Supereroi da paura

di Helena Janeczek

Questo testo l’ho scritto in primavera e l’ho consegnato a Alfabeta con questo titolo. Poi, in attesa della sua pubblicazione, è arrivato il tizio con la maschera di Bane e ha massacrato il pubblico alla prima di Il Cavaliere Oscuro- Il Ritorno.hj

La paranoia organizzata sotto l’ideologia dello “scontro di civiltà” è un sistema i cui poli opposti si sostengono a vicenda. La strage di Tolosa l’ha reso visibilissimo. Si era capito subito che l’assassino della scuola ebraica aveva già ucciso, ma restava incerto se fosse un neonazista intento a fermare la contaminazione dell’Occidente o un fondamentalista in guerra contro la corruttela occidentale. Non appena è emerso il profilo di Mohamed Merah, la controparte ha cercato di trarne vantaggio: Marine le Pen per la campagna elettorale, il resto del populismo xenofobo europeo per rilanciare le consuete ostilità e paure. La destra al governo in Israele ha potuto cavalcare il sentimento persecutorio che il massacro d’innocenti ha rafforzato nei propri cittadini ebrei come negli ebrei della diaspora. Se tutti gli ebrei sono il Nemico, possono diventarlo specularmente, a partire dai palestinesi, tutti musulmani. Questo accrescersi della paranoia anti-islamica è, a sua volta, funzionale al rafforzarsi del fondamentalismo – in Occidente, ma anche in qualsiasi paese arabo dov’è in corso uno scontro tra chi vorrebbe più libertà e chi vorrebbe far rifluire i moti rivoluzionari in un ordine teocratico.
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Lo “scontro di civilità” è un gioco di ruolo, una messa in scena sanguinaria prodotta da registi, attori e promotori che offrono la sicurezza di un’identità blindata. Per questo cela un conflitto i cui confini non corrono tra Occidente e Oriente, o Israele e Palestina.
I veri nemici di ogni reazione identitaria sono tutti coloro che credono nei diritti dei singoli e dei popoli, concedono uno statuto universale ai principi della Rivoluzione e faticano a riconoscere l’Europa come fondata su pacifiche “radici giudeo-cristiane”. Persone che si fidanzano, si sposano e fanno figli con qualcuno di origine ebrea, cristiana o musulmana, refrattarie a pregiudizi e discriminazioni – anche contro le donne o gli omosessuali. I nemici irriducibili di ogni Guerra Santa sono tutti coloro che, con qualsiasi forma di militanza pacifica o semplice prassi quotidiana, si mettono di traverso alla collaborazione degli opposti. Lo dimostrano i ragazzi socialdemocratici trucidati da Anders Breivik, i parà avvicinati da Merah come fratelli e trucidati come uccisori di fratelli, o il tentativo di motivare l’esecuzione di Vittorio Arrigoni come la punizione di un “corruttore dei costumi”.

La guerra paranoica è guerra di propaganda che si fa spettacolo. Ne fa parte l’assedio di Mohamed Merah diventato scontro mediatico con il presidente della Repubblica in persona. Il primo ha filmato le uccisioni per farle circolare in rete, il secondo disponeva della tv mondiale per ricavarne un ritorno d’immagine.
Sarkozy ha cercato di negare a Merah la fine del martire, ma la lunga resistenza trasmessa in mondovisione sarebbe bastata a qualificare l’attentatore come idolo di qualcuno. Generare orrore o ammirazione, figurare come mostri o come eroi: è questo che gli sterminatori solitari – Mohamed Merah, Anders Breivik, Gianluca Casseri a Firenze – sanno di ottenere con le loro stragi da prima pagina. La violenza-spettacolo non può sottrarsi a questa ambivalenza che rappresenta un rischio ineliminabile per chi, dall’alto del potere politico, cerca di trarre forza dal ricompattamento dell’opinione pubblica. Presumibilmente è per questo che le immagini del corpo morto di Bin Laden, il Nemico dell’Occidente per eccellenza, rappresentano l’unico caso di censura esplicita, senza poter evitare che quell’assenza parli, eccome.
Il Sistema Paranoia si nutre di dialettica tra visibilità e invisibilità: dell’attenzione spostata soprattutto su una parte (la minaccia neonazista sottovalutata nei paesi occidentali); di zone oscure o oscurate che alimentano spiegazioni complottistiche; dell’odio verso chi commette violenza senza che questa appaia universalmente vista e condannata; dell’irrilevanza di tutte le vittime che non rientrano nei frame dominanti e non attivano ampi meccanismi di identificazione: il morti per gli attentati nei paesi islamici il cui numero supera di gran lunga tutte le vittime “occidentali” o gli stranieri uccisi in Occidente senza che diventi palese la matrice razzista del crimine, come è avvenuto in Germania con la cellula neonazista le cui vittime erano state ascritte per anni a regolamenti di conti tra gruppi criminali immigrati.
Nell’ombra resta inoltre, per definizione, la zona grigia – aiuti, coperture, simpatizzanti rispettabili.

Crociati e jihadisti si somigliano. Si muovono per la rete, posseggono spesso gli stessi cimeli con le svastiche o I Protocolli dei Savi di Sion. Ma non è solo la convergenza sul nemico ebreo che, pur nell’odio reciproco, li accomuna. Si somigliano ancor più profondamente nel desiderio di avere un nemico attraverso il quale definirsi, scrollandosi di dosso un senso di marginalità o di insignificanza.
Somigliano pure ai troppi uomini che uccidono le donne, benché la violenza femminicida non si ponga al riparo di un’ideologia. La “guerra di civiltà” copre un conflitto di genere che, a sua volta, nasconde spesso uno scontro di classe.
La vetta della piramide sociale è ancora dominata dagli uomini e la crisi non fa che peggiorare la condizione femminile. Ma alla base le cose si complicano, perché diminuiscono maggiormente i lavori non qualificati e, fra di essi, principalmente quelli maschili. Intere nazioni si reggono sulle rimesse delle immigrate nei paesi sviluppati, dove soprattutto la richiesta di lavoro di cura favorisce le donne. Per quanto malpagate e pesanti, le mansioni femminili godono di un maggior riconoscimento della loro utilità sociale. Se si guarda alla seconda generazione, i figli di immigrati hanno prospettive assai peggiori dei loro padri, mentre le figlie possono inserirsi nel mondo del lavoro quasi sempre precluso alle madri. La carriera più agevole dei giovani proletari d’Occidente, di qualunque origine e religione, è quella criminale. I sogni di gloria forniti dalle ideologie identitarie possono divenirne copertura integrativa o rappresentare un’alternativa “onesta” di cui andare fieri.
Nella variante “bianca”, l’idea del ripristino di una società ordinata si appella al rancore del uomo-padrone spodestato dalle donne e dagli stranieri, mentre l’islamismo radicale si presenta ugualmente come difesa di un antico ordine patriarcal-religioso. Le donne musulmane finiscono al centro del fuoco incrociato: se una parte ostenta l’alterità attraverso il loro corpo velato, l’altra identifica il nemico in chi indossa il “burqa”. Shaima Alawadi, trucidata a San Diego come “terrorista” perché portava il velo, è l’esempio estremo che, senza più l’alibi di voler liberare il genere sottomesso dall’oppressione islamica, appalesa l’unione dell’odio verso le donne e gli stranieri. Ma maschilismo e misoginia sono costanti più diffuse: tutte le sottoculture emerse dai ghetti o dalle periferie esibiscono l’immagine speculare della donna-oggetto sculettante e seminuda. L’esaltazione di gang, tifoserie e ogni surrogato “guerriero” neotribale, andrebbero messe a confronto con le fratellanze ideologiche, cercando di capire sino a che punto il problema cruciale non siano l’islamismo e tanto meno l’islam, bensì la perdita di ruolo e dignità sociale che si abbatte sugli uomini, in primo luogo di ceto popolare.

Gli estremismi etnico-religiosi rappresentano la copertura più radicale di conflitti la cui matrice socio-economica rimane occulta. E’ ciò che li rende funzionali e, come si è visto nelle elezioni francesi e greche, passibili di raccogliere adesioni sempre più vaste. Le risposte mistificatorie approfittano del fatto che l’integrazione è sempre un percorso difficile. Convivere con un duplice legame di appartenenza e l’irrimediabile senso di estraneità che si spalanca sia verso il luogo d’origine che verso quello di destinazione, costituisce un’esperienza in sé dolorosa. Se a questo si aggiunge la realtà fatta di sopruso e pregiudizi, si è tentati ad abbracciare un’identità oppositiva, vivendo ogni sforzo di essere “per bene” e “integrati” come umiliante servilismo. Nell’Europa tra le guerre, l’adesione della gioventù ebraica al sionismo – come al socialismo e comunismo – nasceva spesso dalla ribellione contro i padri che, pur oggetto d’odio, continuavano a comportarsi da “bravi cittadini”. Quei ragazzi, tuttavia, si opponevano perlopiù anche all’ambiente ostile in cui si trovavano. Persino l’azione di uno shahid palestinese ha attinenza con un conflitto vissuto, mentre ciò che rende così diversa la vicenda di un Mohamed Merah è la sostituzione totale della lotta contro la discriminazione sperimentata con la guerra simbolica. La splendente armatura del Guerriero Santo consente di dare un senso alla doppiezza richiesta dalla socializzazione senza doversi esporre in gesti rischiosi e sgradevoli. Chiunque appartenga a una categoria discriminata sa quanto costi domare la rabbia per controbattere a una frase offensiva pronunciata “solo per scherzo”: più facile stare alle regole del gioco – ossia zitti – e deviare l’aggressività su un nemico ideologico sottratto all’esperienza.
Anche la parte opposta è portata a un simile sdoppiamento. Razzismo, misoginia e omofobia sono socialmente accettati, ma solo se le loro manifestazioni si mantengono entro certi limiti. L’odio profondo, invece, va mascherato, coltivato in segreto, tra “fratelli” e iniziati. Internet ne diventa il veicolo, ma non è la causa.

Il fanatismo paranoico comporta una trasformazione che tocca la struttura psicologica, benché non sia mera espressione di follia individuale come dimostra la “psicosi collettiva” del nazismo storico. Per cogliere uno scollamento della percezione che rimanda a uno della personalità, basta guardare la foto di Mohamed Jarmoune, il ventenne accusato di aver progettato un attentato contro la sinagoga o la scuola ebraica di Milano. Quel ragazzo con i dreadlocks e gli occhi miti che non frequentava né la moschea né la comunità marocchina della sua zona, bensì dei convertiti italiani conosciuti in rete, avrebbe potuto massacrare dei bambini mai visti prima, come ha fatto il suo omonimo francese?

La figura dell’eroe ha presentato, nei secoli e in ogni cultura, delle costanti irrinunciabili. Conosciamo eroi spocchiosi e eroi riluttanti, costretti a compiere il loro destino quasi loro malgrado. Ma, per quanto fossero dotati di sfumature psicologiche o di “irrealistici” poteri sovrannaturali, l’unità di ruolo e di carattere non erano mai venute a meno.
La mutazione avviene all’alba della 2°mGuerra Mondiale negli Stati Uniti, ormai potenza egemone in ogni ambito, e porta il nome di Superman. La segretezza della missione somigliava ancora a quella funzionale degli agenti d’intelligence, ma la doppia identità diventa tratto unificante e costitutivo dei variegati personaggi che gli susseguono. Il supereroe è sempre irriconoscibile nel suo alter ego quotidiano. Cambia poco che Superman sappia di fingersi Clark Kent mentre L’Uomo Ragno coincide con Peter Parker, e poco importa che per il senso comune attentatori come Merah o Breivik somiglino piuttosto ai loro malvagi antagonisti. Il nodo sta nella metamorfosi dell’immaginario: l’epica della lotta tra il Bene e il Male ormai può compiersi solo in una dimensione scissa dalla quotidianità, attraverso un’azione occulta e straordinaria. Non c’è più spazio per “uomini d’un pezzo” nella raffigurazione simbolica dei conflitti umani.
Quel che nutre ogni compensazione identitaria, spingendola talvolta verso la violenza paranoica, è l’erosione della possibilità di porsi e percepirsi come soggetti unitari. Sembra ingenuo sperare che la disgregazione a favore di un campionario di ruoli e maschere possa essere contrastata con la battaglia per quei diritti, sia civili che sociali, che spetterebbero a ciascuno, ma forse non c’è leva più concreta contro un’esautorazione che ci accomuna.

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4 Commenti

  1. 1) direi che ultimamente questi “odiatori” totali stanno uscendo allo scoperto, fuori dal recinto dei segreti (Grecia, Ungheria). Dall’altro lato il partito dei disponibili al meticciato, a mescolarsi, mi sembra si stia riducendo. la debolezza dei secondi aumenta la forza dei primi.
    2) probabilmente la debolezza economica, l’incertezza, spinge a isolarsi e alleva paranoie. Non solo le paranoie storiche, le malattie dell’Occidente (i.e. antisemitismo) ma paure e risentimenti quotidiani (chi ha chiuso la mia fabbrica? perché ho 40 anni e sono precario? perché il mio paese è in bancarotta? perché nessuno mi difende?), stati di terrore che cercano risposte e, non trovandole, possono, anzi debbono inventarsi risposte, ossia inventarsi un nemico/responsabile. Una condizione di precarietà collettiva ed esistenziale genera mostri quanto il sonno della ragione.
    3) adesso so che dirò una cosa semplificata e forse inesatta, che non tiene conto di tutte le famose “contraddizioni”, ma l’unico Paese sulla scena del mondo che mi sembra tenere insieme un collante sociale e una disponibilità profonda al meticciato sono gli Stati Uniti d’America (e un po’ anche la Gran Bretagna).
    4) il Paese meno disponibile invece è il nostro, l’Italia delle tribù, delle elites che rinnovano il proprio sangue di generazione in generazione, di corpo in corpo, di Corpo professionale in Corpo professionale (ma questa è un’altra storia)

  2. Sono sostanzialmente d’accordo, Davide. Ho cercato, a proposito, di farne una sorta di fotografia quando mi hanno chiesto un contributo per Italianieuropei (ossia proprio un giocattolino da elite)e questo ancora sub Berlusconi, ossia prima della crisi esplosa.
    Temo che il discorso sugli USA e sulla Gran Bretagna possa essere più complicato e da differenziare. Ma nei primi o almeno in certe sue aree c’è un’apertura tipica alla mobilità sociale con il suo corrolario di mescolanze che noi ci sogniamo.
    Tuttavia, pur con tutti i meccanismi di esclusione e di preservazione identitaria, non c’è niente da fare. Potrà essere un casino, potrà finire male x volte su y, ma che le persone di origine diversa si frequentino, si mettano insieme e facciano figli, semplicemente accade e accadrà.
    Non per voglia di abbracciare l’idea di società multietnica, ma per voglia di abbracciare proprio la tale o il tizio.
    D’altronde, sono reduce di una lettura dell’Orlando Furioso che proprio questo ci raccontava qualche secolo fa – l’amore (il desiderio) è più forte e, a modo suo, anche più pericoloso della logica di guerra (santa) e schieramenti.

  3. Parole sacrosante, Helena. Davvero. Persone diverse si mettono insieme per amore, non per ideologia. Sempre che riescano a scardinare il sabotaggio di sistemi ideologici e schieramenti. Sembra quasi una guerra civile pubblica e privata.
    Mi leggerò il tuo pezzo sul giocattolino ;-)

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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