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è tutto compresso in un istante

di Chiara Valerio

La sera festeggiammo. Stappammo una bottiglia di vino rosso, lo stesso del nostro primo incontro, il Chianti, e io al terzo bicchiere dissi che volevo cambiare macchina. Il tipo di dettagli insignificanti che si ricordano con precisione anche dopo anni. Carlo e Isabel si sono incontrati perché Valentina, un’amica di lei, ha fissato loro un appuntamento al buio. Dice che sono fatti una per l’altro, anzi che lei è tagliata per lui. Un appuntamento al buio in una vecchia osteria di Treviso con tovaglie ricamate a mano e un pavimento di vetro sotto al quale l’acqua scorre. Carlo e Isabel si incontrano, si piacciono, e dopo poco vanno a vivere insieme. A Padova, a casa di lui, con i mobili di lei. Un tatami con un materasso in pura lana vergine, tende di lino, incensi, cuscini marocchini per il salotto, cd di musica etnica. Si sposano in fretta perché la felicità e gli incontri non hanno bisogno di carte, e nemmeno di cerimonie. Isabel è svizzera, è vegana, è bionda, ha gli occhi azzurri, lavora in un’erboristeria, la mattina fa gli esercizi di yoga e il pomeriggio quelli di reiki, Carlo ha trentasei anni, è socio di una piccola azienda, ha una casa con un terrazzo dal quale si vedono le colline. Lui beve una birra, lei una tisana, guardano il tramonto. Sono innamorati. Così quando Isabel esce dal bagno con il test di gravidanza listato d’azzurro, indaco per la precisione, Carlo l’abbraccia, poi prende il telefono e chiama Livia, sua madre. Eccolo il mondo delle cose definitive. Ecco che siamo diventati come loro, come mia madre, com’era mio padre, ecco che siamo passati dall’altra parte, dalla parte degli adulti, dei genitori, dalla parte delle cose più preziose e definitive.

Il bambino indaco (Einaudi, 2012) di Marco Franzoso è il romanzo secco e commovente, rabbioso e dolcissimo della tentazione della normalità alla quale tutti cedono, per sé stessi e per i figli eventuali o già passati. E questa normalità è purtroppo e sempre inaccessibile, perché l’unica normalità concepibile, nella fuga prospettica di futuro che un figlio regala quando neppure ha un nome, e forse pure senza, è la felicità. I personaggi di Franzoso vogliono essere felici. Isabel digiunando durante la gravidanza perché il figlio non sia insozzato dall’inquinamento e dalla bruttezza venefica del mondo, e Carlo standole accanto senza contraddirla perché pensa che lei sia l’estranea dalla quale ha deciso di farsi comunque toccare, mangiando dunque fichi secchi e avocado, annusando incensi che arrivano via aerea da Ceylon, incensi che eliminano i radicali liberi del caffè che si spandono per casa e macchiano auree e polmoni. Oltre i denti. Le ultime ricerche di neuropsichiatria prenatale dimostrano che il feto ha una sua propria vita emotiva, – mi comunicò con gravità. – è stato scoperto che il feto può piangere, capisci? – Beh, – dissi raddrizzandomi sulla sdraio. – il nostro non piangerà. E una volta che Pietro è nato, Isabel vuole essere felice purgandolo perché i suoi organi non siano necrotizzati dal cibo che ha reso già morti tutti quelli che le camminano intorno e Carlo vuole essere felice vedendo che Pietro cresca forte e sano, o almeno, dopo un po’, che cresca e basta.

Il romanzo di Franzoso si apre quando ogni felicità è sopita. Isabel è sul pavimento, magrissima e rossa di sangue, Livia dorme un sonno chimico nella stanza da letto e Pietro che pure ha pianto a lungo per i morsi della fame, è stato già portato altrove. Lontano dal luogo del delitto. Il commissario Marino, alto e squadrato, non ha ancora trovato la pistola, ma sa già come è andata. Lo sappiamo tutti, anche senza perché. E poco a poco, proprio come un alone, il perché affiora e disturba. La verità ultima. Il luogo in cui risentimento e gratitudine diventano la stessa cosa. Il perché è la rivelazione che la maternità non è attributo esclusivo della femminilità, che essere madri è un principio di cura trasversale, e forse fantasmatico. Stava giocando a fare il bambino con il padre. Io stavo al gioco e facevo il padre. De Beauvoir ne Il secondo sesso si era scagliata contro l’istinto materno, lo aveva negato, aveva definito la funzione materna alienante per le donne. E in questa alienazione, in questa distanza tra i concetti di donna e di madre, Franzoso racconta di un padre per il quale, animalescamente, non esiste altro che il benessere del proprio bambino. Di un padre che è come una Leonessa. Mi sentivo come sul tetto di un grattacielo: ovunque guardassi, era vertigine.

E così in una storia di pianura e di Veneto, che ha qualcosa nel tono ineluttabile e pure quieto di certe storie di Carlotto, Marco Franzoso mette il lettore dalla parte del futuro, di Pietro, il bambino, anche se questo futuro esiste solo in quanto risultato di un delitto, e dunque procede storto. Ma crescere nonostante le circostante, e soprattutto nonostante l’amore e i suoi eccessi, è l’unico modo di crescere che mi viene in mente. In realtà e sulla pagina. Mentre scompare il dolore scompare anche un pezzo di vita, certo. Ma non esiste altra salvezza che questa.

M. Franzoso, Il bambino indaco, Einaudi (2012), pp. 141, 16 eu.

a latere

Il bambino indaco è un romanzo costruito per simmetrie. E la simmetria è sempre consolatoria. Se dovessi fare un appunto direi che Franzoso ha ceduto alla tentazione della consolazione. Penso al padre e al bambino che salutano la mamma che è andata in cielo, ma forse sono io che non ho più la visione accogliente dei bambini. Penso a cibo/purga, omeopatia/allopatia, erboristeria/società di capitali, carne/acqua. La simmetria che più mi è piaciuta è certamente quella tra la madre colpevole e deleteria (Isabel) e la madre colpevole ma salvifica (Livia), perché, al netto dei fatti raccontati, la categoria maternità femminile è monda d’ogni peccato. Una madre ha salvato un figlio, anche se la faccenda rimane di articoli determinativi e pronomi possessivi.

L’amore di mio padre e di mia madre, per me e le mie sorelle, non è mai stato aggettivato, colorato, definito da questioni di genere. Era amore e basta. Possesso e basta. Protezione e basta. Per me dunque, paternità e maternità sono state sempre, e certe volte bruscamente, sinonimi. Di questo, li ringrazio tanto. Se le patologie di certi sentimenti prescindono dal genere, allora pure i sentimenti.

In L. Carroll e J. Tober (1999), The Indigo Children: The New Kids Have Arrived, Light Technology, i bambini indaco vengono descritti come “dotati di grande empatia, curiosità, forza di volontà, e una spiccata inclinazione spirituale. Sono anche descritti come molto intelligenti, intuitivi, e insofferenti nei confronti dell’autorità”. Credo di aver conosciuto solo bambini indaco. Lo scetticismo che ci fece stupendi per variare, ancora una volta, su un verso di Pier Paolo Pasolini.

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2 Commenti

  1. Dopo tante parole e discussioni su questo libro, in particolare su Twitter, contrastanti valutazioni, come sempre le riflessioni di Chiara Valerio giungono fortissime e pregne di una loro acuta personalità, riconfermando la mia particolare propensione e ammirazione per il suo modo efficacissimo di raccontare i sentimenti, di scandagliare le motivazioni, di affermare suggestioni. Se potessi esprimere un desiderio, unico, sicuramente sarebbe quello di avere un pizzico della sua felicità come scrittrice!

  2. Assolutamente da leggere sperando che la bravura del recensore (esiste l’equivalente al femminile?)non sia superiore a quella dello scrittore.
    Da solita acida/scettica quale sto sempre più diventando mi chiedo se il successo di “Dobbiamo parlare di Kevin” non abbia aperto la strada a qualche facile ammiccamento (magari un nuovo romanzo della Mazzantini…), ma devo imparare a rimandare ogni altra considerazione a dopo averlo letto.
    Grazie

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