiamo conducendo, insieme anche a gianluca garrapa, su varie location psicomunicazionali.
    ciao ciao!

  5. zio è troppo bello anche se hai sbagliato il titolo. allora che hai fatto con quello la?rispondimi se vuoi con un commento sul blog mio

  6. plessus, ma te cosa scrivi? come fai a giudicare una cosa di cui non hai carpito molto? e poi perché riposizionamento infantile? l’hai recepito il riferimento all’abuso e alle sue tossiche conseguenze? secondo me, il tuo giudizio è scritto per partito preso, giusto perché ciò che non si allinea con il pensiero dominante (o unico che dirsi voglia). sì, penso che la tua critica sia ‘pregiudiziale’ e soprattutto molto chiusa al dialogo.
    p.s.
    fondamentalmente me ne frego dei (pre)giudizi negativi, dettati dalla standardizzazione realista-televisiva, e dalla sindrome del gregge. magari se avessi scritto: bellissimo, ti si sarebbero accodati ulteriori giudizi calibrati sul tuo pregiudizio. tra l’altro non capisco come si possa essere affascinati dal quadro, che è descrittura visiva dell’invisibile qui scritto, e nello stesso tempo non carpire la struttura del fu post.
    boh bah chi lo sa?
    :)

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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