Il luogo del riposo

di Gianni Biondillo

Giunto da una Parigi gelida, l’aria umida e calda che mi investe uscito dall’aereo pare uno schiaffo che toglie il fiato. È notte all’aeroporto internazionale Hassan Djamous – guida dell’esercito durante la guerra libico-ciadiana e “casualmente” anche cugino dell’attuale presidente Idriss Déby – e il nostro è l’unico aeromobile presente sulla pista. D’altronde, come scoprirò in seguito, non esistono voli interni nel Ciad se non quelli umanitari organizzati dall’Onu, e quelli internazionali sono sporadici. Con la Libia, l’Etiopia, la Francia e poco altro ancora.
A piedi raggiungo l’edificio aeroportuale, dove un paio di trabiccoli ammazza zanzare dai neon viola sono completamente ricoperti di cadaveri di insetti a formare una lanugine che fodera le griglie. “Cominciamo bene” penso, vagamente ipocondriaco, conscio che i ceppi di malaria falcipara presente in Ciad sono i più tignosi e mortali e che della profilassi se ne fanno un baffo. Dentro all’edificio il caldo e l’umido non si mitigano, e neppure la presenza di insetti dalle fogge inimmaginabili; alcuni, zampettanti, sono di tale fattura e dimensione che paiono transgenici ai nostri occhi di europei che hanno della natura un’idea pacificata.
I controlli alla dogana sono lenti e in realtà poco minuziosi. In sé non è un problema se non fosse che lo spray antizanzare è nel bagaglio da stiva e un immotivato terrore panico sta prendendo piede. Ho voglia di ricoprirmi di uno strato liquido e urticante che mi isoli, forse non solo dalle zanzare, ma anche dalla nuova realtà che sto attraversando e che, inutile negarlo, un po’ mi spaventa. Il cinese che sedeva al mio fianco sull’aeroplano, e che aveva copiato come fossimo a scuola le cose che scrivevo sul documento da compilare per la dogana, mi supera e scompare nella notte ciadiana. Rido all’idea che possa girare nel cuore dell’Africa un mio doppio, un Gianni Biondillo dagli occhi a mandorla. Poi recupero i bagagli, abbraccio Franca e Antonello, i due cooperanti che sono venuti a prendermi all’uscita, e m’accorgo che ho il collo già infestato di punture di zanzare, come facessero anch’esse parte del comitato d’accoglienza. Benvenuto a N’Djamena, insomma. Spruzzarsi lo spray, a posteriori, ha il valore di un inutile e patetico rito apotropaico.
Ci fermiamo da Côté jardins, un locale all’aperto come se ne possono incontrare all’idroscalo milanese o in un qualunque stabilimento balneare nostrano. Mi offrono un mojito colmo di ghiaccio tritato che, seguendo le terroristiche istruzioni sanitarie impartitemi alla partenza, rifiuto. Tutto attorno facce europee. Sono i vari collaboratori di Ong, diplomatici, medici, dipendenti FAO, UNHCR. Qui tutti giocano alla movida, spensierati, senza che i problemi dell’Africa facciano capolino nei loro discorsi. Ma appena fuori, girando per le strade dissestate della città, l’Africa si palesa ai miei occhi sottoforma di un uomo sdraiato in mezzo alla carreggiata, probabilmente ubriaco; chi guida lo evita indifferente e tira dritto. “Abbiamo la consegna di non fermarci mai, di notte”, mi dice. Anche se si è coinvolti in un incidente. Bisogna correre verso una sede protetta, chiudersi dentro e poi, solo poi, avvertire la polizia.
Mi depositano in una specie di ostello gestito da suore francesi. È notte, fa caldo, sono stremato dalla stanchezza, eppure prima di andare a dormire spruzzo insetticida al piretro ovunque nell’ambiente; poi mi sdraio al riparo della zanzariera e penso spaventato che un caldo così io non lo potrò assolutamente sopportare ancora per molto. Praticamente svengo.

All’alba, uscito sulla veranda, un volo caotico di libellule mi da il buongiorno. Saranno la presenza costante di questi giorni, le libellule. La stagione delle piogge è finita da poco, prolungandosi più del dovuto, lasciando dietro di sé una natura esplosa che rimette in moto come ogni anno la catena alimentare: insetti, libellule, girini e rane ovunque. Ma anche pozzanghere, fango e una epidemia endemica di colera che strema e falcidia la popolazione locale. I manifesti intimidatori in giro per la città che raffigurano un uomo con la dissenteria che vomita pare non facciano effetto sulle locali abitudini igieniche. La gente vive in condizioni sanitarie che dirsi precarie è ottimistico. Mentre attraversiamo il viale Bokassa (non oso chiedere se in memoria del noto megalomane antropofago), nell’ordinato caos cittadino – a Roma o Palermo ho visto un traffico peggiore-, un uomo abbigliato col tradizionale bou bou arabo, si accovaccia, abbassa i pantaloni e defeca direttamente in una fogna a cielo aperto. Lo fa davanti a tutti e al contempo con discrezione. Dato l’uso che qui tutti hanno di stringerti la mano ad ogni incontro, mi ritrovo ansioso a lavarmi le mani decine di volte al giorno, eppure ogni volta sono sporche, come se la guerra fra la mia cultura paranoico-igienista europea e “il resto del mondo” fosse inevitabilmente impari.

N’Djamena è una città oggettivamente brutta. Un milione di abitanti che vivono in una maglia urbana fatta di edifici bassi, di nessun valore architettonico, neppure la chiesa cattolica o la nuova moschea, non ostante le dimensioni imponenti, sono interessanti. L’impianto urbanistico porta con sé la reminiscenza delle città di fondazione francesi, con i gran boulevard alberati e le rotonde monumentali, ma occorre un occhio allenato per accorgersene. Sembra quasi la sinopia di una città della quale s’è perduto l’originale affresco e sulla quale ognuno ha lasciato il suo incoerente graffito. Per festeggiare l’indipendenza il presidente Déby ha progettato un viale monumentale che taglia la città demolendo tutto quello che incontra. Opera smisurata e inutile che ha raso al suolo quel poco che resta della Fort-Lamy francese ma che non è stata ancora sostituita a nulla di nuovo. Ciò che vedo è solo un cantiere di demolizione e già qualche casa abusiva che cresce sulla terra battuta. L’anniversario, nel frattempo è passato e tutto è rimandato al prossimo anno. Al cinquantunesimo. Oppure chissà, sine die!
Dovremmo partire subito, ma la elefantiaca burocrazia ciadiana ci vincola a restare per alcuni giorni. I ministeri diroccati che ci tocca visitare per ottenere i permessi sono il sunto kafkiano dell’apparato pubblico, dove in ogni ufficio che incrociamo per uno che mette un timbro ce n’è almeno un altro che sta seduto, mani sul grembo, a non fare assolutamente nulla. D’altronde N’djamena significa qualcosa come “il luogo del riposo”. Prendiamocela con calma! Parlo come un leghista, penso spaventato, mentre leggo il cartello che chiede ai presenti di non sputare sui muri.

La vita sta altrove, al mercato centrale. Un mare di gente che compra, tratta, vende. Un universo multicolore di venditori di farina di miglio, parrucchieri, macellai col banchetto di carne tagliata a tocchi senza alcun rispetto per la nomenclatura standard dei tagli di carne bovina, sarti piegati sulle macchine da cucire, ambulanti con angurie aperte in due colme di mosche fameliche. Uomini, donne, bambini. Bambini ovunque. Non c’è nulla di più retorico di chi torna e mostra le infinite fotografie fatte ai bambini africani, ma la verità è che non puoi fare altrimenti, i bambini sciamano a nugoli, come le libellule. Il Ciad è un popolo giovane, con una speranza di vita estremamente bassa e una mortalità infantile spaventosa. Avere otto, dieci figli per una donna è normale, la probabilità che alcuni di loro moriranno ancora infanti è conteggiata, quindi occorre farne qualcuno in più per pareggiare con la morte. Ecco forse perché chi ce la fa, chi supera i primi anni critici – quelli dove la malaria, il colera, la malnutrizione e la povertà endemica sterminano senza pietà – poi sorride a tutto e a tutti, grato quasi di essere ancora vivo.

Eppure, tranne la gran parte a nord del paese che è arida e desertica, il sud del Ciad è ricco di acqua e vegetazione. Un granaio naturale. Se ne sono accorti i cinesi, che si stanno comprando il Ciad e l’intera Africa. Me lo spiega Michele Falavigna, Coordinatore umanitario per le Nazioni Unite, a casa sua, una villa coloniale che si affaccia sul fiume Chari, che fa da confine col Camerun. Lui parla e io guardo oltre frontiera. Un braccio di terra, quello del Camerun, che si insinua fra il Ciad e la Nigeria, per cercare uno sbocco più a nord verso il lago Ciad che nel volgere di un paio di decenni è stato prosciugato da una politica agricola degli stati confinanti gretta, cieca e affamata. I cinesi sono ovunque in Ciad, mi dice Falavigna. Ce n’è anche uno con la mia identità in giro per la città, gli vorrei dire, ma evito la battuta. Hanno dichiarato che vogliono fare del Ciad un paese da importatore a esportatore di riso nel giro di cinque anni. E se lo dicono lo fanno. Così come hanno ottenuto le concessioni dei pozzi petroliferi ciadiani, più a sud, e dove, già che c’erano, hanno costruito strade asfaltate e lampioni che si alimentano con cellule fotovoltaiche. Dove siano i cinesi in città non lo so, non si vedono, esattamente come era qui in Italia, prima che si palesassero comprando tutti i bar nazionali, ma le loro merci sono ovunque. Al mercato, per dire, tutto ciò che non fosse deperibile era di fabbricazione cinese: tessuti, abiti, borse, telefonini, motociclette. Decido di incontrarli nel posto più ovvio e straniante: Chèz Wou (notare il gioco di parole) un ristorante cinese arredato esattamente come fossimo in via Paolo Sarpi o nella Chinatown di San Francisco. Pochi i cinesi, in realtà, chi ci serve ha la pelle scura. Però mangio bene. D’altronde dopo aver mangiato la boulle, polenta gommosa di farine di miglio e arachidi, piatto unico della dieta ciadiana, tutto pare buonissimo.

I permessi per partire verso sud, dove vedrò i campi di riso cinesi, sono finalmente arrivati. Ma prima di partire io e i miei compagni di viaggio veniamo ricevuti dal sindaco della capitale, Madame MbaÏlemdana Fatimé Marie-Thérèse. Il primo sindaco donna di una capitale africana. Il Ciad è una repubblica laica, non uno stato confessionale. La maggioranza della popolazione è musulmana, anche se a sud i cristiani e gli animisti sono più numerosi. Ma l’islam, qui, non conosce i fondamentalismi di altre regioni africane. Anche il sindaco è musulmana. Si presenta a noi col capo scoperto e la chioma raccolta sulle spalle, ha una grossa cicatrice sulla spalla ma non fa nulla per nasconderla. Mi piace, così, di pelle. Sarà per la mole da cantante di gospel, o per lo sguardo deciso di chi sa il fatto suo; sguardo da manager, quello che nei fatti è. Ci accoglie in un ufficio dall’aria condizionata discreta, e ci racconta, con la giusta enfasi, di quello che N’djamena è e vuole essere. Una capitale moderna, ovviamente. Ecologica -non a caso il sindaco ha bandito tutti i sacchetti di plastica, roba da fare invidia alla Moratti-, al passo coi tempi. Le faccio notare che la capitale di una nazione non può avere una sola libreria, piccola e mal fornita, e un museo cadente e sgarrupato. Lei con orgoglio mi rammenta del cantiere del nuovo grande museo. L’avevo visto, il giorno prima, dalla terrazza del Kempinski, uno dei pochi alberghi di lusso della città, costruito grazie alla munifico contributo di Mohammed Gheddafi, amico intimo di Déby. Edificio dal gusto monumental-mediterraneo, sono pronto a scommettere che il progettista è italiano, con le facciate in travertino e l’atrio d’ingresso pavimentato in rosso veronese e serpentino. Il museo era lì di fronte. Costruendo, come tutta la città, e già obsoleto.
Riassumendo: la burocrazia elefantiaca, la corruzione endemica, le grandi opere infinite, la spazzatura per strada, il capo del governo dittatore democratico amico personale di Gheddafi. Tutto ciò mi ricorda qualcosa!

Facciamo una pausa ristoratrice da l’Amandine, pasticceria dal gusto parigino che resiste come un soldato giapponese dopo la fine del conflitto in territorio nemico, e siamo pronti alla partenza. Poi lo vediamo: un centro di massaggi cinesi. Come dei liceali pruriginosi decidiamo di entrare. Le luci rosse e i vestiti succinti ci fanno capire che siamo dentro un lupanare, le ragazze, un po’ intimidite un po’ divertite, ci mostrano le stanze dove esercitano. Poi lo vedo, il mio doppio cinese, il Gianni Biondillo dagli occhi a mandorla. Forse un ingegnere, o un tecnico, forse un operaio specializzato, chi lo sa. A decine di migliaia di chilometri da casa sua. Mens sana in corpore sano, avrà pensato. Il Ciad, forse, è davvero l’ultima frontiera. Sono in un moderno far west dove però i cow boys parlano in mandarino. Esco. C’è solo il tempo di un mojito, con molto ghiaccio, e che si fottano le mie ansie igieniste. Il fuoristrada è pronto per il lungo viaggio. Ma questa è un’altra storia.

[pubblicato su L’Unità in due puntate, il 2 e il 16 novembre scorsi. Le orribili fotografie sono del sottoscritto.]

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3 Commenti

  1. Bravo Gianni, sei sceso nel ventre del mondo, e lo racconti a noi, che del mondo vediamo un paese parco.
    Credi che nessuno di loro abitanti del Ciad vedrà una parte del grano cinese?
    Con affetto, come sempre. Franco

  2. belle macchine davanti all’Amandine però! Bisogna riconoscerti che coraggio ne hai avuto ad avventurarti malgrado le ipocondrie e i terrori igienisti. Prosegue, vero?

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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