Verso Sud

di Gianni Biondillo

All’improvviso ci supera un camion, da destra. Il cassone scoperto è colmo di lunghe frasche verdi, sopra le quali stanno seduti in equilibrio instabile un paio di ragazzi. Chiudiamo velocemente i finestrini, ci sta, come si suol dire in questi casi, facendo “mangiare la polvere”. Il camion scompare ad alta velocità nella nuvola di pulviscolo, correndo su una strada talmente dissestata che c’è da chiedersi come non deragli. Sono in Oromia, una regione poco conosciuta dell’Etiopia, per quanto sia forse la più estesa e la più popolata. Ma in Italia di questa nazione conosciamo soprattutto il nord tigrino, quello dell’altopiano, o certe aree del sud ovest, dove i mursi ancora portano il piattello labiale. Insomma, regioni più storiche o esotiche secondo i nostri pacificati standard da turisti. Gli oromo, invece, se ne stanno qui, a metà strada, etnia più popolosa di tutte senza che quasi nessuno li conosca. Sono cristiani copti o musulmani, da secoli, senza che la convivenza abbia mai portato particolari problemi. Ce l’hanno solo un po’ con le nuove chiese protestanti che vengono dall’America a fare proseliti. Nel resto dell’Africa hanno grosso seguito ma qui, in questa nazione orgogliosa della propria millenaria indipendenza, non sono visti di buon occhio.

Dal finestrino guardo fuori, se non fosse per le tipiche capanne con la copertura in paglia a tronco di cono farei fatica ad ammettere a me stesso d’essere in Africa. Sarà colpa delle piogge appena trascorse ma le valli che stiamo attraversando sono verdissime, con i prati che paiono tosati di fresco, se ci aggiungiamo i pascoli liberi di mandrie di bovini che ruminano pare di stare in Svizzera, non nell’idea stereotipata che abbiamo tutti noi di questo continente.  La strada da dopo Awassa è un unico cantiere dato in concessione a imprese cinesi, turche, sudcoreane. Si sta cercando di collegare la capitale al sud del paese, quello dove stiamo andando noi, quello più povero e disperato. Faremo tappa a Negelle, poi scenderemo ancora verso Filtu, verso la Somali Region, quella che una volta si chiamava Ogaden e della quale abbiamo il ricordo della terrificante siccità degli anni Settanta.

Siamo sempre a sud di qualcuno, penso, non c’è niente da fare. E in questo caso a sud dell’Etiopia ci stanno i somali. Ad Addis Abeba alcuni amhara mi raccontarono una storiella che spiega tutta la prevenzione e l’implicito razzismo che esiste nei loro confronti. Il buon Dio, dice la storiella, inventò le api, operose, affinché producessero il miele. E allora il Demonio, per dispetto, inventò le mosche, che non fanno altro che rompere le scatole e non servono a nulla. Noi siamo le api, mi dissero, e i somali le mosche.

Qui nella regione Somala il paesaggio non ha più la dolcezza dell’Oromia. Qui tutto si fa aspro, acre, non meno bello, ma di certo più difficile. Sono venuto a Filtu – in un posto dove non c’è acqua corrente, né energia elettrica, dove per fare le deiezioni mi devo arrangiare in una latrina di cemento nel mezzo del campo – per vedere come procedono alcuni progetti di sviluppo della Ong Coopi, in Etiopia dal ’65, progetti che hanno un approccio basato sulla green economy. Per capirci: stanno installando pozzi alimentati non più da generatori a gasolio ma da pannelli fotovoltaici. Pare la scoperta dell’acqua calda, insomma se c’è una cosa che non manca in Africa è il sole. Ma cambiare le abitudini è molto più complesso di quanto si immagini in una realtà dove manca tutto e dove ogni novità è vista con sospetto. Per assurdo l’aumento del costo della benzina di questi ultimi mesi, rendendo insostenibile la spesa per estrarre l’acqua, ha stimolato questi progetti alternativi. Sto insomma assistendo a un cambiamento importante, che potrebbe portare con sé nuove abitudini. Già si parla, per capirci, di utilizzare le nuove tecnologie anche per dotare i villaggi più dispersi – quelli più difficili da raggiungere – di “frigoriferi solari” dove poter conservare i medicinali e gli antibiotici che in zone così potrebbero fare la differenza. E te ne rendi conto quando vedi quanto sia difficile procurarsi l’acqua in queste aree: ore di cammino magari per raggiungere un pond, un avvallamento artificiale che raccoglie acque piovane dal colore marrone dove non raramente ci sono passati animali ad abbeverarsi. O muori di sete, insomma, o di infezioni intestinali.

Dopo un paio di giorni di stanza a Filtu torniamo a Negelle ripercorrendo l’unica strada della regione, quella voluta dal gerarca Rodolfo Graziani per invadere l’Etiopia sotto il Fascismo. Ormai il tappetino d’asfalto è completamente abraso e si saltella come sulle montagne russe. Ma ecco di nuovo un camion, velocissimo, che ci supera. Ma si può sapere chi sono quei pazzi?, chiedo al mio accompagnatore. “Il chat non può aspettare” mi viene risposto. Scopro così che sugli altopiani dell’Etiopia cresce una pianta autoctona che produce germogli che masticandoli danno una lieve ebbrezza. In pratica è uno stupefacente naturale, qui assolutamente legale, di cui l’intero corno d’Africa e buona parte della penisola arabica ne è consumatore accanito. Solo che il chat – qat nello Yemen – ha da essere consumato fresco, appena germogliato. E per questo ogni mattina un sistema logistico organizzato meglio di un esercito in assetto di guerra riesce a distribuire nel raggio di centinaia di chilometri le frasche allucinogene. Persino l’impenetrabile confine somalo si apre al passaggio dei camion di chat senza troppo discutere. Neppure a farlo apposta nel villaggio che abbiamo appena raggiunto notiamo il camion fermo che distribuisce fasci di verdura come fossimo al mercato. I due ragazzi col kalashnikov sul camion però mi fanno capire che la cosa è meno divertente e folkloristica di quanto immagini.

La vita e la morte di un intero villaggio, da queste parti, si giocano per un po’ d’acqua, per un campo che non vede crescere le sue spighe, per una mandria falcidiata da un virus letale. Le siccità degli ultimi anni hanno messo in ginocchio l’intera regione. Ho conosciuto agricoltori che per sfamare la famiglia hanno consumato le sementi che dovevano coltivare dopo le piogge mai arrivate, o pastori che perso il gregge vivevano disboscando la savana per produrre carbone vegetale da vendere ai bordi della strada, con danni ambientali incalcolabili. Non è, per capirci, semplicemente un problema di emergenza umanitaria. È un problema politico. Una volta queste terre conoscevano una siccità ogni dieci anni, c’era modo di coltivare, pascolare, progettare il futuro delle nuove generazioni; col cambiamento climatico di questi ultimi decenni ormai ogni due anni l’intera area cade nella morsa della carestia. Che in quest’area instabile, come mi è stato più volte detto, è peggio di un colpo di stato: di fronte alla disperazione può accadere di tutto – guerre, emigrazioni, clandestinità -, le ricadute ci devono riguardare, inevitabilmente, anche se abitiamo migliaia di chilometri da qui.

Tutto quello che hanno, in questa regione, l’unico diversivo, in una vita faticosa spesso più fatta di miseria che di povertà, è il chat. Mi illustrano i suoi effetti: dà una scossa di energia, provoca lucidità mentale (lo masticano anche gli studenti sotto esame nella capitale), permette di superare particolari sforzi fisici, tutto questo però non dura a lungo, la fase successiva è uno stato vagamente depressivo, che ti fa sentire il bisogno di ricominciare. In Somalia, per dire, la dipendenza è quasi un allarme sociale. Ecco. Spesso penso che quello che facciamo qui, come occidentali, se non è seguito con attenzione, con una progettualità che pensi non solo all’emergenza ma anche allo sviluppo, sia un po’ come masticare chat della coscienza. La nostra. Non basta, non può bastare.

(pubblicato su L’Unità, il 31 luglio scorso. Le foto sono mie.)

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6 Commenti

  1. un po’ di voce al silenzio, preziosa. grazie di cuore a gianni.
    peraltro, mestamente, mi viene da chiosare che c’è poca speranza quando in primis anche qui nel belpaese – come evidenziato dalla crisi economica – ci si limita a fronteggiare le emergenze più che a progettare lo sviluppo.

  2. Gianni,sarà vero che non lo hai provato? di quello che dicono gli scrittori non è ci si possa fidare tanto …
    (e gli effetti, anche proprio sulla circolazione automobilistica,e forse proprio come il nostro equivalente mentale, sono ancora più pesanti di come li descrivi!)
    (del resto parte giornalmente in aereo per le principali capitali europee)

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gianni biondillo
GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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