Werner Schroeter (1945-2010)

di Rinaldo Censi

I primi film di Werner Schroeter sono esperimenti amatoriali girati in Super8 e Maria Callas come soggetto. Tutto un memorabilia di feticci operistici e lirici si fissa sull’emulsione: un libretto invertibile fatto di foto, danze; un universo di affetti, corpi, battaglie tra libretti e note (Verdi, Strauss… numerosissime saranno le opere che nel corso della sua vita Schroeter allestirà). È un teatro delle passioni. Poi arriva una sorta di meteora (a zero budget) che resterà nel firmamento della storia del cinema: Der Tod der Maria Malibran (1972).
Ciò che colpisce nei primi film di Werner Schroeter (ad esempio Eika Katappa) non è solo l’amore per l’opera lirica, ma il lavoro di contrappunto tra immagine e suono e tra cultura alta e bassa. Lirica e Rock n’ roll. Oppure, per tornare a Maria Malibran, arie operistiche sull’immagine gloriosa di Candy Darling, fuoriuscita dal Max Kansas City, dai teatri off e dalla Factory di Warhol, citata in quegli anni da Lou Reed (Walk on the Wild Side). Candy Darling è – insieme a Magdalena Montezuma – la protagonista di questo atto d’amore verso una voce “divina”, deceduta giovanissima per colpa di una caduta da cavallo, Maria Malibran appunto.
Forse è dai film di Kenneth Anger (Puce Moments tra gli altri) che Werner Schroeter ha fatto sue le potenzialità del contrappunto tra immagine e suono? I corpi filmati al rallentatore (tableaux vivants) da questo Pigmalione, melomane gay e diabolico, fanno parte di un albero genealogico che rimanda a certo cinema underground: Warhol, Jack Smith, Gregory Markopoulos senza dubbio, magari senza dimenticare i primi film di Philippe Garrel (Athanor soprattutto, ma anche Le berceau de cristal, Les hautes solitudes). Qualcosa di simile, una certa somiglianza di famiglia, era stata già indicata da Enzo Ungari, molti anni fa. È appunto questa la famiglia che Werner Schroeter aveva conosciuto al festival sperimentale di Knokke-Le-Zoute, dove si era recato, stufo delle lezioni di una scuola di cinema. Carnale com’era, gli era impossibile seguire lezioni astrattamente teoriche. Scriveva Ungari che: «Fra tutti i relitti che vagavano a caso, perché non c’erano più nuove ondate a trasportarli o a farli naufragare definitivamente, ma solo risucchi inspiegabili, bonaccia, tempeste improvvise e senza orizzonti, i film di Werner Schroeter avevano cominciato a diventare il cinema di Werner Schroeter».
Ecco, io non so se i film si sono fatti cinema e poi “opera”, carriera. So che dal bricolage mirabile dei primi esperimenti, Werner Schroeter è passato al 35 millimetri, a produzioni meno autarchiche: e che questo, in un modo o in un altro, ha segnato i film. Nel senso che questo scarto si sente. Ma non è di questo che vorrei parlare.
I flussi, i relitti citati da Ungari mi fanno pensare che la splendente malinconia di questi primi film di Werner Schroeter (un mondo perduto di cui non resta che una specie di luttuosa parodia: un universo fatto di rovine della storia, antiche arie musicali e Dive, femmes fatales) non siano altro che l’affermazione di una caducità permanente, che è anche quella dei luoghi dove i film sono stati girati: non-luoghi cancellati da un fondo nero, oppure palazzi in rovina, ospedali psichiatrici, ribalte teatrali o bordelli (prima di frequentare scuole di cinema il giovane Werner si era prostituito, e forse è per questo che Fassbinder l’aveva chiamato sul set di Attenzione alla puttana santa, nel 1971).
Nei film di Werner Schroeter, le arie, le sinfonie, le passioni, in fondo il mistero di un mondo quasi defunto, in putrefazione, come il latino che incuriosiva Des Esseintes, funzionano come oggetti desueti, perduti, resti dispersi che fluttuano nell’aria; qualcosa che va a cozzare contro ai cosmetici, al colore (come le Marylin e le Liz Taylor di Warhol e soprattutto Edie Sedgwick sepolta da strati di fard) sui volti delle sue dive: Candy Darling, Magdalena Montezuma. Ma questo fard, questo maquillage copre appunto un difetto, o meglio, vela ciò che si disfa (come la decrepitezza), finanche la morte (ne sa qualcosa Andy Warhol: «I ritratti di Warhol sono essenzialmente cosmetici. (…) Come se egli fosse stato insieme parrucchiere, truccatore, e fotografo di ritratti, Warhol trasforma i suoi “modelli” in smaglianti apparizioni, che presentano il loro volto così come egli pensa debbano passare alla posterità. I suoi ritratti non sono tanto documenti, piuttosto icone in attesa di un futuro». Cfr. David Bourdon, Andy Warhol and the Society Icon, “Art in America”, gennaio-febbraio 1975, pp. 43-44).
Un artificio d’artista, dunque? una perenne rappresentazione. Come i ritratti di Warhol, gli occhi e le labbra accentuate e sbavate dal colore brillante, quelli di Werner Schroeter (Der tod der Maria Malibran ne è il programma) nascondono nell’artificio della loro apparizione cosmetica la verità della loro immagine mortuaria, senza età, immemoriale (Warhol, dopo l’attentato di Valerie Solanas, dopo che aveva smesso di dipingere, si dipingeva le unghie: «Non ho smesso di dipingere, mi dipingo le unghie e gli occhi tutti i giorni», diceva in un documentario per la TV inglese nei primi anni ’70).
L’ultimo film di Werner Schroeter (Nuit de chien… un’altra meteora) si apre con una citazione dal Giulio Cesare di Shakespeare: La morte è conclusione necessaria: verrà quando vorrà. La voce off che recita il testo shakespeariano e quella dello stesso Schroeter.
Se le sarà mai dipinte le unghie, mentre ascoltava un’aria della Callas?

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5 Commenti

  1. Di lui credo di avere visto solo “Malina”, e ne conservo un ricordo fortissimo. Al di là della quasi astratta ammirazione per un cineasta così pazzo da voler trarre un film da un libro del genere, ricordo (molto a frammenti) una Huppert straordinaria e un uso molto intelligente della relazione tra musica e immagine: la colonna sonora di Giacomo Manzoni e i suoi strazianti dialoghi con Josquin Desprez.
    Cerherò di vedere anche il resto, intanto grazie per questo bel pezzo.

  2. Un ricordo di Werner Schroeter.
    L’altra notte è morto a 65 anni Werner Schroeter. Il più originale, visionario, rivoluzionario, undeground regista tedesco, di quell’onda creativa ormai passata alla Storia come “ Il nuovo Cinema Tedesco “. Figlio marginale del “ Manifesto di Oberhausen “ del 1962, in cui 26 giovani registi ( tra cui Kluge, “ Artisti sotto una tenda da circo: perplessi “ e Reitz “ Heimat “ ) firmarono un manifesto che proclamava la morte del vecchio e la nascita del nuovo cinema tedesco e in cui si denunciava la situazione di immobilismo dell’industria cinematografica nella Germania e teorizzava la nascita di un cinema nuovo nelle idee e nel linguaggio, nonché libero da vincoli commerciali. Fratello generazionale e amico di registi come Peter Fleischmann, Werner Herzog, Wim Wenders, Rainer Werner Fassbinder, Volke Schlöndorff, Ulrike Ottinger, Margarethe von Trotta. Thomas Elsaesser ha descritto Werner Schroete “come il più grande regista marginale del cinema tedesco “, Fassbinder ha detto “ è stato per anni un regista underground e non lo hanno mai fatto uscire da questo ruolo. L’etichetta rende i suoi film un flash in cui la bellezza diviene esotica come una strana pianta “.
    Ha iniziato la sua carriera di filmmaking nel 1960, la sua prima opera importante è del 1967 ( “ Verona “ ), nel 1968 dirige ben 12 corti tra cui tre ritratti di Maria Callas (“Maria Callas portrat”, “Callas Walking Lucia”, “Callas-text“) e “Faces”. Negli anni successivi lavora per la televisione tedesca, ma è anche attore ( con Fassbinder, Rosa von Praunheim, Garel ) montatore e direttore della fotografia. Viaggia per il mondo ( Napoli e Palermo in Italia, Parigi, Nancy e Marsiglia in Francia, Messico, Portogallo, Libano, Filippine e nel deserto del Mojave gli Stati Uniti ), gira documentari e film e quando giunge nel Sud Italia gira (1978) un film importante come “ Nel Regno di Napoli “ ( storia proletaria delle famiglie Cavioli e Pagano tra il 1942 e il 1972, in una Napoli specchio dei drammi di tutta la sofferente umanità ) e “ Palermo oder Wolfsburg “ (1980 ) (Nicola, un giovane siciliano, decide di evadere dalla soffocante realtà politica e sociale della sua isola per trasferirsi a Wolfsburg, una cittadina della Germania. Si troverà davanti un muro di diffidenza e spesso di ostilità ). Entrambi i film sono interpretati da una delle sue muse, l’attrice napoletana Ida Di Benedetto. Per questo secondo film otterrà L’Orso d’oro al Festival di Berlino. Girerà altri 12 film e farà la regia di decine opere liriche, l’ultimo film è del 2008 “ Nuit de Chien “ basato sul romanzo del ‘43 di Juan Carlos Onetti e dedicato al racconto del caos provocato dalla guerra, un disordine fatto di violenza gratuita, di leader instabili, di malattie, di paure, di buio continuo. Presentato al Festival di Venezia aveva ricevuto, in un tripudio di applausi, un Leone speciale per «l’insieme dell’opera».
    Werner Schroeter come autore aveva scelto un’altra strada, originale e poco convenzionale che quasi naturalmente lo ha portato in un certo modo ‘ fuori dal cinema ’ e ‘ fuori dai segni ’. Gli ambienti sono diventati simbolici, i paesaggî spettacolari nella loro sinteticità e i personaggî, spesso lungo quei paesaggî medesimi, del tutto fantasmatici. La sua eccentricità personale e il rifiuto di utilizzare gli strumenti di narrazione convenzionale hanno reso parte del suo cinema in qualche modo oscuro e meno compromissorio come quello di alcuni dei suoi colleghi tedeschi più celebri. Come ha scritto qualcuno “ Werner Schroeter will one day have a place in the history of film that I would describe in literature as somewhere between Novalis, Lautréamont, and Louis-Ferdinand Céline; he was an ‘underground’ director for ten years, and they didn’t want to let him slip out of this role”.
    I suoi film tuttavia hanno avuto la comoda etichetta di ‘underground’, che li ha trasformati in un lampo in esotiche belle piante che fioriscono così insolitamente e così lontano che, in fondo non si poteva perdere tempo con loro, e quindi non ci si doveva preoccupare di loro. Per Werner Schroeter invece I film non sono lontani: sono belli e non esotici. Al contrario.

  3. ” Nel regno di Napoli ” mi era sembrato un bel film, assolutamente grande Ida di Benedetto, come mi era piaciuto tantissimo ” Ferdinando il duro ” di Kluge. Però non volevo dire questo, stavo riflettendo che la gente che piace a me muore assai più giovane di quella che non mi piace. Conviene non piacermi…

  4. STAVO CERCANDO UN SUO FILM DEL 1980. IL TITOLO E. “PALERMO ODER WOLFSBURG” VERSIONE ITALIANA. UNA DELLE PROTAGONISTE ERA IDA DI BENEDETTO. CHI MI PUO AIUTARE? COMUNQUE GRANDE WENER.

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domenico pinto
domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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