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Provincere o morire: Marino Magliani

[per l’appuntamento Provincere o morire (domenica alle 14) della Festa Indiana, avevamo invitato anche Marino Magliani, che purtroppo ha dovuto declinare, perchè impegnato altrove; ma ci ha mandato questo testo]

Peccato non essere lì per dirvi la mia su cosa significa scrivere da una valle senza vie d’uscite se non quella della fuga. Abito in un posto da cui si vedono i ponti dell’autostrada, specie di cancello davanti al mare. Chi passa là sopra, guardando in lontananza le fiancate e gli affasciati e le pigne di case con le montagne a chiudere credo si faccia delle domande su chi vive in quelle case. A parte i crolli questa terra e questa lingua sono così da sempre, il centro rinnova, la provincia conserva diceva Mario Soldati.

Scrivo quando sono in Olanda, eppure scrittore lo sono soltanto tra queste pietre. Sopportato a fatica, in quanto uomo di lettere, poiché in vallata, si direbbe, non si legge mica, e allora non è neanche permesso parlarne di libri, senza che qualcuno ti faccia capire che sei fuori posto. Che la valle è casa loro, casa d’ altri. Come quel mare, diventato mare d’altri.

Eppure ti amano, ti dici, ti salutano tutti, un tempo eri addirittura popolare, eri quello che scappavi, in fondo, e ne parlavano, ma poi ti sei rovinato. Come hai potuto? Volevi anche far scappare le storie, mollar la Liguria. Ma come si fa a non raccontare la Liguria? Ci hai provato attraverso i rovi, a far scappare le storie, poi attraverso le grotte carsiche, le bestie raccontate con Pardini e i tempi in cui da bambino eri in collegio. E’ da allora che scappo dalla Liguria, ma le storie… forse quelle restano come compensazione.

Scrivere in provincia significa gettarsi nel vuoto, ti aggrappi di là – la sponda olandese per me – pianti le unghie come il ponte di Kafka, e hai imparato a non voltarti. Ma hai davvero imparato? Le pietre appuntite di sotto se la ridono.

Scrivere in Liguria significa averle sempre negli occhi le pietre appuntite, da sempre sotto gli occhi il sistema Scajola, dedicarci addirittura un libro che nessuno vedrà, raccontare di un mare che era il paradiso dei cetacei e ora non più, mare attraversato da battelli a tre piani e motoscafi, da moto acquatiche, da dragatori, mare predato dalle lobby, territorio pubblico regalato dal Comune ai Caltagirone affinché ci nasca il più grande porto turistico del mediterraneo, mare regalato ai furbi. La scrittura in provincia dovrebbe assomigliare a filo spinato, leggerla dovrebbe far male come se la mano stringesse il filo spinato e l’accompagnasse.

Scrivere in Liguria, coi suoi rischi ridicoli, qualche ubriacone fascista che si fa tenere quando ti incontra, il veto delle fiere, cosa da nulla.

Forse si può ancora scappare.

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7 Commenti

  1. “Scrivere in provincia significa gettarsi nel vuoto.” Come ti capisco Marino, ecco perché malgrado non ti abbia mai visto mi sembra di averti riconosciuto.
    Ho ancora dentro gli occhi le spiagge che ho dovuto lasciare per tornare anch’io, come tanti, dalla mia fuga. Tornare a fissare anch’io le pietre appuntite che stanno di sotto.
    E allora mi domando quante sono le pietre, e mi domando quanti sono i ponti. Un ponte, mi dico, ha senso soltanto quando è in grado di portare sull’altro lato di una sponda. Io che mi ci sono gettato sopra, il baratro -“mi sono rovinato” dici giusto- con le unghie aggrappate nella carne della mia terra, a cercare d’imparare a non voltarmi, cosa credevo di fare?
    Le pietre ridono della mia ingenuità. O forse del mio pensiero folle di poter riunificare la frattura. O magari del sogno stupido di lanciarmi sull’altro lato e smetterla una volta per tutte di avere la tentazione di guardarmi indietro. C’è una soluzione a questo stallo? A questo rimuginarmi nel pensiero che “si fugge o si sopravvive” e di mezzo non c’è niente?
    Mi chiedo se la cosa difficile, qui, la cosa davvero difficile, sia divenuta non “scrivere in provincia”, ma “scrivere la provincia”.
    Scriverla, sul serio, e di nuovo, questa provincia.
    Il nostro ora. L’adesso.
    Non quella campestre di Pavese, né quella furba e buonista degli ultimi venditori d’altarini, che occhieggiano alle casalinghe e strizzano le mani ai poliziotti buoni di quartiere, ai bambini che giocano nei parchi, e al favoritismo innoquo che d’innoquo non ha più neppure il nome.
    Scrivere-la-provincia.
    Ecco. Lette le tue parole e gettate in internet le mie, riesco a volgere la testa di lato, appena, e sollevo il mento sopra la spalla indolenzita e allontano per un istante la visione delle pietre aguzze di sotto. E mi chiedo quanto tempo è passato da quando ho deciso di “tornare” dalle mie di spiagge lontane, per provare a scrivere nella provincia.
    E allora ti vedo, ci vedo. E di fianco a te nella distanza ne vedo altri, li vedo tutti i ponti. Piedi piantati, dita infilate nella roccia, sguardi fissi, coi pensieri soli a permettere l’illusione di un movimento.
    Un ponte ha senso solo se permette ad altri di camminarci sopra e prendersene cura. Ma se nessuno lo attraversa, se nessuno si muove, se dalle sponde non passano più neppure le parole, allora è ad altro che dovrebbe servire. Dovremmo cominciare a fare dell’altro.
    Dovremmo pensarci come tiranti. Dovremmo spingere e contrarre e distendere, e nuovamente attrarre, finché non siano le sponde ad avvicinarsi.
    Potremmo allora sgranchirci un po’ le dita. E restituire quella risata alle pietre.

  2. E’ un testo doloroso che dice la fatica dell’opporsi alle brutture di questo scatafascio paesistico e morale.
    Si resta sotto un olivo a contemplare nel ricordo i luoghi
    dove c’erano fasce ridenti
    e ora rovi rovi
    Bravo caro Marino!

    MarioB.

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