Cos’è L’Aquila oggi

di Enrico Macioci

Sono nato all’Aquila 35 anni fa, ho sempre vissuto all’Aquila, ero all’Aquila alle 3,32 del 6 aprile 2009, ero insieme all’oceano d’aquilani durante la manifestazione tenutasi all’Aquila il 16 giugno scorso (di cui quasi non s’è avuta notizia), ero insieme alle migliaia d’aquilani durante la manifestazione tenutasi a Roma il 7 luglio scorso (di cui per motivi non edificanti s’è avuta notizia), e sto scrivendo queste righe dall’Aquila, dove tuttora risiedo. Ciò credo mi legittimi a testimoniare in coscienza ciò che L’Aquila è divenuta nell’ultimo anno e mezzo.
Noi aquilani siamo stati gl’involontari – e sino ad ora almeno in parte inconsapevoli – protagonisti dell’apicale esplicitarsi della forza, dell’influenza e della capacità di distorsione che i massmedia hanno raggiunto in Italia. Un potere tanto più malefico quanto più subdolo, tanto più invincibile quanto più obliquo e, in definitiva, vile. Non posso definire in altro modo una divulgazione in larga parte scientemente mirata alla menzogna o, peggio ancora, all’uso strumentale del dramma. Un tradimento dei diritti non dirò già civili ma realmente e profondamente umani, e dunque un tradimento di tutti noi nella nostra integrità e nel nostro bisogno di giustizia e verità. Il travisamento più o meno clamoroso, da parte di non pochi organi informativi, della manifestazione romana del 7 luglio non è che l’ultimo tassello d’un puzzle che non saprei se chiamare diabolico o ridicolo – sempre che le due accezioni, superata una certa soglia, non si tocchino fino a combaciare.
Io c’ero il 7 luglio, ero a pochi metri dai poliziotti e dai carabinieri, mischiato ai miei concittadini, e nonostante abbia una coscienza lucida del Paese in cui vivo non ho potuto fare a meno d’amareggiarmi davanti a parecchi notiziari della sera e ad altrettanti giornali del mattino successivo. Mi sono sentito raggirato, ingannato e, se m’è consentito usare una parola forte, pugnalato. Come altrimenti dovrebbe reagire il libero cittadino d’una moderna democrazia se nel momento in cui manifesta i propri diritti alla vita la medesima democrazia fa finta di non intendere? Come deve reagire il libero cittadino d’una moderna democrazia se in questa democrazia non gli è consentito esporre le proprie urgenti necessità senza imbattersi in qualche corpo di guardia? Se il contatto con le autorità di tale moderna democrazia è sbarrato dai canali uditivi? Se la lontananza fisica è la regola cui sottoporre colui che ha qualcosa di pacifico ma fermo da obiettare? Mai come il 7 luglio scorso ho provato netta la sensazione d’una lontananza fatale fra l’individuo e l’autorità, d’uno iato doloroso fra noi in strada e loro dietro le persiane chiuse e irraggiungibili di Palazzo Chigi, Palazzo Grazioli e Palazzo Madama.
L’Aquila prima del sisma era una magnifica città che si reggeva su un’osmosi perfetta; il cuore pulsante della comunità era costituito dal centro storico, laddove si svolgeva il novantacinque per cento della vita sociale, laddove sorgevano gli esercizi commerciali, gli uffici, i bar, i ristoranti, le pizzerie, le trattorie, i pub, i gazebo, le piazze, i luoghi d’incontro, di svago, le manifestazioni culturali, il cinema, il teatro, le orchestre, laddove la gioventù del posto e quella universitaria trascorrevano il tempo libero così come le famiglie, i bambini, gli anziani. Questo centro era vasto; partendo dal parco del Castello Cinquecentesco si poteva camminare anche molto a lungo prima di sbucare fra i tigli della Villa Comunale oppure più giù ancora, sino allo sfogo d’erba e marmo della basilica di Santa Maria di Collemaggio e di Parco del Sole – e intanto attraversare il corso vecchio e quello nuovo, i Quattro Cantoni e i portici, e costeggiare Santa Maria Paganica e Piazza Palazzo, San Bernardino e Santa Giusta, Piazza Duomo e Costa Masciarelli, e poi gl’innumerevoli vicoli, gli angoli, i cortili, i campanili, le fontane, le piazzette, le chiese, i ritagli magici d’un tempo remoto giuntoci integro malgrado una storia travagliata. Adesso è dato percorrere sia il corso vecchio che (da alcune settimane) quello nuovo, tramutatisi però in un budello lungo il quale le immagini dei fotografi, ferme a prima di quel 6 aprile 2009, sbiadiscono in un triste e metaforico addio, le vetrine sono cieche, i turisti armati di digitali e telecamere riprendono inesausti i brani sghembi della città in pezzi e gli aquilani, se li si incontra, li si sente parlare soltanto di prime e seconde case, zona rossa, mutui, appalti, permessi, documenti, affitti, autonome sistemazioni; e dove infine gli appelli della cittadinanza scritti su fogli volanti se ne stanno appesi alle transenne che circondano i ponteggi, simili a ergastolani con le dita fra le sbarre. Il resto? Tutto chiuso. Sepolto da milioni di tonnellate di macerie non ancora rimosse. Fradicio per il freddo e il caldo, il sole e la pioggia, la neve e l’afa. Tutto inchiavardato entro gigantesche assi d’acciaio. Incappucciato. Imprigionato. Impacchettato. Messo in sicurezza, così s’usa dire. Messo al sicuro.
Al cuore pulsante del centro storico rispondeva, in un contrappunto impeccabile per semplicità ed efficacia, la periferia; non particolarmente bella ma ordinata, non pulitissima ma dignitosa, non attraente ma tutt’altro che repellente; non minuscola ma nemmeno enorme, a misura d’uomo, tranquilla, screziata di verde, coi monti a sporgerle sopra come giganti benigni e curiosi. Ma ecco che lo svuotamento del centro storico s’è scagliato per l’appunto sulla periferia, tramutandola in quell’alveare confuso e alienante che sta diventando, che è già diventata; ecco il traffico impazzito, le code chilometriche, la dispersione dei servizi, le baracche sorgere ovunque (un’autentica epidemia di baracche) e ovunque strappare alla terra il metro quadro, il decimetro quadro pur d’affermare, in un malinteso e delirante rigurgito di vita: io ci sono. Mi trovate qua. Io sono qua.
E oltre questa nuova periferia – che intanto è divenuta centro – la periferia nuovissima, che poi è l’attuale vera periferia: c’è chi la chiama progetto case, chi moduli, chi (forse in maniera più appropriata) new town; consiste in diciannove nuclei lontani dalla città (ovvero dalla vecchia periferia divenuta centro) e l’uno dall’altro, privi di negozi e luoghi d’aggregazione, dove chi non ha la macchina si rimette agli orari degli autobus oppure si rassegna a trascorrere la giornata in un’abitazione non sua, fra gente che non conosce, ingannando il tempo come può un ospite coatto a scadenza indeterminata: un trapianto d’umanità in piena regola, che poteva e doveva essere mitigato nella quantità e accorciato nella durata. Dentro le new town vivono decine di migliaia di persone; ma laddove i numeri rappresentano per alcuni un vanto – l’intera società si va riducendo a numero, con quel che di gelido e feroce un concetto del genere implica – io vedo alcune incontestabili realtà: isolamento, alienazione, noia, depressione, rabbia, frustrazione, ansia, coazione, nevrosi. E’ chiaro che lo stupro urbanistico/geografico – per cui il centro è stato trasfuso in periferia e la periferia è stata trasfusa in un’ultra-periferia – comporta i suoi costi da un punto di vista squisitamente umano; una società non può prescindere dalla terra su cui si fonda, né dal metodo che durante i secoli ha elaborato per rapportarvisi; il coniuge, il migliore amico, i genitori, i parenti, i conoscenti, persino le facce vagamente note contribuiscono a impastare l’esistenza e la psiche di ciascuno di noi; e subito dopo ci sono i posti, il bar all’angolo, il panettiere, il barbiere di fiducia, il dentista, l’ottico, la tavola calda, la biblioteca dove si conobbe la tal persona, e la sala studio dove si conobbe la tal altra, e poi ancora il marciapiede dove si sono macinati chilometri e ore, la colonna dove ci s’appoggiava a fumare, e poi il portone, la banchina, il tratto di strada, il sampietrino, l’aria; anche i posti respirano, e l’aria d’un posto non è mai uguale all’aria d’un altro posto, né tanto meno all’aria di quel medesimo posto violentato, squarciato e poi trasferito, portato via di peso.
Un ultimo concetto mi preme sottolineare, mentre il Governo sta decidendo se ripristinare le tasse a carico degli aquilani al cento per cento già da adesso, e mentre il Capo di questo Governo continua a ribadire che all’Aquila è stato compiuto un miracolo mai avvenuto nella storia dei disastri naturali, che il peggio è alle spalle e le cose volgono al sereno, e mentre l’opposizione non sa far di meglio che tenere dietro al Capo di questo Governo sul medesimo terreno inconcludente, relativista e parolaio: il concetto di futuro. In una società globalizzata che corre sempre più veloce – anche se non per forza sempre più avanti – dove il lavoro si fa mobile e rapido e sommamente incerto e le relazioni si liquidano e polverizzano, mi rendo conto che una pretesa di futuro possa apparire quasi patetica. Per un esecutivo che innalza a proprio vessillo la bandiera dell’agire, il feticcio ambiguo ma ideologicamente robusto dell’efficacia questi sono concetti fumosi, addirittura fastidiosi; una specie di starnuto nel bel mezzo d’un devoto silenzio. Qualche onorevole ha affermato in Parlamento che dovrebbero essere loro, i politici, a venire a protestare all’Aquila, dopo tutto quello che hanno fatto per noi e di cui noi non ci siamo nemmeno accorti. E’ sin troppo chiaro che chi parla così ragiona, ancora una volta, per numeri; ma i numeri al contrario di quel che si pensa sono corruttibili, è facile e comodo portarli dalla propria parte con un po’ di retorica, di faccia tosta e d’incoscienza. I numeri sono opinabili, specie quando figurano in mano a chi ce li fornisce. I numeri, in bocca a chi detiene il potere, possono benissimo tramutarsi in capricci. Allora io torno al concetto di futuro perché si tratta d’un concetto non monetizzabile né passibile di sondaggi, perché l’essere umano si nutre di futuro, perché l’essere umano deve poter dire a se stesso in ogni momento d’ogni santo giorno: domani farò questo, dopodomani tenterò quest’altro. Senza che tali auspici significhino un’automatica garanzia di successo, ma con la ragionevole speranza di poterli almeno declinare, di poterli pensare, d’averne il diritto.
All’Aquila il futuro non esiste più; al suo posto c’è un caos di burocrazia, imprecazioni, proteste, risentimenti e confusione. Le vecchie generazioni, sgomente e piombate in un brutto sogno difficile persino da raccontare, in un incubo appiccicoso e fangoso che nessuna parola e nessuna promessa può più lavar via, si rifugiano nel passato e paiono svanire come fantasmi; le nuove temono di dover cercare nella fuga una nuova possibilità che non le falci a mezzo; le nuovissime sbandano tra una difficile situazione scolastica e relazionale e una lunghissima fila di bar tirati su furiosamente lungo Via della Croce Rossa, una delle principali arterie di traffico diurno e notturno, piena di fari e fumo e clacson. Ci stiamo abituando a convivere con l’indistinto, il nebuloso, il si vedrà, il magari, il chissà; stiamo divenendo ontologicamente insicuri; noi siamo, nell’epoca del precariato, i precari per eccellenza; e la nostra colpa è misurabile al ragguardevole grado di 6,3 della scala Richter. Una società cosiddetta civile, una moderna democrazia ci sta spingendo sull’orlo d’un baratro esistenziale: non sapere non soltanto cosa sarà di noi ma neppure come, o perché, o per chi, o quando, o se. Perfino il Gran Sasso lassù mi pare che frema, al di sopra dei boschi, quando a sera scende il sole.

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25 Commenti

  1. Un grande scritto. Che conferma le confidenze di alcuni imprenditori, piccoli imprenditori, che di ritorno da L’aquila hanno parlato di una situazione ben più grave di quella ufficialmente descritta.
    Domanda: dopo le new towns a tempo di record qual è il calendario di recupero del centro storico ? tempi secchi e precisi o vaghe premesse?

  2. Nessun problema, Monique, basta segnalare la fonte. Facciamo girare il più possibile queste visioni “non ufficiali” del terremoto. (il racconto, però, non è mio, ma di Macioci!)

  3. Grazie a tutti.
    @capone
    No, riguardo il centro storico purtroppo non ci sono tempi precisi ma quelle che tu opportunamente chiami vaghe promesse.

  4. Ottima ed esauriente esposizione. Ed analisi lucida della nostra penosa condizione. La mistificazione dell’informazione continua ad essere il maggiore problema del nostro post terremoto.
    Un’unica obiezione, per onorare la verità. Le persone alloggiate nel C.A.S.E. non sono decine di migliaia. Sono 15mila. A fronte dei 32mila ancora senza tetto.

  5. Grazie Enrico, è una splendida testimonianza e la farò circolare il più possibile. Di quello che è successo e continua a succedere a L’Aquila non si sa davvero nulla.

  6. Preciso. giusto. lineare. aderente alle realtà e chiarissimo. lo riporto, se vuoi, sul mio IL puntaspilli di f.b. e ti segnalo anche una raccolta di firme che sto cominciando ….grazie a te.

  7. I terremoti, diceva Aldo Rossi, sono, come la guerra, episodi della storia della città. Nel senso che costituiscono potenti agenti trasformativi dei tessuti fisici e civili. Come tali vanno accettati: pensare solo a com’era prima, può fare velo sulle necessità di assetto del dopo. Immagino che a l’Aquila le cose non possano in alcun modo ritornare allo stato originario. Occorre quindi, volenti o nolenti (parlo in via del tutto teorica, non conosco nel dettaglio la situazione aquilana), entrare nell’ottica della trasformazione, del “niente sarà più come prima”. Chiedo a Macioci se esista o meno un piano di recupero e ripristino e ricostruzione del centro storico. Perché i disagi si possono sopportare solo nella prospettiva che finiscano in tempi ragionevoli, solo in presenza di un progetto credibile e partecipato di riappropriazione della città da parte dei cittadini. Se esiste allora si tratta di lavorare su quello, di sorvegliarlo e attuarlo. Se non esiste o esiste solo parzialmente e confusamente, allora sono dolori.

  8. Grazie di nuovo a tutti.
    @patrizia tocci
    Certo che puoi riportare il pezzo sul tuo blog! Mi fa piacere e, soprattutto, rende il mio pezzo più utile.
    @pecoraro
    La tua obiezione è più che sensata; infatti io cerco sempre quando parlo del terremoto aquilano di non superare la linea sottile (soprattutto agli occhi e alle orecchie di chi aquilano non è) fra vittimismo e realismo. Il paradosso è che di questo sisma se n’è parlato anche tanto, ma male e in modo scientemente distorto; però la quantità della risonanza finisce per far passare noi aquilani da piagnoni e ingrati.
    Per quanto è dato capire sinora un chiaro progetto di ricostruzione non c’è, neanche a lungo termine; basti pensare che già vanno assai per le lunghe i tempi di riparazione delle case in fascia b, ovvero di quelle poco o nulla danneggiate – c’è un sistema burocratico veramente kafkiano, e tante situazioni poco chiare. Temo poi che i numerosissimi monumenti del centro storico citati nel mio pezzo, e con essi l’intero centro, richiederanno molti anni se non uno o due decenni, anche perchè parecchi dei sovvenzionamenti promessi dagli Stati esteri sono stati ritirati e lo Stato italiano dice che i soldi non ci sono. Ora, so bene che la crisi economica è più che mai viva a onta dei lazzi berlusconiani, ma non è altrettanto vero che il nostro Stato ha stanziato grossissime somme in vista di opere non esattamente indispensabili? (mi riferisco ad es. al ponte sullo Stretto, ma sulla gestione finanziaria italiana ci sarebbe da parlare troppo a lungo).
    Dunque il punto è questo: la mancanza di chiarezza, coerenza e progettualità innesca in noi aquilani quella che gli psicologi chiamano “nostalgia del futuro”, a significare un senso di perdita, spaesamento e mancanza di terreno sotto i piedi che scoraggia ogni slancio. D’altronde tieni conto che chi non è aquilano quasi sempre si stupisce quando viene a sapere le reali condizioni della città – per non parlare di chi la visita. Questo ci fa tornare al discorso dell’informazione, e il discorso dell’informazione denota a mio avviso una coda di paglia lunga almeno da qua fino a Palazzo Chigi.
    ps: la nostra sensazione è stata d’un forte accentramento statale immediatamente dopo il disastro (vedi Bertolaso) e fino suppergiù all’autunno scorso, e poi d’un abbandono improvviso e totale nelle mani delle autorità locali da un certo momento in poi; autorità locali che da sole non possono farcela. Ciò non toglie che anche loro abbiano delle precise responsabilità in questa faccenda della ricostruzione, ma da sole non possono farcela.
    pps: il terremoto potrebbe rappresentare una chance di reinvenzione territoriale e sociale, è vero; ma ciò non implica la cancellazione d’una storia e d’un modo di stare al mondo. L’impatto antropologico che ho descritto nel mio brano poteva e doveva essere ammorbidito, umanizzato.

  9. @macioci
    Capisco. Io mi sono immaginato per prima cosa un accertamento delle reali condizioni del patrimonio edilizio storico, edificio per edificio. Poi una categorizzazione degli interventi possibili secondo la gamma classica del restauro, recupero, ristrutturazione, demolizione e ricostruzione. Poi una quantizzazione economica intervento per interevento. Poi una scala di priorità. Poi una ri-progettazione urbanistica generale, per capire come e cosa cambierà per sempre e per ri-definire i rapporti centro periferia. Nel frattempo andrebbe fatto un piano per gestire la transizione dalla situazione attuale alla città futura rinnovata. Cioè un piano abitativo, dei trasporti, dei servizi, eccetera. Insomma immagino che, se non tutto, un po’ di questo lavoro si stato fatto. Bisogna capire che per ricostruire (scusa so che tu lo sai già) l’Aquila occorre mettere tutti gli edifici storici a norma anti-sismica, il che significa che anche la conservazione della casetta più insignificante, implica progettazioni dettagliate e costi di produzione molto alti. Si può quindi anche scegliere di demolire e ricostruire ex novo «dov’era e com’era». Eccetera. Insomma quello che mi dava fastidio nel miracolismo berlusconiano post terremoto era la completa assenza, nel discorso politico che si andava facendo, delle reali DIFFICOLTÀ tecniche (enormi) che ci stanno davanti, dei reali COSTI (altissimi), dei reali TEMPI (lunghi, o lunghissimi). L’uso assolutamente cinico e superficiale, ad uso del banana (con coro di giornali a cornice) che è stato fatto di una catastrofe immane, poteva essere perdonato solo se nel frattempo qualcuno si fosse messo a lavorare sul serio. È stato fatto? C’è a tutt’oggi un piano di ricostruzione della città da sottoporre ai cittadini e dire chiaro e tondo serve questo e quest’altro, servono tot anni e tot soldi, e nel frattempo ce la caveremo in questo modo? C’è un organismo (governativo o regionale o comunale) speciale dotato di tecnici, urbanisti, architetti che lavora a questo? Per quanto possa sembrare immenso il problema dell’Aquila è un problema finito, cioè dalle dimensioni quantificabili, misurabili, con problemi risolvibili, affrontabili! Ti abbraccio.

  10. @pecoraro
    Esemplare la tua lucidità di pensiero. Quel che tu domandi non c’è. Il problema dell’Aquila è di notevole difficoltà – lo sarebbe stato per qualunque governo; ma come tu dimostri non è affatto insormontabile. Io credo che manchino parimenti pensiero e onestà: una combinazione dagli effetti potenzialmente devastanti, e non soltanto per L’Aquila.

  11. Carissimo Enrico,
    hai scritto una cosa meravigliosa per la sua chiarezza e puntualità.Grazie!
    Ogni parola, ogni passo della tua lettera è condivisibile e dolorosa. Essa tocca quelle corde dell’animo che ormai ogni buon aquilano ha particolarmete sensibili. Ciò che ci è capitato quella tragica notte del 6 aprile 2009 ci ha modificato per sempre, nulla sarà più come prima e di questo siamo tutti perfettamente consapevoli ma quello che a noi ormai appartiene, che anche tu evidenzi giustamente, è il senso di vuoto, di impotenza. C’è il rischio più che concreto che la nostra possa diventare una città dal glorioso passato ma dal futuro negato.

  12. grazie Enrico Macioci e Francesco Pecoraro, capisco anche troppo bene che non siamo programmati per non avere un orizzonte futuro, e che strano che con enorme spreco si abbia nessuna cura di questo bisogno primario.

  13. tutto vero e doloroso, ma c’è un particolare che sfugge a molti, per i “fortunati” 15.000 che hanno avuto un tetto all’Aquila c’è solo una voce ad alleviare la noia, il bisogno di socializzare e comunicare ed è quella delle migliaia di televisioni che parlano incessantemente da mattina a sera, in ognuna di quelle case così tristemente uguali, cosi asetticamente bianche e beige all’interno… troneggiano in ogni soggiorno così diabolicamente capaci di appiattire ogni coscienza!

  14. […] [Questo articolo di Enrico Macioci è apparso in Nazione indiana il 13 luglio 2010. Di Enrico Macioci si può leggere il libro di racconti Terremoto, pubblicato da Terre di Mezzo, assaggiabile anche in vibrisse, qui. gm] […]

  15. Caro Enrico,
    quello che scrivi è molto forte e purtroppo non bello. Si vorrebbero leggere testimonianze diverse ma purtroppo la realt, visto quello che racconti, è diversa e va riconosciuta, non schivata.
    Ti scrivo da Trento, dove da anni gestisco un piccolo gruppo di giovani all’interno del quale ci confrontiamo su temi di attualità. Leggendo la tua testimonianza e anche altre ho pensato che mi piacerebbe discutere anche dell’Aquila in uno di questi incontri.
    Per caso mi puoi dare un modo per mettermi in contatto con te e poter parlare di questa cosa?
    Grazie,
    Andrea

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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