un’altra storia di Johnny Tossi (1977-2006) [4]

di Davide Orecchio

Un’altra vita di Johnny Tossi

Un giorno
Jutta piega le gambe, avvicina le ginocchia all’erba, solleva i talloni, poggia i polpastrelli sulla terra, schiaccia il bacino sulle cosce, parte, inizia a correre veloce, veloce come se corresse per la vita, agita le braccia avanti e indietro, stringe i denti, schiude le labbra, pesta l’erba coi talloni una, due, tre volte e ora salta lontano, danza sospesa, unisce le gambe in aria tra i raggi del sole e atterra, guarda dove è atterrata, sorride, si alza, pulisce le mani, pulisce le cosce, guarda nella direzione di Johnny che spazzava la pista e a Johnny cade il rastrello.

Conversazione politica tra Johnny e Jutta sulla scalinata dello Stadio dei Marmi, poco prima del tramonto.
− E se vivessi ancora a Berlino verrebbe un nuovo giorno di parata. Un altro anniversario della Repubblica. Starei in piazza con gli altri per la marcia sulla Karl Marx Allee, davanti al compagno Andropov e al compagno Honecker.
− Compagni di squadra?
− No, compagni comunisti. Mai sentiti nominare?
− Mai.
− A te non interessa molto quello che succede nel mondo, vero? Voglio dire, la politica?
− Non so. Me l’hanno chiesto in tanti da quando sono arrivato.
− Il mio ragazzo era così. Pensava solo ad allenarsi e quando gli dicevo: ma non vedi che schifo? Non ti senti soffocare?, lui tirava fuori la storia della medaglia. Sì, che voleva vincere una medaglia alle Olimpiadi e poi sarebbe diventato allenatore, e che non gli mancava niente nella Ddr e neanche a me mancava nulla. Che non mi rendevo conto di quanto eravamo fortunati. Per questo l’ho lasciato. Per me non si può vivere fuori dal mondo.

(Qui – come se una spina lo avesse punto e poi si fosse messo a riflettere sul dolore della fitta, avesse cercato di capire il dolore e il suo contesto, avesse localizzato la spina e palpandola, sfregandola con l’unghia ne avesse preso coscienza allo stesso tempo rendendosi conto di chi è lui, di quale sia il suo posto nel mondo e di cosa deve fare per ottenere quello che desidera – Johnny si sveglia.)

− Il mio ragazzo non mi ascoltava e non capiva quanto ero infelice. E se uno non è contento nel suo paese, nella sua città, e ha desiderio di essere da un’altra parte, questi per me sono sentimenti politici.
− (Sollevando la testa come se fosse appena uscito dalla gambe di sua madre, nascendo esclama:) Lo stesso per me! Anche prima che mi prendessero non pensavo che a cambiare il mio paese, e pensavo che se non ci fossi riuscito avrei dovuto espatriare. Lo stesso per me, come per te. Sarei andato via anche se non mi avessero preso. Forse mi sono spiegato male sulla politica. Insomma, è chiaro che la politica per me è fondamentale. Mi sono fatto torturare per la politica. Sono dovuto fuggire. Mi inseguivano i cani ed ero completamente nudo. Ma non ho più voglia di parlarne.
− Capisco se non vuoi parlarne, però è un errore. Dovresti farlo, invece. Dovresti raccontare tutto e non tenere nulla per te. Se racconti la tua storia sconfiggi i nemici. Se la tieni per te sei sconfitto un’altra volta.
− Non lo so. Quando sono arrivato non avevo neppure vent’anni e non ho scordato da cosa fuggivo, ma gli altri argentini non facevano che chiedermi come la pensavo e da che parte stavo. Da che parte volete che stia? Sono scappato! Non era così semplice. C’erano i gruppi, c’erano le bande, e ogni banda odiava l’altra. Roba da pazzi. Così più loro chiedevano, meno io rispondevo. E a un certo punto ho smesso di vederli. Ma forse a te potrei raccontare.
− Perché proprio a me?
− Perché mi fido.
− Allora potremmo fare uno scambio. Tu racconti a me e io a te.
− Da dove potremmo cominciare?
− Dall’inizio. Dove sei cresciuto. Chi hai incontrato e ti ha fatto cambiare. Fin dove sei arrivato. Quando ti sei fermato. Quando ti hanno fermato.

Ecco i bambini che giocano a calcio per strada. Bambini che picchiano altri bambini in un quartiere che ha un nome, ed è Villa Devoto. C’è una famiglia. Un padre autista. Una madre casalinga. Tre fratelli, uno dei quali, il più piccolo, si chiama Johnny. Johnny Tossi per servirla, signorina Jutta. Vengo da Buenos Aires. Laggiù, su quello sterrato, mi hanno fatto uscire il sangue per la prima volta. Quel ragazzo che mi passa una sigaretta è mio fratello Julio. Segno che sto crescendo in fretta. Divento grande alla svelta e infatti eccomi già su Corrientes, la strada dei libri e delle contestazioni, signorina Jutta. Sto lì e manifesto. Contro o per cosa non lo ricordo. Non sia troppo esigente. Non le basta vedermi per strada? Non mi riconosce? Forse ha ragione: gli slogan che deformano il volto non mi donano.
E quella ragazza laggiù invece, signor Tossi, è una berlinese al cento per cento, cioè sono io, Jutta Stiegmeier per servirla. Quello è proprio il mio giaccone di piume d’oca finte. Quelli sono esattamente i miei jeans. Dove vado così di fretta e così tardi – perché è già notte – su Warschauerstrasse? Non si può dire, signor Johnny. Diciamo a casa di amici. Diciamo ad ascoltare musica dell’Ovest. L’ultimo disco dei Dire Straits la convince, come risposta? Con gli amici ci sdraieremo sul pavimento di legno scheggiato, faremo camminare le dita sul binario tra le assi raccogliendo polvere e molliche, scioglieremo i capelli come i ragazzi di Londra, uno di noi metterà il disco e spegnerà la luce, qualcuno sognerà, qualcun altro si bacerà…

Signorina Jutta, lo vede quel televisore acceso? Riesce a vedere le immagini che trasmette? Non si sbaglia: è proprio una bara trascinata da un camion, e militari davanti e militari dietro. È morto il generale Perón, signorina Jutta. Il padre della nostra nazione. Ne ha mai sentito parlare? No? Allora anche lei ha qualche lacuna politica! Come posso spiegarle: il generale Perón riguarda mio nonno, mio padre e anche me. Tre generazioni. Che è come dire che non c’è argentino che il generale Perón non riguardi. Ci riguarda anche ora che è morto. Per tornare alla scena che le sto mostrando, quel giorno la città s’è fermata, ha trattenuto il respiro mentre il generale faceva la sua ultima passeggiata verso il cimitero e ha iniziato ad aspettare, dal momento che la morte del generale – la città lo sa – è il fischio d’inizio di una lunga partita a scannatoio, gioco che forse lei, signorina Jutta, non conosce.

Allenarsi, studiare il russo, allenarsi ancora, leggere la Berliner Zeitung, guardare al telegiornale i progressi della patria socialista, allenarsi, correre più veloce, saltare più lontano. “Devi correre veloce e saltare lontano per l’onore della patria socialista, Jutta Stiegmeier”.“Mi piace correre veloce e saltare lontano, ma non potrei farlo semplicemente per me? In fondo si tratta del mio corpo e dei miei sforzi…”. Camminare quel giorno che sembra una notte diurna, a zero gradi e una luce la cui fonte non può essere il sole, una luce morente e camminare su Chausseestrasse, notare i buchi delle granate russe sulle mura dei palazzi, qualcuno tapperà mai quei buchi?, arrivare sotto la casa del compagno Brecht, fermarsi, guardare le finestre della Brecht-casa, avvicinarsi alla libreria, sbirciare dentro la vetrina, proseguire verso il cimitero ed entrarci, passeggiare tra le tombe dei filosofi, arrivare al Menhir del compagno Brecht e lasciare una rosa per il poeta defunto. Le chiederei di accompagnarmi, Mister Tossi, ma adesso sono qua.

Venga più vicino, devo mostrarle una cosa. Più vicino. Ecco, apra lo spioncino di questa porta di ferro. Accosti l’occhio. Cosa vede? Riconosce quell’uomo nudo sdraiato sulla branda? No, certo che non può riconoscerlo, il viso è coperto da un cappuccio. Però mi era venuto in mente, non so, che lei potesse intuire, che lei potesse presagire l’identità di quell’uomo. Che poi è solo un ragazzo. Provi a guardarlo bene. Non le ricorda qualcuno? Non si faccia distrarre dai torturatori che lo circondano, dalle scariche elettriche, dai sobbalzi del ragazzo, dai conati di vomito, dalle domande vessatorie in una lingua straniera, dalla cella senza finestre, dalla ferocia del neon, dalla crudeltà del ferro sul quale è sdraiato, dalla sporcizia del pavimento, dal melodramma dell’eco, dall’orrore delle risonanze causate dall’assenza di mobili. Ecco, ascolti il tono della sua voce mentre risponde che non sa nulla e implora che lo lascino libero. Ha capito chi è?

Passeggiate
In una pizzeria al taglio di Monteverde, di ritorno da una passeggiata a Villa Pamphili, Jutta ordina una fetta con mozzarella e patate e spiega a Johnny cosa sono la Sed, la Stasi e i Vopos. Nella Galleria Colonna, usciti dal cinema Ariston e in attesa che spiova, Johnny descrive a Jutta una Ford Falcon, i sedili rimossi per nascondere meglio le prede, la targa staccata, gli occhiali da sole che indossa quello al volante. Escono dal Balduina dove hanno appena visto Fuga per la vittoria e Jutta ha gli occhi lucidi, e ripete: Anch’io l’ho fatto. Ho fatto proprio così. Su viale Angelico, tornando verso il centro dallo stadio, Johnny racconta a Jutta la propria evasione, la notte che compose una corda coi suoi vestiti e quelli dei compagni, che si calò nudo dalla finestra della prigione, che corse nel bosco e poi si aggirò nell’alba di Buenos Aires acquattato dietro alle macchine, e poi un uomo lo raccolse e lo salvò. Un giorno in piscina Jutta nota che sul corpo di Johnny non ci sono segni delle torture, ma non gli chiede perché.

Pensieri di Johnny sulla bellezza di Jutta

Pensa che ha scoperto una ragazza all’incontrario: prima il suo corpo, poi la sua voce, il suo nome, un po’ della sua storia. Pensa che il corpo di Jutta sull’erba dello stadio gli è valso come il trailer di un film che ti fa venire voglia di andarlo a vedere al cinema. Pensa che non esistano un corpo più magro, eleganza maggiore, pelle più soffice, carnagione più soave e desiderabile di quella di Jutta. E se invece esistono non gli interessano. Pensa che una notte, molto tardi, Jutta venga a suonare alla sua porta e gli chieda di farla entrare, e poi gli chieda che la baci. Pensa che Jutta venga a gettarsi tra le sue braccia e chiudendo gli occhi gli permetta di ammirare la sua bellezza senza dover fingere di spazzare la pista dello stadio. Pensa di fare felice Jutta spogliandola e accarezzandola e baciandola. Pensa al risveglio di Jutta, a una passeggiata al mare con lei. A una vita con lei. Ma non pensa di essere all’altezza della situazione. Solo a ricordare chi è lui, anzi chi non è, si scoraggia. O forse ce la può fare?

Il 15 dicembre ottantadue, giornata mite e intiepidita dal sole, prima di iniziare il turno di lavoro Johnny Tossi entra nella palestra di via Stresa e chiede di Jutta, che lavora lì. Non aspetta molto ed eccola che arriva, sudata per la lezione di ginnastica, nella sua tuta grigia e arancione. Johnny la invita a cena. Jutta sorride e accetta.
Dove si va?
Da me.

La sera del 16 dicembre Jutta varca il cancello al fianco di Tossi. Il cane nero non ringhia, neanche si alza dal giaciglio. Johnny lo guarda stupito. Entrano. Jutta si guarda intorno. Johnny che ha acceso le luci è imbarazzato. La casa è tutta qua. Lo so, è una casa povera. Del resto io sono povero. Però ci sto bene. È accogliente. Fuori è pieno di verde. La domenica mattina, quando non vado di fretta, ascolto gli uccelli che cantano sugli alberi che circondano il palazzo. Bevi qualcosa? Ho della birra… Solo un bicchiere d’acqua? Sei sicura? Se non sei a tuo agio possiamo andare a mangiare una pizza in un posto vicino. Non dobbiamo restare per forza qui.
Ma Jutta si butta sul materasso e ride.
Più tardi arriva l’alba.

[Questa è la prima parte (in quattro parti) di Un’altra vita di Johnny Tossi (1977-2006), una storia inedita di un manoscritto inedito di un autore inedito. Il primo libro di narrativa di Davide Orecchio uscirà per Gaffi nel 2011. La prima puntata di Un’altra vita di Johnny Tossi è qui, la seconda qui, la terza qui ]

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