da “Le circostanze della frase”
di Andrea Inglese
CHE NE SARÀ DEL PROBLEMA SE NON ME NE OCCUPO ABBASTANZA? Se con il vostro aiuto, la maldicenza, l’invidia, il collasso economico, la ripugnanza, la solida rete di dipendenze, se assieme, o gli uni contro gli altri, convergendo su di me, non facciamo grande, solenne, il problema? Se io per primo, ignorandovi, non lo nutro e assisto, divaricando il buono, montando malanni di cani o siepi da cortile, le fami degli insetti, o le paure millimetriche intorno ai tappi, alle maniglie, ai boccali di vetro, troppo vuoti e trasparenti? È così, attraverso distrazioni, movimenti ottusi, cambio di abitudini, più o meno, con rallentamenti, entusiasmi da scalinata o da ascensore, seguendo vicende ormai colme, additando le persone troppo conosciute, sedendomi di continuo, o dormendo nei momenti inopportuni, è in questo modo che il problema giace accantonato, non si moltiplica, né sorge dalle sue ceneri, ma da subito, collaboranti, deve essere nutrito, dando problemi al problema, altri, meccanicamente, facendo in modo che collidano, con spavento, in esso, venendo da geografie diverse, franate, con rumori, perdite, debiti, frasi ansiose: poiché tutto il problema, se non è seguito, diretto, governato, spinto al suo peggioramento, se viene abbandonato, privo di convulsioni, messo da parte, irriso, e magari sciolto, così lontano, inefficace, quel problema, e i suoi infimi successori, sparisce, mi libera, non fa danno.
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AEREI CARGO, CHE VOLANO INVISIBILI, che di notte volano, silenziosi, che neppure, mai più, a bassa quota, lanciano alcun materiale, grappoli di stoffa o di cibo, aerei fissi, ormai, sospesi, che non volano, sagome di aerei cargo, viste e ripetute, come immagini dipinte, sul muro, o tracce, contorni, in movimento, o ferme, sul soffitto, o nel moto del soffitto, e più sopra il cielo, ancora lento, e più sopra il buio, il freddo contorno, silenziosamente spaziale, senza ali o voli, con frange di galassie, da tutti gli angoli quasi invisibili, scendendo, mentre i vuoti corpi di metallo, amputati, degli aerei cargo, come crani, urne, scatole, affondano nella vista, fissandosi.
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CERTO CHE TI VEDO E TU MI PARLI, e che sai ridere, e non so davvero come, fino a dove riesci a ridere, e a parlare, e penso anche che con uno sforzo continuo, fatto subito, afferrandomi ai bordi del tavolo, posso sorridere anch’io, posso con naturalezza ricambiarti un sorriso, è solo che me lo devo costruire, e bisogna essere cauti a formarlo, se sbaglio la piega, viene fuori magari qualcosa di buio e mostruoso, o magari delle lacrime, e proprio agli angoli degli occhi, mentre tu volevi solo ridere, anzi ci riuscivi, quasi avessi un meccanismo interno, o solo acquistato una macchina, e di continuo la azionassi, una resistente macchina di denti, tale da prolungare sorrisi per giorni, e io invece privo di artifici, con le mie sole forze, pescando dove possibile un riflesso, un tremito, che agisca sulle labbra mie, senza sfigurarle soprattutto, e poi ascoltarti, che se riuscissi almeno ad ascoltarti, ma dentro questo attutimento, come posato in fondo al sommergibile, tutto assordato dai piccoli rumori della mia disperazione, è difficile capire le singole parole, o ricordarsi di come fanno assieme una frase, quella che mi stai dicendo, ma da tutti questi schianti, che mi rendono così sordo e disperato, potrei trarre una tremenda forza, come una gioia, e rovesciare molte risate, a sapere invertire, commutare, questo lavorio, questi rumori di ogni punto, di ogni istante.
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[Da Le circostanze della frase, di prossima uscita per Italic Pequod.]
Le circostanze della frase è un lavoro nato nel 2006 e confluito in un progetto più vasto in collaborazione con Stefano Delle Monache, compositore e sound designer. Su GAMMM, è apparsa nel 2007 una prima versione sonora & testuale.
[Immagine: Atelier Van Lieshoiut, Uri Tory, 2003.]
Immagino che la versione integrale sia meglio valutabile. Da questo brano – non ho problemi a dichiararmi un po’ tonta – traggo un senso di parolaia insensatezza. Scusandomi, in tutta franchezza…
sì, virgin. è un assaggio un po’ parco probabilmente; ma il link dovrebbe dare qualche elemento ulteriore…
quanto al senso di “parolaia insensatezza” penso che sia qualcosa che mi interessa suscitare. A patto di considerare con attenzione tutta l’inquietudine e la vertigine che emerge in una parola che ha difficoltà a fissare un significato stabile o in una frase che non riesce a chiudersi con compiutezza di senso. E non perché il senso manchi, ma perché i significati sono tanti, conraddittori, sfuggenti. “Le frasi di circostanza” sono frasi prevedibili prodotte da una realtà sociale codificata. “Le circostanze della frase” sono le significazioni, le circostanze possibili, che il linguaggio che deraglia può suscitare.
Sei grande come sempre. Un po’troppo fancesino, col culetto stretto, ma grande. Un abbraccio fraterno.
Caro Elogio, un abbraccio con intatta nostalgia di Martène. Ma ricorda: un milanese a Parigi, è come un terrone a Milano.
Gnec, nel suo blog (wwww.ildonodignec.it) conclude in questo modo la sua lunga analisi della scrittura di Inglese: “L’originalità di Inglese consiste dunque nell’aver fatto della deriva del significato (appurata oramai l’esangue inutilità della deriva del significante)l’allegoria di un mondo indicibile e, per questo, continuamente nominabile”.
Non posso che apprezzare l’attenzione che la semiotica letteraria del Gnec, tra le più attrezzate oggi, ha rivolto al mio lavoro.
Non ci ho capito un piffero!