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Sangue d’Italia

di Linnio Accorroni

Sono sostanzialmente due, nell’Italia contemporanea, le maniere con le quali si affronta la storia: una è quella basata sulla serietà di uno scrupoloso approccio epistemologico, sulla padronanza di alcune necessarie tecniche di lavoro e sul rispetto di una severa deontologia professionale. Questa prima maniera è quella a cui si attengono personalità di indiscusso rilievo scientifico, quali, per esempio, Sergio Luzzatto, docente di Storia Moderna all’università di Torino, studioso della rivoluzione francese e del ‘900 italiano ed autore di opere recenti che hanno suscitato polemiche e discussioni piuttosto accese quali Il corpo del duce (1998), La crisi dell’antifascismo ( 2004) ed il recente Padre Pio. Miracoli e politica nell’Italia del ‘900 (2007). Questo Sangue d’Italia (Manifesto Libri, 2008, pp. 221, € 20,00) è il suo ultimo prezioso contributo, una silloge di articoli usciti principalmente sul «Corriere della Sera» e che vertono su alcuni snodi cruciali della nostra storia recente: il ventennio fascista, la Resistenza, nella sua accezione di ‘guerra civile’e la complessa eredità che essa ha lasciato all’Italia postguerra, gli anni di piombo. Tutti fenomeni letti ed analizzati dall’intellettuale torinese con vis polemica e con ammirevole rigore intellettuale. C’è, purtroppo, però anche un’altra ‘maniera’ di ‘far storia’ che imperversa e furoreggia, pur essendo esattamente agli antipodi rispetto a quella propugnata da Luzzatto: è quella della storia ridotta ad ‘effetto cosmetico’ e a intrattenimento popolare/nazionale prodotta per dominare le classifiche dei bestseller, quella ridotta a “scoop ferragostano da rotocalco popolare”, la storia-chiacchiera, la storia-favola da talkshow televisivo, capace di trasformare in pettegolezzo e gossip ogni vicenda del passato, più o meno recente. È la storia che trasforma il libro in una specie di inerte succedaneo cartaceo del telecomando; è quella priva di basi documentarie e di consistenza scientifica, che non sa cosa sia un serio lavoro archivistico o documentaristico; è quella che riesce a spacciare gigantesche menzogne per verità à la page grazie alla poderosa campagna di una mistificazione sistematica e replicata nei circuiti della deformazione di massa ( in primis, la tv, ma anche certa stampa molto allineata e ben felice di adeguarsi alla vacuità televisiva). Fu Montanelli, con la fortunata serie della sua “Storia d’Italia”, il primo ad inaugurare questo malsano e deprecabile filone: testi che ingeneravano comunque una qualche specie di familiarità con il passato, costruiti su di un profluvio di curiosità aneddotiche, ma che, in realtà, non riconducevano a nessuna esperienza conoscitiva autentica e rigorosa. Si leggevano quei volumi di pseudostoria e si rimaneva annichiliti dal profluvio di aneddoti e storielle, ma certo non si poteva pensare che quei testi fossero frutto di una seria analisi storiografica. Gervaso, Pansa,Vespa ed altri hanno poi seguito stolidamente seguito le orme di cotanto ‘Maestro’, contribuendo così ad una specie di paradossale miracolo alla rovescia che si reitera con tanta tragica frequenza nella nostra nazione: in un paese che legge poco, c’è una grande quantità di libri di ‘storia’(?) venduti, ma anche una gigantesca, macroscopica ignoranza della stessa. Luzzatto aborre ovviamente questo tipo di atteggiamento gnoseologico e sostiene, in questa sua opera,così come aveva fatto nelle altre, una ‘lettura’ della storia che solo qualche anno sarebbe apparsa come una scontata tautologia e che oggi invece va difesa come una verità rivoluzionaria: la storia è cosa troppo seria per non essere affidata solo agli storici ed agli studiosi, a quelli capaci di un uso documentato delle fonti e degli archivi. È anche per questo che questa avvincente raccolta di interventi appare come un efficace antivirus capace di evidenziare la perniciosa influenza di quelle tabe endemiche e diffusissime che sono il giampaolopansismo e il brunovespismo. Come modello esemplificativo, val la pena ricordare le pagine che Luzzatto dedica alla polemica Vespa-Bentivegna, quando il partigiano di Via Rasella dimostrò, alla luce di prove inoppugnabili, la risibile infondatezza delle accuse vespiane.Oppure si leggano le pagine dedicate alla trilogia antiresistenziale di Pansa in cui si dimostra che l’ex-articolista dell’Espresso spaccia per folgoranti ‘novità’ questioni di cui la vulgata storiografica più seria ed approfondita si è già a lungo occupata; ma anche le ‘provvidenziali’ lacune memoriali di Albertazzi, che, colto da un’improvvisa damnatio memoriae, dimentica i suoi vergognosi trascorsi di combattente della RSI… C’è poi un filo rosso che collega questi articoli ed interventi fra loro, quello costituito dalla presenza centrale e dominante della biopolitica nella storia del ‘900. L’intuizione da cui Luzzatto parte è che c’è una specie di “emergenza del corpo come aspetto costitutivo del discorso politico del ‘900 e l’oscillazione del ventesimo secolo fra grandi processi di vita e grandi processi di morte”. Per questo le pagine più belle ed intense del libro mi paiono proprio quelle incentrate sulla esibizione corporale: il corpo del duce, prima e dopo Piazzale Loreto, quello dei partigiani uccisi ed appesi agli alberi con la scritta ‘banditen’, il corpaccione di Primo Carnera, eroe per forza, quello dei soldati al fronte, di Pasolini, di Moro,…. La dimensione tutta corporale del’ 900 emerge con forza( ed il libro di Belpoliti sul corpo del cavalier Silvio Banana mi pare suoni come un’ulteriore conferma): è lo sviluppo dell’intuizione pasolinana quando il regista di Salò-Sade scriveva che il nazifascismo era innanzitutto un attentato ai corpi e quindi anche alla sacralità della vita.

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4 Commenti

  1. A proposito di storia, teniamo conto che fra i numerosi reati d’opinione che i nostri illuminati governanti hanno istituito, ce ne sono alcuni che limitano o proibiscono la ricerca storica. Un gruppo di coraggiosi intellettuali francesi ha fondato un’associazione per la libertà di ricerca storica, sul mio blog c’è il collegamento al loro sito nel quale è possibile sottoscrivere il loro manifesto che è stato presentato al parlamento francese e a quello europeo (ho firmato anch’io). Purtroppo non hanno ottenuto grandi risultati, però almeno sono riusciti a far conoscere il problema all’opinione pubblica: è già qualcosa…

  2. ho letto e apprezzato molto… sono stato un paio d’anni (mattina e pomeriggio) in un archivio a leggere documenti del XVII secolo, e un altro anno a cercare di legare e interpretare i dati … altro che gossip … la storia è tenere tutto in discussione, sospeso in uno spazio intellettuale che si definisce e si contratta nel confronto con il lettore che hai in mente, in polemica col lettore che hai in testa, a volte… ecco il punto, allora… gli storici possono permettersi la sgradevolezza e la difficoltà della documentazione circostanziata, in cui ogni parola che usi ha bisogno di una nota in cui si apre una ulteriore riflessione, in una specie di vertigine che il pubblico, nell’uso che fa della storia, non può permettersi… il passato, così, si appittisce nell’uso pubblico della storia, e non perchè i giornalisti non siano storici, ma perchè dovrebbero esserlo anche quando fanno cronaca…

  3. la biopolitica ha avuto dunque un’accelerazione immane con la legge sull’aborto? e dunque i nazifascisti di oggi sarebbero…
    troppo complicato per me. invece posso dire con sicurezza che il capostipite del secondo filone fu Mario Dal Pra con “La guerra partigiana in Italia”, che un Insmli ormai perpetua ha inopportunamente fatto uscire or ora per i tipi della Giunti. (Bene invece fece Pinto a impedirne un’anteprima mesi fa su Nazione Indiana.)

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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