Dopo la tragedia

[È stato da poco ripubblicato, dopo dieci anni, Settanta, testo che è stato riveduto e corretto nonché integrato di circa sessanta nuove pagine. Marco Belpoliti ci regala un capitolo in una versione ulteriormente più lunga e differente da quella pubblicata nella nuova edizione. G.B.]

di Marco Belpoliti

Se Pier Paolo Pasolini non fosse andato a morire all’Idroscalo di Ostia, nella notte tra il 1° e il 2 novembre 1975, se fosse vissuto almeno tre o quattro anni ancora, non c’è dubbio che le vicende del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro sarebbero entrate di diritto in quelle rubricate nello scartafaccio, zibaldone narrativo-cinematografico, che il poeta-scrittore-regista stava componendo all’inizio degli anni Settanta, previsto in oltre 2000 pagine e di cui invece abbiamo potuto leggere 500 pagine postume, e solo nel 1992, con il titolo di Petrolio.
Le lettere che il leader democristiano inviava dal carcere delle Brigate rosse ai colleghi di partito, alle massime autorità dello Stato italiano, agli amici e ai famigliari sarebbero certamente apparse a Pasolini troppo interessanti per non inserirle in quel romanzo manierista, scritto nella lingua «che si adopera per la saggistica, per certi articoli giornalistici, per le recensioni, per le lettere private o anche per la poesia», come dichiara in una lettera a Moravia. Così sarebbe stato anche per il successivo memoriale ritrovato nel covo brigatista di via Monte Nevoso a Milano, che per la sua prosa e la forma informe sembra addirittura un capitolo non finito di Petrolio.
Pasolini avrebbe trovato negli scritti di Moro e nelle dichiarazioni dei leader del suo partito, nella prosa di Andreotti e degli altri ministri, materiale adatto per continuare l’analisi della nevrosi collettiva che è al centro del suo romanzo potenziale: «L’Occidente, e soprattutto l’Italia, è come un essere vivente. Nella sua psiche collettiva, l’inconscio è il popolo rimosso; il Super-io è la borghesia, guasto però dall’edonismo, al punto da far trovare un superiore fascino nel vecchio fascismo; la coscienza è segnata da una funerea nevrosi» (Enrico Capodaglio).
Le vicende dell’assassinio di Moro determinano, con la loro messa in scena di una nevrosi collettiva, il punto di svolta dell’intera storia politica dell’ultimo quarantennio, ma anche la fine l’idea di una letteratura politicamente impegnata praticata da un’intera generazione di scrittori e poeti a cui appartiene lo stesso Pasolini, generazione nata negli anni Venti del secolo. Gli anni Settanta, ha scritto Calvino alla fine del decennio presentando il libro dei suoi saggi non a caso intitolato Una pietra sopra, «ci hanno abituato a una visione della società italiana come fallimento d’ogni progetto politico». Al di là di questa generazione di scrittori-intellettuali, del loro impasse, sembrano andare solo due scrittrici che hanno fatto dell’anarchismo e della ricerca della «creaturalità» il loro emblema: Elsa Morante e Anna Maria Ortese.
A ripensarla oggi, l’intera vicenda del sequestro e dell’assassinio del presidente del Consiglio nazionale democristiano sembra così poco romanzesca, nonostante la suspense continuamente accesa dai titoli dei quotidiani durante quegli interminabili cinquantacinque giorni – e qui sta un’apparente contraddizione del caso Moro –, che la forma più adatta per raccontarla potrebbe essere solo quella del trattamento cinematografico e della sceneggiatura, stile che Pasolini aveva consapevolmente adottato per Petrolio, un romanzo il cui scopo sarebbe stato quello di «rievocare il romanzo» («questo romanzo è romanzesco solo in quanto rievocazione del romanzo»). Dietro a questa affermazione vi è un paradosso: la storia italiana dell’ultimo cinquantennio appare talmente romanzesca di suo che i tentativi di narrarla o escono dal romanzesco, per via saggistica e giornalistica, oppure lasciano il passo a un racconto che «o è pazzerello o non è», come scrive Pasolini, nell’«Appunto 12a» della sua summa.
Se proviamo a immaginarci un Pasolini sopravvissuto al suo istinto di morte, un poeta e un regista settantantenne che ancora lavora alacremente a quel libro sterminato, dove meditava di raccogliere tutte le esperienze e tutte le proprie memorie, è facile credere che avrebbe rimpinguato le parti solo abbozzate di cronaca politica e sociale con le autobiografie dei terroristi e i documenti del caso Moro resi pubblici nell’ultimo decennio, come se si trattasse di riprendere il filo di quel lontano feuilleton. Non è un caso che i capitoli più rifiniti di Petrolio, che si doveva presentare come «forma di edizione critica di un testo inedito», quelle più tornite letterariamente, siano dedicate agli incontri e alle performance sessuali del doppio protagonista, Carlo di Tetis, sul pratone della Casilina, mentre restano abbozzate quelle allegoriche-mitologiche (la storia del Merda), e del tutto da scrivere quelle dedicate alle stragi fasciste e ai gruppi terroristici di estrema sinistra, quasi che l’urgenza del vissuto, identificato tout court con la sessualità, avesse avuto la meglio sulla cornice storica o sull’aspetto cronachistico.
L’ipotesi più probabile è che in Petrolio – forma che rimanda a se stessa, «magari anche, perché no?, attraverso la realtà» – la cronaca sia proprio la parte più «romanzesca» dell’intero libro, dal momento che essa appare già scritta, così poco fantastica da risultare, alla pari di un testo-forma su cui agire per pura variazione musicale, la meno interessante dell’intera opera. Ma forse questa è solo un’ipotesi, data la forza inventiva di Pasolini, capace di creare atmosfere poetiche attraverso dettagli anche minimi. Fortini, nel riconoscere l’importanza di questa opera incompiuta come contributo straordinario a «intendere che cosa è successo, almeno in Italia, tra il 1960 e il 1980», ricorda le righe (due righe appena) in cui i giovani si trasformano nei lumini notturni del Verano, «una delle tante stupende invenzioni del libro».
Pasolini, divoratore di dettagli, avrebbe di certo trovato pane per i suoi denti di scrittore nel diario postumo che Paolo VI tenne durante i giorni della prigionia di Moro e che fa da corona a quel testo davvero straordinario – e qui c’è da credere che l’autore della Divina Mimesis ne avrebbe tratto ispirazione, magari trascrivendolo pari pari nel suo zibaldone – che è la lettera del papa agli uomini delle Brigate rosse. Sarebbe stato interessante capire come Pasolini si sarebbe misurato con queste pagine, che presentano l’avvenimento della morte di Moro come una catastrofe che si è «già consumata nel tempo che precede il dramma», secondo la formula con cui un grecista (Dario del Corno) definisce l’andamento stesso della tragedia classica.
Forse, a posteriori, aveva ragione Calvino quando scriveva nella sua recensione critica al libro di Sciascia, all’Affaire – come lo avrebbe letto Pasolini, lui che ne è il protagonista? – che il destino del leader democristiano era già deciso, mentre i sequestratori, così come si confessano nei loro memoriali, sembrano attori di un dramma in cui i ruoli sono determinati in anticipo da un copione che a sua volta ripete un avvenimento mitico riattualizzandolo. Questa sospensione del tempo sembra iscritta nei fatti stessi, nell’azione del comando brigatista, che non si tramuta in nulla di diverso da se stessa e che si riavvolge intorno alla propria origine: restituire Moro morto ai due partiti da lui abilmente cuciti insieme, la Democrazia cristiana e il Partito comunista.
E’ questa fissità temporale con ogni probabilità il vero punto di partenza di Sciascia, il suo rovello generativo, e sarebbe stato davvero interessante vedere come lo avrebbe risolto Pasolini, che del mito e delle sue forme aveva, nonostante tutto, un senso narrativo più profondo dello stesso scrittore siciliano. Nei cinquantacinque giorni del sequestro di Aldo Moro non c’è storia. Questo è il punto dello psicodramma su cui il poeta avrebbe di sicuro fatto leva. Sciascia, col suo consueto linguaggio, insieme concreto e allusivo, tanto acuminato quanto labirintico, ha cercato di esprimere proprio questa sensazione di spaesamento – lui che, nonostante tutto, è sempre alla ricerca dei «fatti» e prova a stanarli, per quanto poi non si affidi mai solo ad essi. Proprio all’inizio dell’Affaire Moro, Sciascia scrive con stupore che tutto «ora accada, per così dire, in letteratura» e che la perfezione di tutto questo affaire, a lui sembra più «dell’immaginazione, della fantasia; non della realtà». Lo scrittore siciliano allude qui al fatto che Moro non fu ritrovato, nonostante le numerose ricerche degli investigatori, nonostante lo spiegamento delle forze di polizia: «E per dirla con una boutade: si può sfuggire alla polizia italiana così come è istruita, organizzata e diretta – ma non al calcolo delle probabilità».
Se, come è ovvio, il passato appare inchiodato a una temporalità incontrovertibile, e per quanto possiamo pensare di riscriverlo, cioè di reinterpretarlo, se non proprio di rifarlo, alla Borges, ebbene in questo caso, e non solo in questo, il passato ci viene incontro con una fissità che sembra tale prima ancora che tutto sia già accaduto. Per rendere esplicito il pensiero di Sciascia: la vicenda di Aldo Moro sembra la ripetizione di un testo già scritto – «Moro e la sua vicenda sembrano generati da una certa letteratura». A Sciascia, che pure parrebbe così vicino alla fissità ciclica della tragedia, sia per la sua cultura siciliana, sia per la sua sensibilità, non viene in mente di percorrere questa possibile via, quella che conduce dritti alla «tragedia». Forse glielo impedisce proprio il suo illuminismo di fondo. Nel suo pamphlet, nonostante tutto, egli ha cercato di approdare alla Storia, senza però riuscirvi. La conclusione del libro è circolare: ci riporta all’enigma attraverso l’enigma di Borges; è un cerchio di parole da cui non si evade.
Se Pasolini fosse stato vivo, del caso Moro ne avrebbe fatto una tragedia oppure una commedia? Petrolio non è né l’una né l’altra cosa. E’ un romanzo, un sogno, e persino un’opera antiletteraria. Avrebbe riconosciuto nel leader democristiano un eroe tragico? George Steiner ne La morte della tragedia scrive che la tragedia, intesa come genere teatrale, non sarebbe più possibile per via della capacità che il protagonista del dramma moderno possiede di realizzare «il proprio destino con la libera scelta della sua volontà»: «viviamo in un’epoca tanto pervasa di catastrofi quanto satura di attualità, incapace di recepire l’interrogativo dell’orrore e la maestà del simbolo».
Pasolini, geniale riscrittore delle tragedie classiche, avrebbe forse riconosciuto nella vicenda di Moro il segno di qualcosa che sfugge all’analisi della ragione per rifugiarsi nella «facoltà sintetica del mito»? Forse.

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4 Commenti

  1. Belpoliti ha scritto:

    “il destino del leader democristiano era già deciso, mentre i sequestratori, … sembrano attori di un dramma in cui i ruoli sono determinati in anticipo da un copione che a sua volta ripete un avvenimento mitico riattualizzandolo.

    Pasolini, geniale riscrittore delle tragedie classiche, avrebbe forse riconosciuto nella vicenda di Moro il segno di qualcosa che sfugge all’analisi della ragione per rifugiarsi nella «facoltà sintetica del mito»? Forse.”

    L’attualizzazione di un mito è un rito. Il rito, oltre che attualizzare il mito, può essere esso stesso origine di nuovi miti. Una delle più antiche forme di rito è il sacrificio, solitamente cruento, eventualmente umano.

    Tutta la vicenda dell’omicidio Moro si può incentrare sullo schema di un doppio sacrificio, un sacrificio cruento (quello di Moro) ed uno incruento (quello di Cossiga, costretto a dimettersi da Ministro dell’Interno).
    Insomma lo schema prevede che per bilanciare un sacrificio cruento da una parte, serva un sacrificio incruento, virtuale, dall’altra. Una specie di contrappasso.
    Questa è la parte centrale. C’è poi almeno un altro sacrificio, quello di Dalla Chiesa, che voleva disturbare la recita e trovare la verità. Chiaramente è peccato mortale il disturbare i rituali basati su sacrifici umani.

    Lo schema si ripete quasi invariato anni dopo, al tempo dell’omicidio Biagi. Al sacrificio cruento di Biagi corrisponde quello incruento di Scajola, anche qui Ministro dell’Interno bruciato, costretto alle dimissioni.
    Anche qui compare una coda, forse irrituale, ma caratteristica. Il tecnico informatico Michele Landi indagava sulle telefonate relative a tali eventi e fu sacrificato anche lui, suicidato.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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