Pace a responsabilità limitata

da «il Fatto Quotidiano» – giovedì 24 marzo 2011

Ancor più dell’intervento militare, sconcerta la noncuranza con cui siamo disposti ad affrontare una crisi che sconta l’ennesimo fallimento delle politiche nazionali

di Evelina Santangelo
In Sicilia, il secondo giorno dell’operazione «Odissea all’alba», una pacifica domenica semiprimaverile. Ma sarebbe bastato affacciarsi da qualche terrazza lontana dai rumori della strada per sentire il rombo ininterrotto degli aerei militari attraversare il cielo. Così, dopo aver udito per tutta la mattina quel rombo, si poteva rischiare di sentirsi come i non-rinoceronti nel Rinoceronte di Ionesco in cui non si sa più chi abbia ragione tra quanti galoppano sfrenatamente inconsapevoli (o consapevoli di un altro ordine) e chi patisce un tale senso di alterazione percettiva da sognare esso stesso di trasformarsi in rinoceronte e, per esempio, non sentirlo affatto il rombo degli aerei, con tutto quel che ne consegue.

«E se fossero loro ad avere ragione», si chiede il protagonista del Rinoceronte di Ionesco. Proprio su questo ordine di «ragioni» vorrei soffermarmi oggi che non sono più nemmeno così certi gli obiettivi umanitari giustamente evocati dal presidente Napolitano. Il punto infatti è anche come, con che animo si affronta un’operazione militare destinata ad avere costi altissimi, e come si è affrontato quel che è accaduto finora, quando le rivolte hanno reso evidente la natura di quei poteri dispotici o totalitari, mentre le ritorsioni sulla popolazione hanno chiamato in causa direttamente le nostre coscienze di cittadini i cui governi hanno firmato trattati internazionali per la salvaguardia dei diritti umani, salvo poi disattenderli all’occorrenza, e in modo plateale. Anche in questa «platealità» si annidano le nostre colpe. Le colpe di un’opinione pubblica connivente con il gretto, ottuso, rovinoso pragmatismo di governanti che si dimostrano ogni giorno più mediocri. Le colpe di un’opinione pubblica che si beve tutto, le più ridicole menzogne, le peggiori ipocrisie, in nome di mire fameliche, interessi di bottega, salvo poi gridare all’invasione dinanzi a tutta un’umanità in fuga. Per questo, credo sia arrivato davvero il momento di assumerci le nostre responsabilità proprio in quanto opinione pubblica dotata di un potere preciso, il potere di giudicare la classi politiche (degli organismi nazionali o internazionale) che, proprio in questa occasione, hanno dimostrato tutta la loro cecità. Non solo perché ci hanno convinti che il più asfittico pragmatismo ci avrebbe messo al riparo da ogni pericolo, ma anche perché dinanzi all’inatteso, o a quello che non sono state in grado nemmeno di subdorare (le rivolte nordafricane di genti esasperate), hanno continuato e continuano a scegliere quello stesso pragmatismo famelico di cui quell’umanità in fuga è solo il segno più tangibile.
Siamo arrivati al punto, noi italiani, ad esempio, di trovare accettabile la bestemmia che si potesse non disturbare l’amico massacratore, in quanto amico e in quanto massacratore-garante della pulizia dei mari e delle coste contro quelle genti che sono state definite da lui stesso «ratti» (e, implicitamente, anche da noi!) E tutto questo, perché ci fanno più paura i profughi e la messa in discussione dei nostri accordi economici (il mai decaduto Trattato di Amicizia) che i bombardamenti sulla Libia compiuti da chiunque… Né l’essere contrari all’intervento armato è garanzia di una cultura diversa. La Lega docet.
Per questa ragione, quello che sconcerta oggi, prima ancora che l’intervento militare, è la noncuranza o la sollecitudine tutta interessata con cui ci siamo disposti ad affrontare questa crisi in cui si paga lo scotto di un fallimento, l’ennesimo fallimento di politiche nazionali e internazionali (i profughi sono tutti lì, il caos regna sovrano).

Ed è un fallimento, non in nome di un pacifismo di principio, ma in nome di quella civiltà, di quel nuovo umanesimo – fatto di un sentimento di radicale corresponsabilità rispetto ai crimini commessi contro l’umanità tutta – su cui, all’indomani degli orrori del Novecento, si è cercato di fondare il senso di appartenenza alla comunità internazionale in un mondo più sicuro. Mentre oggi sembra prevalere un generalizzato senso di irresponsabilità praticato con metodo, in ossequio a una visione della libertà e dei diritti privatistica, una visione in cui i profughi appunto fanno più paura della violazione di quel diritto delle genti che è poi il nostro-comune-diritto all’incolumità contro l’arroganza e l’abuso di qualsiasi potere.
Se tutto ciò troppo spesso non accade, come mi potrebbe rispondere qualche campione della realpolitik (e oggi in giro ce ne sono di grettissimi resi forti dal consenso di cui godono), se tutto ciò ha tanto l’aria di un’aspirazione utopica (come quella che si legge nel preambolo dell’Onu: «Noi, popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra… a riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo…»), non significa affatto che l’opinione pubblica non debba pretendere il rispetto di queste aspirazioni, costringendo il potere politico a scelte il più possibile conseguenti anche al di là dei più immediati interessi nazionali. È nostro dovere e nostra responsabilità farlo, ne va del nostro destino, se non vogliamo accettare di vivere in un mondo di rinoceronti privati del potere di giudizio al punto da non vedere e non sentire quel che ci accade intorno. Anche perché, i risvegli, in questi casi sono amarissimi.

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