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Helvetia Park

di Simona Casonato

L’altro giorno ho misurato la mia forza culturale. È venuto fuori che ne ho abbastanza da “convincere la fanfara del paese a suonare un brano death metal”. Non credo fosse un risultato lusinghiero, ma se qualcun altro vuol provare a fare di meglio, può andare alla mostra di arte contemporanea allestita a Bellinzona e tirare un cazzotto all’apposito punch ball. In mezzo a rutilanti lucine colorate (è un vero punch ball da luna park) riceverà il responso. Magari non siete neanche buoni per organizzare un evento locale con l’ultima concorrente eliminata al reality di moda, tiè.
Helvetia Park è più di una mostra. È un insieme di giostre e attrazioni realizzati da artisti svizzeri contemporanei, fondamentalmente allo scopo di prendere per il culo il sistema. Assolutamente consigliato portare i bambini.
L’esposizione sarà ospite al Museo di Castelgrande di Bellinzona fino al 23 gennaio 2011. È compresa nel prezzo del biglietto del museo di arte e archeologia locale (piccolo, raffinato e curatissimo, da visitare prima della mostra, altrimenti è come assaggiare un cocktail di scampi dopo un’amatriciana).
Si comincia tirando “palline di frustrazione” a sagome di cartapesta raffiguranti diversi personaggi. Se le centri, si ribaltano e rivelano una citazione dell’antropologo francese Georges Balandier sulla satira. Al banchetto del tirassegno, si può sparare a salve alle icone della cultura, ma in cambio si ricevono solo gadget museali mercenari. Il carrozzone di Madame Helvetia sputa sentenze a getto continuo sul futuro dell’arte. Sono stampate su strisce di carta che si possono tagliare e portare a casa; ciascuna è un piccolo capolavoro grafico.

Ci sono anche i fenomeni da baraccone. Inserendo i gettoni nella fessura (gli “heidi”, valuta coniata per l’occasione, che vengono consegnati alla cassa con il biglietto) e sbirciando da un buco, si ammireranno le gesta di alcuni freak mediatici, come la sindaca lesbica di Zurigo, ex bassista rock.
Un giro nel castello degli orrori rivela di cosa ha avuto veramente paura l’establishment svizzero nell’ultimo secolo: è un susseguirsi di assassini di concerti, cadaveri di mostre, idee lasciate a marcire tra le sbarre di menti ristrette. Le ragnatele finte e il labirinto buio garantiscono i brividi. Brr.
Il pezzo forte, però, è la piccola sala cinematografica che proietta alcuni documentari sui mestieri in via di estinzione del cinema elvetico: il cercatore di paillettes dorate, lo stagionatore di pellicole DOP (produzioni genuine dei pascoli di montagna!), la tessitrice di tappeti rossi. Poi segue un action movie: il contadino Gino viene svegliato nel cuore della notte dal governo, che gli affida la missione di salvare il cinema svizzero. Ha ventiquattro ore per scrivere una sceneggiatura di qualità che abbia successo. Gino corre su e giù per i monti in preda al tormento. Nel frattempo la crudele industria del divertimento rapisce sua moglie e minaccia di affogarla nel popcorn. Ce la farà il nostro eroe elvetico? La missione è impossibile.
A questo punto si rimane quasi senza gettoni. Chi ha bisogno di finanziare i propri progetti culturali può tentare la sorte investendo gli heidi rimasti in una slot machine che, nella maggior parte dei casi, se li mangerà. Oppure li restituirà moltiplicati, ma in modo del tutto casuale. Vi dice nulla?
Sospetto che nascosto da qualche parte ci fosse qualcuno per osservare le mie reazioni; sarebbe stato coerente con il concept della mostra. Per quanto suoni bizzarro a un centinaio di chilometri più a sud, qui tra le cime dei monti che ti sorridono una mostra del genere non è frutto della contestazione dell’artista alternativo di turno, ma del paludato Museo di Etnografia di Neuchatel, che l’ha ideata, e della fondazione Pro Helvetia, che l’ha finanziata.

Cioè, ricapitolando: guardando oltre lo spirito goliardico, scopriamo che la cultura di cui si parla qui è da intendere sia nel senso sociale, o commerciale, della parola, sia nel suo senso scientifico, come la si usa in antropologia. Le opere esposte non sono semplici boutade artistiche. Sono state concepite per funzionare come “exhibit” – si direbbe in gergo tecnico museale: strumenti a disposizione dei visitatori per facilitare l’interpretazione di fenomeni complessi. L’ethnos di cui si fa la grafia, quindi, sono gli stessi visitatori svizzeri, fotografati nel loro rapporto con l’arte.
Secondo fatto, è lo stesso sistema che ordisce la propria osservazione critica. Pro Helvetia è una fondazione di diritto pubblico che ha il compito di promuovere l’arte nazionale. Helvetia Park si inserisce nel programma di mostre e conferenze “Ménage – cultura e politica a tavola”, pensato per interrogarsi “sulla definizione di cultura, sul suo ruolo e sul rapporto con la nazione e porre l’accento sul dialogo talvolta difficile fra il mondo dell’arte e quello della politica”.
Terzo, per parlare di un argomento tanto ricco e complesso, è stata scelta la forma di una mostra ludica, itinerante, autenticamente divertente e accessibile a tutti: una “passeggiata interattiva” che “permette al visitatore di confrontarsi con la varietà delle forme, dei costrutti mentali e delle credenze culturali che lo circondano, e di posizionarsi meglio nei loro confronti”.
Sono uscita dalla mostra con le lacrime agli occhi (dal ridere, che credete). Dalla hall del museo, una bella architettura contemporanea che si integra perfettamente nell’edificio medievale senza tradirlo, mi sono inerpicata sulla torre del castello per lanciare un’ ultima occhiata al Ticino innevato. E poi sono tornata al calduccio a Milano. Brrrr.

Helvetia Park
Fino al 23 gennaio, al Museo di Castelgrande di Bellinzona
ingresso 4/8 CHF, orario 10-17 tutti i giorni

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2 Commenti

  1. Grazie Fabiano, e piacere di conoscerti. Avevo notato la tua cartolina, a Bellinzona, e la tua frase mi sta ancora dando da pensare – in senso buono intendo. Molto efficace, come tutta la campagna di Ménage, in ottimo equilibrio tra ironia e serietà come accade spesso in Svizzera.
    Non mi stancherò mai di consigliare chiunque mi capiti a tiro di fare più spesso giri da quelle parti. Milano è vicinissima, eppure sembra così lontana a volte.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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