Psicotici e precari a Paperopoli

Foto di Andrea Marutti, flickr.com/photos/afeman/

di Emanuele Trevi
Bisogna ammetterlo: a differenza dei suoi nipoti e pronipoti, Zio Paperone è un tipo che lavora sodo ogni giorno, festività incluse, fin da giovanissimo. Anche se la leggenda gli attribuisce anche un grande amore giovanile, non ha mai fatto altro che sgobbare e sgobbare, da quando non era più alto di Qui, Quo e Qua. Tutto quello che ha, insomma, se lo è sempre sudato. Nessun paperopolese onesto (e tutti i paperopolesi, a parte i Bassotti, sono onesti) metterebbe in dubbio queste verità di fatto.

Mi ricorderò sempre di aver ricevuto in regalo, da bambino, un Manuale di Zio Paperone, succedaneo editoriale dell’indimenticabile Manuale delle Giovani Marmotte, di colore ironicamente rosso (erano i tempi in cui i più grandicelli brandivano il libretto dei pensieri di Mao Tse Tung). Vi si raccontava la storia del Primo Centesimo guadagnato dallo zione, quello che la maga Amelia cerca sempre di rubare – storia seguita da una massima che suonava pressappoco così: il centesimo è come l’acino che unito ai suoi simili forma il grappolo del miliardo. È troppo facile ironizzare sull’avarizia o sull’avidità del vecchio papero. Come tutti coloro che possiedono un talento eccezionale, unito a un carattere forte e volitivo, il vero problema di Zio Paperone non è quello di essere amato o detestato, o comunque giudicato, ma quello di non assomigliare realmente a nessuno dei suoi simili. Tuffarsi e sguazzare nelle monete del suo Deposito cubico, per lui, è una specie di rito riparatorio, un sogno di compensazione, una tecnica estatica di sapore livemente misterico. Le monete sono il suo elemento perché fanno grappolo: a differenza del variegato, ingovernabile mondo degli individui, offrono l’illusione beatifica di un’equivalenza universale, di un’infinità che si ripete identica a se stessa: contabilizzata e indisturbata.

Certo, Zio Paperone, tecnicamente, è un pazzo – ma il tipo di pazzia di cui soffre è sistematico, lucido, incoercibilmente utopico. Il bagno lustrale nei soldi tanto faticosamente accumulati rivela il suo massimo e meno confessabile desiderio, e dunque la sua essenza più intima: Zio Paperone vorrebbe essere un centesimo, l’unità minima a cui nessuno mai negherà il diritto di fare parte del Grande Grappolo. Una pura circonferenza metallica, un valore nominale anche piccolo, ma garantito dalle leggi e dal comune consenso. Ci sono cose che non si possono comprare, e ci sono aspirazioni che non solo non si possono condividere, ma nemmeno far capire al prossimo, per non parlare di se stessi.

Come tante altre specie di irrimediabili solitudini, anche quella di Zio Paperone, smarrito nel suo sogno segreto di convertibilità, risalta in maniera ancora più drammatica all’interno della sua stessa famiglia. La famiglia è una somma di individui incapaci di formare un grappolo. Un pericoloso crogiolo di aspirazioni e fallimenti singolari, incapaci di un organarsi, di aumentare la loro potenza in virtù della più semplice delle magie: l’addizione. Prendiamo i nipoti, fonte quotidiana di dispiaceri di ogni tipo. Se se la passano bene, come Gastone, possono ringraziare solo i colpi di fortuna – ma il Manuale di Gastone sarebbe un libro per niente educativo.

Quanto a Paperino, come tutti sanno, potrebbe solo sperare che qualcuno lo pagasse per collaudare materassi, e amache. Paperoga è quell’idiota che è. Degni figli di una città, Paperopoli, che non sarà una capitale asiatica dei piaceri proibiti, ma dove di sicuro le sieste durano a lungo e la gente, un po’ come succede a Roma, Atene, e in tante altre città meridionali, sembra sempre andare a passeggio o affollare i tavolini dei bar. Per non parlare dei nouveaux riches alla Rockerduck, tipici prodotti di una società di peones e parassiti… Il bello è che, quando si tratta di sbarcare il lunario, cosa che anche a Paperopoli ha la sua importanza, non del tutto relativa…allora, a quale porta si bussa, una volta rigirate tutte le tasche in cerca dell’ultimo dollaro dimenticato ? Alle prerogative già ingombranti di un vecchio zio ricco e scapolo, con tuba e ghette, Paperone unisce giocoforza anche quelle del datore di lavoro, dell’elargitore di prestiti, del padrone di casa. Sempre in credito, può perlomeno servirsi di una forza lavoro scadente, ma a bassissimo costo, e ovviamente interinale.

Nondimeno, i paperi spesso si danno da fare – o almeno, ci provano. Sono veramente recalcitranti, e non gli si può dare torto, solo di fronte a lavori dal forte connotato punitivo, ad esempio lucidare i sacchi con le monete più vecchie del Deposito. Ma non è detto che siano sempre così sfigati. Zio Paperone, questo grande artista del minimo salariale, può offrire anche, per quello che gli costa, impieghi prestigiosi. In molte vecchie storie che leggevo da ragazzo, durante i ruggenti anni Settanta, Paperino e Paperoga, proprio lui, si trovavano alle prese con un lavoro molto interessante: erano infatti redattori del “Papersera”. Inutile anche solo dubitare un secondo su chi sia il proprietario del più prestigioso quotidiano di Paperopoli. Uno di quei proprietari, per inciso, che fa sentire ben chiara la sua opinione ai dipendenti: con un bel colpo del bastone da passeggio sul tavolo da lavoro, il più delle volte. Zio Paperone, assumendo come cronisti due perditempo del calibro di Paperino e Paperoga, dimostra di sapere il fatto suo ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno. Non nutriranno addirittura l’amore per il padrone di certi loro colleghi italiani, ma certo non fanno discussioni inutili. La risoluzione dei rapporti di lavoro, al “Papersera”, molto informale oltre che unilaterale, prevede pedate sul sedere, defenestrazioni, inseguimenti col randello.

Il guaio è che Paperopoli passa dei lunghi periodi in cui non succede nulla – in tutta la città, nemmeno l’ombra fugace di una notizia. È appunto durante questi periodi di magra che si ambienta la maggior parte di queste storie di Paperino e Paperoga al “Papersera”. Le vendite del quotidiano scendono a picco. Sospeso a tempo indeterminato il corso degli avvenimenti, la città non ha più bisogno di quello specchio della sua stasi. I giorni passano senza che nemmeno una gatta decida di partorire. Giorni sereni, immobili, di mezza stagione. Lente e grandi nubi transitano nel cielo azzurro, e sembrano anche loro immobili. La forza poetica di questo clima narrativo è indimenticabile. Come è iniziato, ovviamente, il sortilegio finirà. Ma fin tanto che questo nirvana urbano dura, è come se fosse eterno. Il giorno si è fermato proprio mentre scoccava il suo momento migliore, e la perfetta maturazione della luce che immaginiamo facilmente in questa città senza notizie è una potente ed efficace immagine della felicità possibile su questa terra.

Ma appunto, la proprietà – come si dice oggi – del “Papersera”, incarnata da Paperone, è pochissimo sensibile agli involontari risvolti poetici della situazione. E qui entrano in scena i due idioti, Paperino e Paperoga cronisti a caccia di notizie inesistenti. Fino al momento in cui, infallibilmente, saranno loro a fare, in qualche modo, da notizia. Nel giornalismo contemporaneo, il caso è tutt’altro che infrequente. Ma non è questo il punto. Se una premessa fondamentale di queste storie del “Papersera” è l’assenza di notizie in città, non meno importanti sono le condizioni in cui lavorano i due paperi, perennemente esposti al rischio della pedata dello zione. Paperone è un datore di lavoro, come ho già ricordato, molto spiccio nel riprenderselo, il lavoro dato. L’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, per lui non ha proprio nessun senso. Spesso l’ultima vignetta delle storie, di formato più grande, è consacrata proprio a queste risoluzioni del contratto, per così dire, che possono comportare notevoli spargimenti di piume.

L’ira di Paperone è decisamente plateale. Ricordiamoci che è un pazzo avanti con gli anni. Da che mondo è mondo, la relazione servo-padrone (o se preferite datore di lavoro-dipendente, o ancora creditore-debitore…) è come una bilancia che tende all’equilibrio. Questo equilibrio è psicologico oltre che economico. Se ne deduce che il precariato dei paperi trova il suo perfetto contrappeso nella pazzia del loro ricchissimo zio. La follia e il precariato, questi squisiti prodotti delle civiltà perfezionate, stanno fra loro in un rapporto di perfetta simbiosi, di reciproca esaltazione. E’ per questo motivo che Paperopoli, come la Parigi del XIX secolo o la New York del XX, sarà sempre un luogo attentamente indagato dai pensatori che hanno a cuore la società e le sue oscure, a volte terribili leggi. Esattamente come le altre nostre città, Paperopoli è un’illusione, una fata morgana, un edificio costretto a poggiare sull’impermanenza. E come tutte le altre città del mondo contemporaneo, anche Paperopoli inizia ad assomigliare a un sogno, a un’apparizione spettrale. Se la filosofia e il pensiero politico godono di così scarso prestigio nel mondo d’oggi, ciò dipende dal fatto che spesso, se non sempre, essi ci appaiono costretti a speculare su oggetti e argomenti che permangono tra noi ben oltre i limiti delle loro funzioni naturali. Come la follia, appunto, e il precariato: i quali non fanno altro – e come potrebbero ? – che ripetere se stessi all’infinito, senza che nulla e nessuno intervenga a scompigliare le loro eterne nozze.

Poche settimane fa, si era sotto Natale, ricapitolavo queste amare considerazioni mentre assemblavo per mio nipote Pietro, quattro anni, un sontuoso Deposito di Paperone in plastica, completo di sacchi e mucchi di monete e di un ufficio padronale al piano superiore. Non mancava nemmeno, a fianco della grande scrivania, la bacheca che serve a custodire il Primo Centesimo: il cuore mistico, l’alfa e l’omega dell’intero Deposito. E ovviamente, non mancavano né Paperone, perfettamente a suo agio nella posizione di chi riceve un postulante, e il postulante stesso, Paperino, che tiene il suo cappelluccio da marinaio in mano, a differenza dello zio che porta ben calcata in testa la sua tuba ovunque si trovi. L’atteggiamento servile di Paperino è universalmente riconoscibile. Sta chiedendo un prestito o una dilazione, se non un nuovo lavoro.

Appoggiato al suo bastone, lo zio è ancora più eloquente, con la sua aria di chi non solo ha poco tempo da perdere con i problemi altrui ma, una volta costretto ad ascoltarli, non sarà per questo più disposto a risolverli. I due pupazzetti, quello del pazzo e quello del precario, sono lì, come al solito, per fronteggiarsi in eterno, come le incarnazioni degli eroi e dei dèmoni nel teatro delle marionette indonesiane. Una volta completata la costruzione del gioco, e sistemati nell’ufficio zio e nipote, ci si rende conto che l’atmosfera è satura di attesa. Tutto è pronto per il sacro rito del rifiuto. Non un centesimo, nipote ! La defenestrazione è imminente. Non solo: è lo scopo del gioco, i cui pezzi, regalati in vari numeri di “Topolino”, andavano assemblati dal primo all’ultimo per capirne il senso.

Durante la fase di montaggio, mi era risultato molto misterioso un lungo tubo che, partendo dal centro del pavimento dell’ufficio al primo piano, portava direttamente fuori del Deposito. Per far cadere il malcapitato questuante in quella specie di infallibile scivolo espulsorio, a Paperone serve solo azionare un meccanismo che spalanca una botola al centro del pavimento. Questo è il gioco. Con tanto di sponsorizzazione annessa, su una delle grandi pareti del Deposito. Una banca italiana: BANCO ANTONVENETO come si legge in caratteri cubitali su un lato del giocattolo. Ogni giocattolo, anche logorato dall’uso o dimenticato sotto il letto, è un oggetto numinoso, un ricettacolo di forze che, quando l’infanzia ci abbandona, non siamo più in grado di comprendere. A mio nipote, per esempio, quella botola piaceva un sacco, così come il meccanismo segreto che la azionava. Circondato da genitori e parenti, tutti lo incitavano a sistemare Paperino, con il suo cappello in mano in segno di preghiera e deferenza, al posto giusto: per poi, con un semplice gesto, farlo sparire nel tubo ed espellerlo così, seduta stante, dal Deposito. Ma una botola è una botola: funziona per tutti e per tutto nella stessa maniera. Di quali assurdità non sono capaci i bambini, pensavo, guardando cadere nel fatale trabocchetto anti-questuanti un paio di sacchi rigonfi di dollari, poi la scrivania assieme alla poltrona dall’alto, padronale schienale, e infine…Paperone in persona, rapidamente seguito, scandalo degli scandali, dal Primo Centesimo.

Sotto gli occhi impassibili del BANCO ANTONVENETO, e nella generale costernazione degli adulti, nel Deposito stava accadendo quella che, una volta, si sarebbe definita una Rivoluzione bella e buona. Caparbiamente, nell’ufficio padronale ormai vuoto come una camera di contenzione, di fronte alla botola spalancata e ormai inoffensiva resisteva solo Paperino, ancora troppo incredulo per ricordarsi di rimettere il suo cappello in testa. In quello spazio inaspettatamente deserto di zii folli, feticci e suppellettili, non sapeva nemmeno più a chi rivolgere le sue suppliche di poveraccio afflitto dal bisogno. Umiliati e riversi a terra, Paperone e il suo Primo Centesimo sembravano un residuo organico con gran sollievo espulso dal Deposito. Sul tetto, protetto dalla ben nota cupola, un cannone semovente rivolgeva la sua inutile minaccia al cielo di Natale.

[Questo racconto di Emanuele Trevi è stato pubblicato in Mario Desiati, Tarcisio Tarquini (a cura di), Laboriosi oroscopi. Diciotto racconti sul lavoro, la precarietà e la disoccupazione, Ediesse, Roma 2006.]

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3 Commenti

  1. individuare la proporzionalità tra follia e precariato è il primo passo di un’indagine filosofica che potrebbe persino arrivare a tracciare una cartografia.In ogni caso penso che sia il caso di rubare dal colto delirio di Malachi “Buck” Mulligan(in cui ci stiamo trasformando un po tutti,chi più chi meno,penso per inferenza)il nome del nostro nonluogo(non-lieu):Cretinopoli

    http://www.youtube.com/watch?v=G0AdXIDzDRs

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