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Zone grigie

di DaniMat

Goffredo Fofi, Zone grigie, Donzelli Editore, pagine 224

Conosco Goffredo Fofi da non pochi anni.
Del resto chi non lo conosce e non sa la sua mitezza ferma, la sua voce salda nel raccontare quel tempo unico che è la nostra storia attuale? Chi non segue il suo diario critico delle vicende italiane fondamentali nella politica e nella cultura? Bene, ho sempre provato una minima soggezione verso di lui, potrei dire come riflesso della sua integrità intellettuale che è tutt’uno con la sua integrità di persona, ma la verità è che mi sono sempre posta verso di lui come verso un maestro, con atteggiamento a dir poco naturale.
Un maestro ribelle, o, come lo definirebbe il critico Filippo La Porta (peraltro con qualche regolarità suo collaboratore sin dalla fondazione nella rivista Linea D’Ombra), ‘maestro irregolare’. Cioè un maestro di fatto, sentito come fratello maggiore e per certi versi angelo custode, che dunque non vuole ‘farsi maestro’ arrogandosi una posizione gerarchicamente elevata, distante, né aderire sotto qualunque forma a certe gerarchie umane che vorrebbero dare corpo a distinzioni artificiose e imporre presunte distanze scalari, ma un ‘maestro riluttante’ che preferisce essere ‘alla pari’, perché nutre e coltiva una fede umana fortissima, inossidabile, davvero impossibile a piegare, che è la fede nell’esperienza, in cui la relazione chiave è la condivisione.
Questo ha sempre portato Goffredo Fofi a vestire i panni di uomo tra gli uomini, di coscienzioso apprendista mescolato alla gente in modo diverso dai ‘dottori e sapienti’, armato solo di una prassi non violenta tra le più non violente: la coscienza critica nei confronti del presente, la conoscenza con strumenti attrezzati come attraversamento artistico, letterario, critico (torno a dire) del proprio tempo, di cui la cultura non è la pratica, né tantomeno la professione, superiore, o migliore, ma decisamente quella più di servizio.
Tutto questo certamente ci accompagna durante la lettura di questa collazione di interventi pubblicata a maggio da Donzelli, nella collana Saggine, che è ZONE GRIGIE. Lo stesso Fofi, nella seconda sezione del libro intitolata Il Sale (tanto per tornare sulla figura del maestro che Fofi rifiuta di prendere su di sé sapendo che inevitabilmente gli viene attribuita), indica chiaramente a quali maestri si ispira, quali maestri ottengono la sua approvazione, a quali maestri soltanto accetterebbe (e penso riconosca), con gioia e con orgoglio, di assomigliare: i maestri dai piedi scalzi.
Il libro ha una caratteristica prevalente su tutte le (molte) altre: ha la capacità, decisamente evocativa, di insistere su un presente che è fitto di eredità e debiti col passato, e diventa una scena enorme su cui certe qualità del passato, una certa stoffa umana soprattutto, acquistano un valore di onnipresenza che non ha, viceversa, debiti con l’assoluto ma afferisce all’universale, cioè a quel carattere di immanenza che sussiste (è il caso di dire) in presenza di una continua ricucitura.
Parlando più chiaro, ZONE GRIGIE mette a fuoco un anno, il 2010, cui l’autore attribuisce un merito: d’aver registrato, in un lungo e a quel che sembrava intramontabile, inscalfibile direi, tempo unico berlusconiano (sia così definito per brevità), un’incrinatura, un inizio di fine, un insperato barlume di risveglio – molto lento, pigrissimo, indolentissimo, ma pur sempre minimamente registrato dagli strumenti sensibilissimi del nostro, e un po’ anche da noi che forse siamo osservatori più miopi, di sicuro più addormentati. In quell’avvilito canale temporale osservato così da vicino si innestano retaggi di un altro tempo, d’altri mondi verrebbe da dire, che questo nostro disgraziato presente sembra aver scordato del tutto come mai fossero apparsi e esistiti.
Comprendiamo che Goffredo Fofi non ha mai avuto la minima intenzione di revocare certe sue adesioni ideali né di attualizzarle. Cioè Fofi non cede e non ha ceduto all’inselvatichimento invalso – il tempo convulso e insulso che attualmente attraversiamo anche lui lo attraversa, come del resto non può non fare, esattamente come tutti noi, ma Fofi, “armato” di uno spirito e di una prassi di vita di ispirazione cristiana e pauperistica (forse legata alle sue origini eugubine, al misticismo della sua terra), ne sembra immune. A volte ho creduto di trovarmi al cospetto non tanto di un uomo di specchiata virtù francescana quanto di un Oliver Twist cresciuto, dunque ‘avvertito’, tuttavia capace di immergersi nella fallacia umana senza esserne contaminato, protetto da uno scudo non di divina purezza ma di umana comprensione, di profonda capacità di attenzione ai segni oscuri della nostra antropologia, anzi agli allarmi di sottofondo del nostro sfrenato antropocène.
È da un pezzo che, osservando questo nostro tempo, visualizzo il verso dantesco, ritrovandomi spesso a mormorarlo, “La bocca sollevò dal fiero pasto”. E ogni volta subito dopo visualizzo una scena di “Io sono leggenda”, in cui si assiste, con il protagonista Robert Neville, al fiero pasto, ai danni di un capriolo, di un clan di umani mutati in belve glabre e spellate, in una città perlopiù deserta e inselvatichita. Dico questo perché ho notato che Fofi in questo libro, in cui denuncia la massificazione sociale operata dalla pubblicità, la disumanizzazione dei cittadini trasformati in mostruosi consumatori, anzi insaziabili consumisti, pertanto indebitati fino al collo pilotati e spietati, le cui volontà cioè sono state conculcate col raggiro travestito da conquista dei diritti fondamentali, della libertà – in questo quadro, Fofi, grande cultore del cinema e della letteratura, ribadisce una sua analisi risaputa, la sua stima per film e romanzi di fantascienza inevitabilmente orientati verso l’horror quando non del tutto consistenti in esso e chiamati a indicare la descrizione più fedele dello stato in cui versiamo. Sappiamo della sua passione per i romanzi di J.G.Ballard, e in particolare per ‘Crash’ (1973) anche nella sua riduzione cinematografica (Cronenberg, 1996), dato che uno dei mali-chiave attribuiti da Fofi alla nostra epoca recente è la nostra ‘automobilizzazione’.
Il “mercato dell’automobile” è in crisi, i gas di scarico sono tra i maggiori responsabili del nostro imperante disastro ambientale, che è cancro occidentale e minaccia planetaria, eppure aumenta l’offerta di automobili pur in parallelo allo strenuo tentativo ‘ecologistico’ di mutarne combustibili e sistemi di alimentazione, e visto che il libro ci sollecita a stare strettamente sul presente, sarà bene approfittarne per provvedere a un aggiornamento in proposito: la pubblicità vuole attirarci a, anzi spingerci verso, l’acquisto di sempre muove automobili a colpi di slogans a dir poco provocatori, e finto-egualitari, tipo il recentissimo “Il lusso è un diritto!”.
In un mondo del genere, ma dove mettiamo le mani?
Cosa è veramente accaduto? ZONE GRIGIE ce lo dice con precisione e in modo molto articolato.
Non dimenticando di ricordarci che questo presente distorto così totalizzante non è lontanissimo in termini temporali da un passato in cui ancora potevamo correggere la rotta, eppure risulta davvero remoto rispetto ad esso per il deragliamento smemorato che abbiamo incautamente imboccato.
ZONE GRIGIE è un libro che non si limita a stigmatizzare l’avvenuta sostituzione della cultura con la pubblicità, non rinuncia a sottolineare per la volta ennesima la barbarie degli affaristi che hanno indossato le casacche della destra pur di darsi una qualunque sverniciata politica – è un libro che senza riserve denuncia che i politici hanno ucciso la società civile e i giornali hanno ucciso l’opinione pubblica. È un libro che senza rimpianti o nostalgie cerca di ricucire, torno a dire, ed è la sua funzione più preziosa, lo iato, anzi l’abisso, che si è spalancato sotto di noi separandoci dagli ultimi, quasi scomparsi al nostro fumoso orizzonte, lembi di terra dove ancora ci si potesse ricongiungere a una umanità umana, a una società non completamente né solertemente divorata dai cosiddetti persuasori occulti: ricordate il saggio di Vance Packard della metà degli anni Cinquanta? – già al ginnasio (vent’anni dopo) la mia prof di Lettere, Roberta Risi, cui sono grata per questo e tanto altro, ci fece leggere brani da quel testo, spalancando nelle nostre tenere coscienze la consapevolezza che c’era da stare all’erta, bisognava essere guardinghi, il terziario stava dilagando e oggi impera. I fornitori di servizi hanno le nostre sorti nelle loro mani perché la nostra è una società in cui il connettivo manipola e trasforma la polpa. Ma ancor più questo è un libro che denuncia l’inaudito conformismo della sinistra, l’incapacità della società civile di sorvegliare il fenomeno del sopravvento dell’affarismo su una qualunque etica, la scarsa volontà di una certa politica di controbilanciare efficacemente gli assalti, pur voraci e belluini, subiti dai cittadini come utenti ultimi e anelli finali di un sistema Paese (potenza delle formule) incattivito.
Debolissima del resto la resistenza degl’intellettuali. Passiva, e non sufficiente. Certo non-violenta, come è naturale prescriva e analizzi Goffredo Fofi in questo libro. Ma anche quasi afona. La voce di Davide è talmente fievole che Golia non è informato (il colmo, nella società dell’informazione, in cui del resto vige un sonoro di sottofondo che è un pervasivo chiasso indistinto) del sasso e della fionda che pure si cerca di predisporre e sarebbero destinati a lui. Loffio anche il lancio: è la fine.

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8 Commenti

  1. Mi prendo la curiosa licenza di aggiungere due cose:
    1. Goffredo (Fofi) è omonimo di Geoffrey Chaucer) col quale mi pare condivida (come sostengo nell’articolo) la non peregrina circostanza d’essere sempre ‘pellegrino tra i pellegrini’, uomo tra gli uomini – cioè umano tra gli umani;
    2. sono stata la prima traduttrice di Phillip Lopate (scrittore ebreo-brooklyniano venuto a Capri il 1° luglio in una delle ‘Conversazioni’, organizzate da Antonio Monda): su Lo Straniero di Goffredo Fofi. Il pezzo era “Against ‘Joi de Vivre'” (Contro la ‘Joi de Vivre’, un salace saggio breve contro l’atteggiamento tonnesco di mostrarsi sempre ‘socialmente positivi’, posa molto borghese e francamente spesso avvilente). Fofi prese tutto: introduzione e traduzione, preferì invece eliminare una breve prefazione formulata da Filippo La Porta, presentatore in Italia di Lopate, suo quasi omologo americano e viceversa. Del resto (diamo a Cesare quel che è di Cesare) fu proprio Filippo a affidarmi quella traduzione, che Antonio Pascale utilizza da anni nei suoi corsi di scrittura (bellissimi, sensibilissimi, molto imperniati sulla lettura piuttosto che sulla ‘tecnica di scrittura’ o sulle ‘tecniche di narrazione’).
    E’ tutto.

  2. vance packard?! alle medie: l’ho letto alle medie! a proposito di maestri: i primi si conoscono lì e vaffanculo alla gelmini e a brunetta (ops, si può scrivere?)
    e fofi che intravede un barlume… fofi, quel fofi?

    il saggio va letto non foss’altro che per queste due cose

  3. è vero : Fofi non ha un carattere facile , ma forse è un aspetto strettamente legato al suo essere un inquieto …. Molti anni fa ho avuto il piacere di conoscerlo e di incontrarlo spesso . Quello che posso dire con certezza , tratti caratteriali , a parte e che molti giovani e meno giovani della cultura italiana gli devono qualcosa : un po di riconoscenza . Ha insegnato e continua ad insegnare molto , a “connettere” (come ama dire ) esperienze , persone , gruppi e idee… Trai i suoi libri più belli , un libro che mi ha veramente formato , metterei in primo piano “Nozze coi fichi secchi” , uscito circa dieci anni fa per l’editore “ancora del mediterraneo”.

    cordiali saluti

    p.s.
    a cena mangiando formaggio e friarielli era spassoso e divertente ….

  4. Goffredo Fofi, non ho letto una sola riga di lui: mi spiego, sono francese; l’italiano l’ho imparato con leggerezza, senza regola, perché è per me la lingua della libertà; per tornare all’argomento non lo conosce, perché la sua scrittura non ha ancora attraversato la mia vita di lettrice, ho scappato finalmente a una lettura imposta nella scuola.

    Ho dunque un terreno da scoprire. Goffredo Fofi mi sembra simpatico per due ragioni. Ho letto qualche settimana fa, ma non mi rammento dove,
    che Goffredo Fofi ha il cuore, il corpo radicato nel sud, non è nato su questa terra, ma lui manca come una parte di sé, la seconda sono gli elementi raccolti dal commento di Antonio D’Agostino, i tratti di carattere
    dell’essere inquieto, sempre affrontando la riflessione, il dubbio, mai immobile. Antonio D’Agostino cita un titolo che trasporta l’immaginazione”nozze con fichi secchi.”

    Goffredo Fofi è tradotto in francese?

  5. Veronique, il tuo amore per il Sud, e per Napoli in particolare, è sempre commovente e ammirabile.
    Come lo è il tuo impegno costante a misurarti con questa nostra lingua che giudichi libera e leggera.

    Un e-bacio

  6. Grazie Carlo :-)

    Non è ammirabile amare il Sud.
    Il Sud è una terra commovente: accoglie chi la ama davvero,
    non un amore fatto solo di luce e di mare, piuttosto un amore dentro;
    che interpreta la tua felicità, ma anche il dolore dei ricordi.
    Un amore fatto di incontri, di parole: è una terra canto.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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