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Ad limine Artaud – (ancora in margine a scrittura ed etica)

di Marco Rovelli

Oggi, 4 marzo 2010, sono passati 71 anni dalla morte di Antonin Artaud. 71 è il numero atomico del lutezio. Metallo bianco-argenteo il cui nome viene dall’antica Parigi. A Parigi Artaud frequenta i surrealisti e li abbandona, a Parigi gli viene diagnosticata la malattia mentale, a Parigi Antonin Artaud muore e nasce Antonin Nalpas.

(Al PAC di Milano, qualche anno fa). Artaud, messo in mostra. Il suo corpo-parola lo si vede, sta esposto moltiplicato come il volto di uno skizo-dio. Foto, disegni, sequenze di film proiettate insieme su schermi e su specchi, e la voce che urla: Artaud aggetta da ogni-dove, la sua immagine riprodotta-riflessa-tracciata ti osserva, e non è mai la stessa. Come nella Visio dei di Cusano, solo che qui l’Origine è ovunque, l’Infinito è tutto qui, ed è sempre lo stesso che ritorna eternamente.

Torna anche nel vuoto della stanza manicomiale, e lì un brivido numinoso traversa le vertebre.

E si torna all’inizio, all’entrata di questo Artaud mostrato, monstre sublime ed osceno: la breve sequenza di un provino per il film La fin du monde. Ti consegni al suo sguardo, alla sua voce, e resti impigliato in questo ritorno. Nelle cadenze, nel ritmo, nel furore della sua voce: precisamente il ritmo eterno del caos. Un ritmo che in-sorge da una filastrocca per bambini, Marlborough s’en va en guerre.

Una filastrocca di bambini, la sua nenia, la sua ripetizione – la voce furente di Artaud ne allarga le maglie, la fa esplodere. La mette a nudo -il cuore scorticato, bruto – senza colore, senza posto. Artaud recita la sua filastrocca rendendola irriconoscibile, ma così facendo non le fa violenza, piuttosto disvela la violenza stessa dell’essere, quella violenza che le nenie de bambini tentano di placare e sottomettere, i bambini la conoscono bene la violenza dell’essere, la hanno ben presente, perciò tentano di addormentarla. Le filastrocche dei bambini hanno la forma della violenza in filigrana, perché è alla violenza che s rivolgono, è la violenza che chiamano, che implorano, che pregano.

Artaud la rovescia, squarcia il foglio della nenia, ne mostra la sua ragion d’essere – la sua region d’essere: essere-caos, informe, corpo senza organi. La voce di Artaud – la sua grana, la sua impossibile presenza – presentifica un’assenza, e con potenza d’infinita intensità ne espone il corpo.

E poi, su una parete, la celebrazione assetata del corpo di gloria, o corpo fecale. Non una blasfemia gratuita, verrebbe da dire, ma una blasfemia dotata di un profondo senso ontologico: e invece no, è proprio una blasfemia gratuita, ed è solo in questa gratuità – nella sua superficiale ri-piegatura dell’essere, nel suo ricalcarne la pura gratuità– che questa visione fa (fa: non ha) il suo senso.

Dio è un essere?

Se ne è uno, è merda.

Se non lo è,

non è.

Allora non è,

ma come il vuoto che avanza con tutte le sue forme

di cui la rappresentazione più perfetta

è la marcia di un gruppo incalcolabile di piattole.

La crudeltà artaudiana è il dis-piegarsi di queste forme di organi an-organici. Solo la crudeltà rende liberi. Come scrive in una lettera: “Penso che uno spirito, chiunque esso sia, non deve lasciarsi disgustare da niente. Non ci sono eccezioni alla libertà”.

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8 Commenti

  1.  
    [ Artaud padre della assoluta trasversalità intellettuale – per quel suo concetto di crudeltà come purezza morale – crudeltà come severità – crudeltà come rigore ]
     
    ,\\’
     

  2. Non so se Rovelli, proponendo questo suo scritto, ha pensato alle ricadute sul dibattito in corso sulla responsabilità dell’autore. Eppure, quand’anche indirettamente, ci sono due spunti che ha senso evidenziare proprio in relazione a quel dibattito: la «pura gratuità» e la «crudeltà» che «rende liberi». Sono spunti che riassumono tutto il programma di Artaud, che com’è noto sorge e si affina in opposizione alla cultura del suo tempo. È un programma politico, che si produce dall’interno di quella cultura e che mira a farla esplodere. La crudeltà è, per Artaud, la coscienza applicata alla forma: non più la rappresentazione della vita, ma la vita stessa che si esalta in un atto gratuito e perturbante. Una crudeltà, quindi, che agisce la propria politicità all’interno dello specifico campo artistico, nella disposizione particolare dei segni, e che mira non a cambiare il mondo (per questo servono le mitragliatrici, dirà lo stesso Artaud), ma a modificare la relazione tra i soggetti che partecipano all’evento. Sono spunti, insomma, quelli proposti da Artaud (e giustamente sottolineati da Rovelli), che possono ribaltarsi proficuamente nel linguaggio creativo, che è poi il vero obiettivo dell’impegno responsabile dell’autore. Fino ad oggi, ad esclusione di alcuni passi in Trevi, il problema della responsabilità è stato affrontato mettendo su piani diversi l’ambito letterario e quello politico; l’impressione che ne ho ricavato è che il primo ambito, quello letterario, deve uscire da se stesso per incontrarsi con quello politico, come conciliando l’individualità dello scrittore con la socialità del cittadino. Ai fini dell’impegno, il fatto letterario diventa secondario rispetto all’intervento diretto nel reale. E infatti le domande redazionali esulano le opere e la loro intrinseca allegoricità. Artaud, invece, se ne frega dell’impegno e dell’attualità. Quel che gli preme è lavorare sulla forma e, tramite questa, ritemprare la percezione e dunque la coscienza: «spezzare il linguaggio per raggiungere la vita». L’arte è un gesto bruto, sincopato, dissonante, il cui scopo «non è di risolvere conflitti sociali o psicologici, di servire da terreno di scontro a passioni morali», ma quello di mettere i corpi di fronte alla limitatezza delle convenzioni. Piano etico e piano estetico non sono separati: al di là di ogni patteggiamento con la cultura corrotta. Quanto può ancora dirci Artaud?

    Nevio Gàmbula

  3. Era come se l’irrimediabile si fosse compiuto:
    L’orrore era al suo culmine
    Insieme alla disperazione
    E allo sconforto.
    E ciò si estendeva
    A tutta la vita futura della mia anima.
    Dio allora si era reso introvabile.
    C’era un punto nero
    Dov’era confluita la mia sorte
    Che restava lì
    Inchiodata
    Fin quando il tempo
    Non sarà riassorbito dall’eternità.

    (A. Artaud)

  4. Non avevo pensato direttamente al dibattito, ma fai bene Nevio a coglierne le implicazioni. Lo statuto della rappresentazione artistica, in questo senso, dev’essere quella di modificare la percezione dell’essere – in qualcuna delle sue forme. E sono assolutamente d’accordo che non si tratta di mettere in comunicazione l’ambito letterario con quello politico, ché l’ambito letterario è immediatamente politico. Si tratta di giocare segni. Ma quali? Non certo un gioco formalistico e indifferente, ma – artaudianamente – segni dove è in gioco, ad ogni passo, l’esistenza nella sua integralità. Il segno non è mai puro, ma un grumo fecale dove si addensa la vita. Il segno è sempre oltre se stesso, nel fango dell’esistenza, che non può non dirsi. C’è una terra dove pensiero e vita non sono separati, ma che li precede. Ed è questo il segno che (ci)interessa. Ma allora, proprio per questo, non ha senso dire che Artaud insegna la “trasversalità” se non su questi presupposti, nel senso che è un’azione che sfonda e trapassa ad ogni istante. Se la letteratura è politica in quanto vi è sempre in gioco l’esistenza, allora anche l’esistenza deve essere presa “alla lettera”. Pensiero e vita sono, ambedue, allo stesso tempo, una questione etica. E’ questo il cuore della questione, credo. L’etica.
    L’oggetto della narrazione (il sociale piuttosto che la dimensione individuale: ma vi è una differenza di mondi, davvero? io non lo credo) è allora un segno ulteriore, segno tra i segni: è però – e questa è la sua specificità – l’attrito, la hylé della narrazione. In questo senso allora la letteratura è ancor più atto politico in quanto rimescola le coordinate della percezione di un evento.
    (E per venire allora a ciò che ha scatenato il dibattito: se si tratta di segni, non è certo possibile asserire una indifferenza ad un contesto. Del resto, è pssibile immaginare Artaud che scrive su Libero? E soprattutto, che ci scrive in maniera innocua come certi presunti anarchici senza corona? Come ho già detto: è questione di stile)

  5. @ Marco
    concordo su tutto, compreso il finale sul contesto-Libero. E infatti, parafrasando lo stesso Artaud, ho scritto: AL DI LÀ DI OGNI PATTEGGIAMENTO CON LA CULTURA CORROTTA. Il problema, semmai, è riconoscere le trame assolutamente mobili della corruzione. Come scrisse il dimenticato Giorgio Cesarano, viviamo il nostro ambiente tramite un medium che lo filtra e che pertanto ci appare esclusivamente nella sua rappresentazione fissata in schemi. Riconoscere la corruzione è scovare cosa si nasconde sotto le rappresentazioni.

    nevio gàmbula

  6. ..mia madre quand’ero bambino, mi svegliava sempre con una nenia e mi addormentava con L’Heavi metal;

    l’operazione funzionava, quando la musica partiva a palla era ora di addormentarsi: non era piu’ disposta a sopportarmi, quando sopraggiungeva il dolce canto della nenia sapevo che sarei stato al centro delle sue amorevoli attenzioni e il risveglio sopraggiungeva in una attimo..

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Marco Rovelli nasce nel 1969 a Massa. Scrive e canta. Come scrittore, dopo il libro di poesie Corpo esposto, pubblicato nel 2004, ha pubblicato Lager italiani, un "reportage narrativo" interamente dedicato ai centri di permanenza temporanea (CPT), raccontati attraverso le storie di coloro che vi sono stati reclusi e analizzati dal punto di vista politico e filosofico. Nel 2008 ha pubblicato Lavorare uccide, un nuovo reportage narrativo dedicato ad un'analisi critica del fenomeno delle morti sul lavoro in Italia. Nel 2009 ha pubblicato Servi, il racconto di un viaggio nei luoghi e nelle storie dei clandestini al lavoro. Sempre nel 2009 ha pubblicato il secondo libro di poesie, L'inappartenenza. Suoi racconti e reportage sono apparsi su diverse riviste, tra cui Nuovi Argomenti. Collabora con il manifesto e l'Unità, sulla quale tiene una rubrica settimanale. Fa parte della redazione della rivista online Nazione Indiana. Collabora con Transeuropa Edizioni, per cui cura la collana "Margini a fuoco" insieme a Marco Revelli. Come musicista, dopo l'esperienza col gruppo degli Swan Crash, dal 2001 al 2006 fa parte (come cantante e autore di canzoni) dei Les Anarchistes, gruppo vincitore, fra le altre cose, del premio Ciampi 2002 per il miglior album d'esordio, gruppo che spesso ha rivisitato antichi canti della tradizione anarchica e popolare italiana. Nel 2007 ha lasciato il vecchio gruppo e ha iniziato un percorso come solista. Nel 2009 ha pubblicato il primo cd, libertAria, nel quale ci sono canzoni scritte insieme a Erri De Luca, Maurizio Maggiani e Wu Ming 2, e al quale hanno collaborato Yo Yo Mundi e Daniele Sepe. A Rovelli è stato assegnato il Premio Fuori dal controllo 2009 nell'ambito del Meeting Etichette Indipendenti. In campo teatrale, dal libro Servi Marco Rovelli ha tratto, nel 2009, un omonimo "racconto teatrale e musicale" che lo ha visto in scena insieme a Mohamed Ba, per la regia di Renato Sarti del Teatro della Cooperativa. Nel 2011 ha scritto un nuovo racconto teatrale e musicale, Homo Migrans, diretto ancora da Renato Sarti: in scena, insieme a Rovelli, Moni Ovadia, Mohamed Ba, il maestro di fisarmonica cromatica rom serbo Jovica Jovic e Camilla Barone.
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