La canottiera di Bossi

di Massimiliano Panarari

Con il fortunato Il corpo del Capo, Marco Belpoliti ha inventato e inaugurato un genere. L’analisi fisiognomica e in stile cultural studies di una gallery fotografica delle metamorfosi (fisiche, ma soprattutto, sociopolitiche) di Silvio Berlusconi si è così imposta nel dibattito, diventando un punto di riferimento per chi, a vario titolo di studio, si è occupato del fenomeno rubricato come «berlusconism».
Oggi, il critico letterario e saggista che insegna all’Università di Bergamo ci offre la fenomenologia di colui che dell’ex premier è stato il sodale di ferro, e de facto l’interprete all’italiana (anzi, à la lumbard) di una certa nuova (o forse vecchissima) destra diffusasi in tutta Europa. Si deve, allora, partire proprio da La canottiera di Bossi per decodificare una delle traiettorie di leaderismo politico più impressionanti (e, per lungo tempo, impreviste) dell’Italia contemporanea. In questo libro – naturalmente corredato da un apparato di foto che restituiscono i cambiamenti dell’iconografia bossiana lungo il tempo – Belpoliti disseziona semiologicamente e linguisticamente il creatore di quel partito anfibio, miscela di cesarismo e «carisma padano» e (a dire dei suoi dirigenti) oltre la sinistra e la destra, che in questi anni ha raggiunto percentuali assai elevate nel Nord del Paese.
Non sembri incredibile, quindi – tutt’altro – il fatto che per comprendere a fondo il capo della Lega Nord si debbano prendere le mosse dall’idealtipo (diciamo così) del vitellone. E precisamente nel senso felliniano (seppur in una versione «rivista e aggiornata» agli Anni Settanta e Ottanta), allorquando «il Bossi» irrompe sulla scena politica, inizialmente alla chetichella e senza molti riconoscimenti, e poi, via via, sempre più fragorosamente e con successo. La carriera politica, del resto, rappresenta quasi un ripiego e lo stadio successivo al flop come cantante simil-Celentano e simil-Buscaglione (in arte «Donato»), attività nella quale si era cimentato peregrinando per balere e incidendo pure un 45 giri, tra la fine degli Anni Cinquanta e l’alba dei Sessanta. Ecco, quindi, perché il futuro detrattore di Roma ladrona, e aedo della virilità della Lega, si configura, per molti versi, come un performer, per il quale il «colore» (stile, abito, gesti, oltre, e ancor più, che le parole), come sottolinea Belpoliti, è tutto. Lo si vede (decisamente) anche nelle variopinte tribù leghiste dei tanti raduni – una costante della storia della formazione nordista – così differenti dalle adunanze democristiane o comuniste, socialiste o missine, e, successivamente, anche dei partiti che rappresentano una continuazione di quelle storie politiche. Laddove il capo leghista, lontanissimo dalle figure dei protagonisti dei comizi della Repubblica dei partiti, si avvicina al microfono, mutatis mutandis, come un cantante, afferrandolo a due mani e intonando la sua omelia politica con una vocalità rauca, ma molto variabile che parte «sottovoce», proprio come avrebbe fatto in gioventù all’interno di qualche dancing. È il Bossi che, nei primi appuntamenti della kermesse nazionalpopolare (o forse, meglio, padanopopulista) di Pontida, scendeva in mezzo al suo «pubblico», e si metteva a firmare autografi; roba da far inorridire schiere di professionisti della politica della Prima Repubblica. Un oratore focoso e aggressivo, per i cui gesti «incitatori» mentre arringa le folle sui pratoni della Lombardia profonda si attaglia perfettamente, come nota Belpoliti, la classe tassonomica dell’etologo inglese Desmond Morris del «colpo d’ascia»: la mano destra che colpisce di taglio, quella di sinistra aperta e indirizzata verso l’alto, per non parlare del pugno chiuso in aria e dell’indice alzato o teso. Un oratore «fisico», che, rivolto agli avversari, sfodererà a ripetizione anche il tristo dito medio.
Questo è il Bossi d’antan, della fase eroica. Ma a Belpoliti, attento anatomopatologo del corpo del Re padano e dell’evoluzione gestual-semiotica della carriera politica del conducator celodurista, non sfugge nulla, fino alla carezza sulla testa fattagli da Berlusconi, nel settembre dell’anno passato, quando la Camera nega l’autorizzazione all’arresto di Marco Milanese: un gesto di ringraziamento politico, ma anche un’autentica manifestazione di intimità.
E così, in qualche modo, il cerchio si chiude, e un ciclo politico finisce sotto il segno dello stesso simbolo con il quale era iniziato, tra squilli di trombe celtiche. Ovvero, dalla famigerata canotta, che dà il titolo al libro: al debutto espressione di un abbigliamento intimo provocatorio e piuttosto «prolet» (do you remember Marlon Brando?) che voleva comunicare vigoria, e, sul viale del declino fisico, quasi candida veste che prefigura una beatificazione dell’icona e della guida carismatica del «popolo padano».

[Pubblicato su La Stampa, il 17-02-2012]

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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