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Sei poesie

 

di Gilda Policastro

Da Non come vita, Nino Aragno/I domani, 2013.

gilpol

 Autunno

Nemmeno per l’inverno
restavi 
E le lapidi invetriate
nel deposito 
deluttuoso 
della memoria

Come un film, risusciti in fermo immagine 
gialla al fotoshop riproducibile 
di Santi Alessia compagna
Vent’anni e bionda, e tu solo gialla
per i prodigi multipli
dell’erbitux
Non durerà, godetevi
la forza dei gravi duttili
Il peso dell’unheilbar 
Krebs non ci sta 
nella foto che parla
Di gialle foto in cerca su bianchi lenzuoli
obitori in feste di fiori come a macabri party
Dimettiamoci, se possiamo visitare
le intercessioni di vita nella cura della morte
Mi cerchi compagna 
mi trovi nemica 
nel gelo che dilava gli occhi 
a mai più guardare
Chissà se ci arriva a Natale, 
di malattia incurabile si muore 
(forse il cuore, sì, è stato il cuore che non ha retto)
ma solo dopo,
dopo l’estate 

-

Estate

Bambina ti levavo
dai seni gli occhi 
Nella riproduzione delle macchie 
a seguire
l’impietà di guardare
le masse colliquate intatte 
dall’erbitux

Inerti   
nel dolore inconvertibile
ti poso addosso le dita
per la misurazione delle masse
(coi tronchi meno grossi 
                                       si fanno i coperchi delle casse)

Filamenti d’ovatta mentre ti lavo 
i capelli e ben bene sotto le braccia
(le masse denutrite non proliferano in meno 
            di sei /dodici mesi 
                                             nel quaranta per cento dei casi)
Godere in analettico conforto 
anche di cose qui per noi indifferentissime 
(sfilaccia, l’acqua, l’ovatta, prendimi per favore dell’altra acqua)

E poi mai più,
che lavorare 
stanca le masse
e il contenimento è il vero successo, 
in oncologia

Questa 
non sei tu:
- Non il bene vecchio ma  il cattivo nuovo,
una massima di B., diceva B.*: 

-

Tre visioni

1. Hermann Nitsch

Dove si macella e si squarta, lì si cura 
mette le bende, il bisturi 
come incensi
sull’altare che immola 
l’organo in cancrena

Prima che la festa si rovesci in lutto
bianco, al chirurgo o al macello,
togli da sotto la carcassa
il lenzuolo         Nel camice
residuale rivive,
quando è macchia, la speranza 
al congiunto che vede,
da sotto la benda verde, altro bianco, 
di scampato a -

Nell’atrio che aspetta, si fissa  
l’infermità tra la vita e la - 
làvati, làvati bene quelle tue mani
mentre bevi, che fa bene 
al cuore, che squarti  
quando entri, con lame, e dove risali
lì sono gli altari  

Se il pane si spezza,
il  rosso lo versi a grumi: 
sul sacrificio bianco,
vive, fluidifica oppure coagula
ma si saprà dopo, 
dopo che sarà l’offerta 
senza intenzione, senza dono 

-

2. Louise Bourgeois

Chiami mamma e ti preda   
l’artiglio che accoglie
nella cella che dici ‘casa’ ed è  
culla crepata come ampolla 
di sotto alla fiamma

La stanza di sopra tiene appesi 
con i ganci gli arnesi,
al rimpasto che appare
nel banchetto di padre
Figlio lo espelli ruminato 
come bava, come scolo
emesso dallo scarico 
- uguale -

S’entra nello spazio 
in cui svuota la forza
combatti e godi, che non sei tu
che ghermisci, non è lei: ma siamo, 
siamo così, 
ancora
siamo
così 

-

3. Bill Viola

Avvicinati, più lento
e dimmi cosa vedi    La madre, vedo lui, 
non vedo nessuno, 
l’acqua, il fuoco, vedo chi li riceve
e i morti e i vivi 
capovolti 
nel riflesso che appare

Andiamo, andiamo piano
passiamo attraverso
e guardiamo com’è
il corpo ch’è mosso,
per finta, a far fine

quando muore, 
lo guardano altri
e da lontano tutti
più lenti di così,
molto di meno 
ci vanno 
accanto,  
dondolandosi piano

Prendi quei due, sembrano vivi       e sono
nell’acqua ch’è mossa non dai fiati
ma da come li vedi, 
piano, andando 
altrove 
che è fine, e ricomincia, per tutti, 
piano

-

I cari altri

Gli altri sono: 
mangiare il panino a morsi, 
gridare al telefono e 
sputare
             mentre lo fanno

I gesti che non durano, 
la bambina dire ciao dalla porta, 
e lui che ci hai dormito, una notte,
la mattina non ne sai il nome più
                      - ma non è come pensi

Gli altri sono: 
il ventre che spinge
sotto le calze, e sopra i seni 
le mani,
ma pensare che non resiste, 
e ochéi, ci sentiamo domani

Un’unica forma, o misura, ha il fare, 
il resto è represso 
dal vestito di madre, 
dal divieto, 
e più chiedono, gli altri, più ingombrano, 
meno ci stai 

con gli altri sono: 
i figli, morire, tu-figlia-loro-morti, 
e le coperte, e il velo 
e i pigiami e le giacche, 
gli altri le porteranno, li butteremo, 
e quel giorno non verrai
nel sogno a rimproverare

non come vita, ma più di dormire o meno, 
adesso non ricordare, non dire il nome, che non sai
degli altri, che a te chiedono, loro, 
di non andartene

e che hanno paura, 
non vanno a letto, non si sdraiano come d’amore,
eppure non passa, non va-e-non-viene,  e sono a metà

-

* Brecht; Benjamin.

--

[Dalla quarta di copertina]

È questo il libro della prima stagione poetica di Gilda Policastro. E proprio Stagioni è la metonimia che intitola la sua prima sezione. Prima in ordine di composizione ma, ciò che più importa, in termini “narrativi”: col mettere in scena il primo di una sequenza di lutti, inconsutile manto funebre che, alla pelle mentale di chi dice «io», a lungo è calzato come una guaina perfetta. Si dice «stagioni» e si vuol dire dei tempi vissuti, o che piuttosto tali non sono stati: e tuttavia riposti in quello che, con immagine beckettiana e pun rosselliano, viene definito il «deposito / deluttuoso / della memoria». Nei versi più celebri di quello che resta l’ispiratore primo e indiscusso («Sono un tronco, diceva qualcuno»), si cantavano «le morte stagioni, e la presente / e viva, e il suon di lei». Ecco: mentre le morte stagioni si prendono tutto lo spazio – in quest’intirizzito catasto degli estinti – della viva, coi suoi suoni, davvero non c’è traccia. E forse una radice, di questa coazione luttuosa che intride ogni fibra del libro, andrà cercata – oltre che nell’enciclopedia dei palinsesti lirici omaggiati, da Leopardi a Montale – nell’origine remota (ma a tratti rinvenibile), di chi scrive, nelle terre in cui a suo tempo Ernesto de Martino trovò la sostanza antropologica di Morte e pianto rituale. Come in quel repertorio la materia fonda del dolore, sorda e opaca, rilutta alla realtà storica e dunque a qualsiasi elaborazione, a ogni minimo movimento (così nella sequenza più lancinante: «E chi si muove da terra», con quel che segue). Proprio come i morti, per definizione «statici» nel flash che li imprigiona in immaginette votive, chi scrive si rappresenta recluso in una cellula di fiele: rintanato, diceva quell’altro, in un «letargo di talpe, abiezione / che funghisce su sé…». Ed è allora un bene – se non altro per la vita di chi afferma, qui, d’esserne priva – che questa stagione, col suo annichilito splendore catatonico, possa dirsi conclusa.

Andrea Cortellessa

Gilda Policastro è nata a Salerno e cresciuta in Basilicata; vive a Roma. Italianista e critica letteraria, collabora con riviste, quotidiani e lit-blog. La sua prima raccolta, Stagioni e altre, è uscita nel Decimo quaderno di poesia contemporanea (Marcos y Marcos, 2010). Nel 2010 ha pubblicato per i tipi della d’if il prosimetro La famiglia felice (vincitore del Premio Mazzacurati-Russo nel 2009) e nel 2011, per Transeuropa, Antiprodigi e passi falsi (vincitore del premio Antonio Delfini nel 2009), con un cd di interazioni poetiche e musicali. Nel 2010 Fandango ha pubblicato il suo primo romanzo, Il farmaco; cui fa ora seguito, per lo stesso editore, Sotto.
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6 Commenti

  1. La poesia non è una melodia già sentita che rimesta nell orecchie cercando la corda da pizzicare, è una lacerazione che urla le sue domande e che stende ogni resistenza consolatoria.

  2. – La poesia è libera – dicono… -Heilà, si sa!
    – Ma anche il delirio, o no?- Chiedo, ovviamente!
    Altri dicono che la poesia non si spiega, nel senso che non si deve spiegare, ma almeno si deve capire qualcosa, o no?
    Non me ne voglia l’autrice o il redattore della testata, mi perdonino per insufficienza d’intelletto, io sono bloccato alla prima poesia, chi mi aiuta?
    Un saluto garbato a tutti, Gaetano

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