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Il Bush nero allenta il cappio

di Piergiorgio Odifreddi

.[riprendo dal blog di Piergiorgio Odifreddi questa valutazione del recente “riavvicinamento” tra Cuba e USA, in linea con due miei precedenti post qui su NI, questo e questo. a.s.]

 

Fa ribrezzo sentir pronunciare magnanimamente, da parte di un presidente statunitense, la frase: “Siamo tutti americani”. Se non altro, perché è almeno dal 1823 che l’espressione “americano” viene intesa dalla Casa Bianca nel senso di “statunitense”, appunto. Da quando, cioè, il presidente James Monroe enunciò la sua famosa dottrina, compendiata nel motto: “l’America agli americani”, che con un macabro gioco di parole intendeva por fine alle ingerenze dei paesi europei nel continente, e riservare monopolisticamente queste ingerenze agli Stati Uniti.

Da allora, questi ultimi sono intervenuti in maniera sistematica in quasi tutti i paesi del Centro e Sud America: sia direttamente, con invasioni dei marines, sia indirettamente, con colpi di stato organizzati dalla Cia, o guerre di guerriglia sostenute dal governo e finanziate dal Congresso. Ad esempio, citando alla rinfusa, in Messico, Guatemala, Honduras, Nicaragua, El Salvador, Panama, Puerto Rico, Repubblica Dominicana, Haiti, Granada, Ecuador, Brasile, Bolivia, Cile, Uruguay e Argentina.

E naturalmente Cuba, che venne conquistata nel 1898 nella guerra con la Spagna. Nel 1903 la costituzione del paese stabilì il diritto degli Stati Uniti di intervenirvi a suo piacere. Nel 1906 l’isola fu occupata per due anni, e le truppe statunitensi intervennero in seguito nel 1912 e nel 1917. La dittatura di Batista trasformò il paese nel “bordello dell’America”, e durò dal 1933 al 1959. Alla liberazione dell’isola da parte di Castro, gli Stati Uniti reagirono con un isterismo paranoico che portò il mondo sull’orlo di una guerra nucleare, scampata solo grazie alla ragionevolezza di Kruschev (che in seguito pagò caro il suo coraggio).

Nel 1962 il Golia del continente impose al David dei Caraibi un embargo commerciale che dura tuttora, venticinque anni dopo la caduta del muro di Berlino. L’annuncio di ieri, che verranno reinstaurate relazioni diplomatiche, rimedia solo parzialmente e timidamente alla vergogna dell’imperialismo statunitense nel continente americano. E non è che un lieve allentamento del cappio, ancora ben stretto attorno al collo dei cubani.

In particolare, rimane saldamente nelle mani degli Stati Uniti il territorio di Guantanamo, sede dell’imbarazzante lager, nonostante le premesse elettorali del primo Obama nel 2008. Ma gli Stati Uniti benevolmente cancellano Cuba dalla lista dei “paesi terroristi”: un’interpretazione autentica, si può ben dire, da parte del primo della lista di quei paesi nel continente americano, e forse nel mondo intero.

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11 Commenti

  1. Non è che si possa dire che l’articolo non contenga del vero.
    Solo che appare un po’ a senso unico: due parole sulla condizione dei diritti politici a Cuba, forse ci stavano bene.
    Anche a me non ha entusiasmato questo sbandierato accordo; più che altro perché non si è visto uno straccio di rassicurazione su di un qualche passo verso la democrazia da parte del fratello del “liberatore”

  2. E allora? Mi sembra un ciclostile di Rifondazione Tabagista, questo scritto di Oddifreddi.

    Essere arrivati a questo accordo con integrità e dignità è un ottimo risultato per Cuba. Questo papa Bergoglio è sorprendente, cosa combinerà ancora? Israele e Palestina?

  3. sono d’accordo con l’autore dell’articolo e dei due dei commenti che mi hanno preceduto. Non ho mai capito l’odio verso gli stati uniti perché è chiaro che nello stesso posto dove si sono prodotte ingiustizie e ingerenze perniciose è nata la resistenza civile e i diritti (senza i loro mirabili esempi staremo ancora a vaghe rivendicazioni individuali, o al broncio), sono nati e sono cresciuti artisticamente scrittori dalle capacità fulminanti che hanno dato contributi fondamentali alla presa di coscienza che non siamo numeri. Certo, i governi che si sono succeduti a Washington , hanno provocato discreti guasti, ma si potrebbe dirlo anche per altri a noi molto più vicini non solo geograficamente. E in ogni caso io cercherei sempre di risalire la corrente del denaro per imparare a parlare, male, di chi conta veramente

  4. Sul contenuto dell’articolo sono d’accordo con Jan: Marxisti per Tabacci ne sarebbe stata la destinazione naturale.

    Ma la cosa davvero vergognosa è per me il titolo, perfetto esempio di quel razzismo di sinistra per cui il colore della pelle non conta, ci mancherebbe, ma solo fino a un certo punto.

  5. L’autore dell’articolo, di cui peraltro non sono abitualmente un fan, si chiama Odifreddi e non Oddifreddi. Il termine “Rifondazione Tabagista” non lo capisco in alcun senso. Mi piacerebbe si discutesse nel merito piuttosto che fare battute. E’ vero o non è vero tutto quanto dice Odifreddi? Io non ci trovo niente di sbagliato, ma su questo si può ovviamente discutere e obiettare. Nei post miei linkati c’è un riferimento a un’intervista a Noam Chomsky che, assai più autorevolmente di me, dà una qualche valutazione della presidenza Obama. Quanto al titolo “Bush nero” non riesco a vederci alcun razzismo, quanto piuttosto il fatto che Obama aveva suscitato grandi speranze democratiche grazie al colore della sua pelle, per poi tradirle una dopo l’altra.

  6. Razzismo è credere che esistano caratteristiche e proprietà specifiche ad una razza che distinguano le persone che ne fanno parte (o che sono identificate come ad essa facenti parte) come inferiori o superiori. (E’ una definizione molto semplice basata su http://www.oxforddictionaries.com/definition/english/racism; definizione non esente da ombre, visto che dà per scontato che esistano cose abbastanza oggettive chiamate “razze”, il che è lungi dall’essere scontato).

    Che uno susciti grande speranze per via del colore della pelle, e che in ragione della sua pelle questi tradisca ancora più profondamente quelle speranze e quindi sia doppiamente vilipeso, è comunque razzista, per quanto ‘ingenuamente’. Sia l’esaltazione che la denigrazione basati sul colore della pelle sono razzisti. Certo che l’elezione di Obama ha costituito un momento simbolico enorme, tanto più per un paese razzista come gli USA. Ma il simbolo è appunto, per definizione, molteplice, avviene sullo sfondo di rapporti, Storia e storie, non ha nulla di connaturato. L’operazione che Odifreddi fa con questo titolo – ricordare il ‘colore’ di Obama per attaccarlo nel momento in cui fa qualcosa che l’autore non approva – impoverisce molto la sua analisi, mi dispiace.

    Ovviamente è vero che gli Stati Uniti hanno usato politiche imperialiste e distruttive, specialmente nel continente americano. Non è mai male ricordarlo, e forse proprio per questo la presente fase di disgelo merita una attenzione meno tranchant.

    • si potrebbe anche vedere la cosa da un altro punto di vista: se qualcuno utilizza il colore della sua pelle come mezzo per obiettiivi politici è un cinico. E ancora piú cinico se tali obiettivi politici non coincidono con quelli della maggioranza delle persone che hanno la pelle di quel colore, e neppure con le loro legittime aspirazioni. Il Presidente Obama non ha saputo trovare le parole giuste neppure ora che la comunitá afroamenricana è scossa da tanta rabbia e disperazione, che la comunitá latina è colpita da leggi segregazioniste e che lui non è piú rieleggibile e quindi piú libero di esercitare persuasione morale sulla Nazione e su quella parte della Nazione che è piú sofferente. E questo è ancora cinismo. Credo che il tratto principale della figura di Obama sia il cinismo sfacciato e dichiarato (senza travestimenti ideologici come nel caso del neoconservatorismo) cinismo che ha irimediabilmente corrotto tutto il discorso pubblico della Nazione, trasformando il dibattito politico in una rincorsa di cinismi milionari (o di milionari cinici).
      Sul fatto di Cuba e la democrazia mi pare che si debba allargare un po’ la vista, intorno a Cuba è pieno di democrazie come Salvador, Messico, Guatemalae, Giamaica. Che si sono democrazie liberali in cui la vita delle persone comuni non vale nulla, né la vita, né la dignitá né il patrimonio. In Messico a Guerrero la classe politica eletta superdemocraticamente, nessuno critica la democrazia messicana, puó ordinare, probabilmente alle Forza dell’ordine di massacare una cinquantina di studenti, almeno uno di loro pare sia stato scorticato e bruciato vivo, senza che nessuno della sinistra obamistarenziananappista ponga il problema dei diritti umani e della democrazia messicana o si coordinino pressioni internazionali su quella classe politica. La questione della democrazia e dei diritti umani in America Centrale e nel Caribe è una questione drammaticamente aperta, dolorosa, ma limitare il discorso a Cuba è un errore grave. Infine la Comunitá Afroamericana in USA è una parte della Nazione che ha una sua storia e una sua cultura che sono ben definite e aspirazioni e rivendicazioni che ne configurano la fisionomia e questa comunitá si è formata come conseguenza della reazione dell’ambiente circostante al colore della sua pelle (in grandissima misura) e Obama non è mai stato parte di quella comunitá di quella storia e di quelle aspirazioni che sono oggettive e legittime ma le ha sfruttate per un proggetto politico suo e dei suoi mentori.
      Genseki

  7. Odifreddi è cosi, nel male come in questo pezzo e nel bene, che non è trascurabile. Ma c’è molto più buonsenso in quasi tutti i commenti. Governare un grande paese non è facile ed Obama è stato un buon presidente che ha cercato di gestire al meglio quanto hanno lasciato gli altri-economia, politica estera, servizi assistenziali- e in molti casi c’è riuscito.

  8. Ho letto il post di Odifreddi e ovviamente il titolo, che a dir la verità non mi è apparso scandaloso né razzista, semmai poco brillante. Non credo che chiamare Obama “il Bush nero” sia un modo per dargli addosso mobilitando il colore della pelle, semmai un modo per dargli del Bush e cioè del conservatore. Cornel West parla di “Obama’s Black face of the American empire” (le altre facce, le precedenti, essendo state bianche) http://www.salon.com/2014/10/05/cornel_west_the_state_of_black_america_in_the_age_of_obama_has_been_one_of_desperation_confusion_and_capitulation/1
    e non ci trovo niente di offensivo.
    Che il primo presidente afroamericano suscitasse enormi aspettative di rinnovamento e riforma a livello nazionale e internazionale – in larga parte disattese – proprio in virtù del suo essere un democratico afroamericano, mi sembra innegabile. In questo senso spesso le critiche a Obama partono da qui per dire un’ovvietà, e cioè che afroamericano non significa rivoluzionario e nemmeno necessariamente progressista (se Powell e Rice non fossero bastati) – e che democratico non significa necessariamente in totale rottura con le coordinate della politica statunitense inaugurata dal suo predecessore. Altrettanto innegabile il sentimento di delusione della popolazione afroamericana rispetto alla presidenza Obama, anche sulle questioni razziali (pensiamo al ferguson e al dopo ferguson) e proprio in virtù del fatto che da un presidente nero, giusto o sbagliato che fosse, ci si aspettava altro. Non si può far finta che la blackness di Obama non abbia avuto un ruolo importante nella costruzione della sua candidatura e poi del suo mandato, per i suoi sostenitori anche più che per i suoi detrattori, e in questo senso non mi pare strano che venga chiamata in causa nelle valutazioni del suo operato, non per dire “sbaglia perché è nero”, ma per dire, semplifico un po’, “non facciamo della afroamericanità una garanzia di progressismo, non cadiamo in automatismi”.

    Quanto al contenuto, io non capisco bene in che cosa consista ‘ il tabagismo rifondarolo’ di un post che sottolinea, nel momento in cui Obama annuncia la proposta di metter fine al bloqueo, la presenza tentacolare dell’imperialismo statunitense nel continente americano e il grottesco effetto che suscitano, oggi come sempre, le lezioni su democrazia e diritti umani impartite dal presidente degli Stati Uniti (se la menzione del ciclostile è un’allusione all’aspetto presumibilmente obsoleto del fare propaganda politica è un’altro discorso, che però stento a comprendere e a condividere da persona sciaguratamente ideologica e partigiana quale sono. chi fa politica ha familiarità con le copisterie, anche se il ciclostile è passato di moda).
    Vero è che il Todos somos americanos di Obama sul disgelo diplomatico meriterebbe di essere analizzato dettagliatamente (fin nei suoi accenti più grotteschi: “Proudly, the United States has supported democracy and human rights in Cuba through these five decades”. – “With the changes I’m announcing today, it will be easier for Americans to travel to Cuba, and Americans will be able to use American credit and debit cards on the island. Nobody represents America’s values better than the American people, and I believe this contact will ultimately do more to empower the Cuban people” ecc. ecc.). Trattandosi di un post molto breve Odifreddi dice poco, cioè non elabora un’analisi della congiuntura geopolitica continentale in cui avviene il disgelo e prescinde da un’illustrazione approfondita della situazione a Cuba (incluso il ruolo crescente conquistato dalla chiesa cattolica negli ultimi anni). Segnalo su questo un articolo di Jacobin di qualche tempo fa https://www.jacobinmag.com/2014/01/the-cuban-revolution/ e uno più recente https://www.jacobinmag.com/2014/12/cuba-castro-obama-embargo/ che riflette sulle possibili conseguenze della nuova apertura.

    • Jamila, solo una nota all’articolo di Cornel West che citi.

      West e’ un esponente di spicco della sinistra radicale nera, e penso che abbia cominciato ad accusare Obama di essersi venduto ai “bianchi” prima ancora che fosse eletto (se non sbaglio, diversi anni fa i due sono anche stati colleghi d’universita’). Liberissimo di farlo; concordo anche, tutto sommato, con alcune delle cose che dice, anche se mi pare piu’ bravo a indicare i problemi che a proporre soluzioni.

      Ma il richiamo al colore della pelle di Obama non e’ la stessa cosa se viene da un altro afroamericano (soprattutto se questi fa della “afroamericanita’” uno dei cardini del suo discorso) o da un giornalista e divulgatore italiano. Quindi il mio senso di ribrezzo per il titolo di Odifreddi rimane.

      Ciao :)

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