Scilicet! un esercizio di lettura per Claudia Ruggeri
di Giovanni Palmieri
Un poesia totalmente indecifrabile è una poesia sbagliata. Non è né bella né brutta. Semplicemente è sbagliata. Dove l’ermetismo del dettato e l’invalicabilità delle presupposizioni private siano totali si è in presenza di un testo che nega se stesso. Perciò poesie di tal fatta sono rarissime.
Tra l’oscurità e la trasparenza, tra Campana e Cardarelli, tra i ventagli di Mallarmé e il campanellino di Diego Valeri la distanza è enorme ma il cammino sarà comunque percorribile e ogni testo di ardua decifrabilità offrirà sempre al lettore sagace la possibilità di uno o più appigli decifrativi.
Solo che in poesia non si tratta di “decifrare” un senso univoco e codificato dall’autore ma di poter leggere o, ancor meglio, ascoltare quell’eccedenza di significazione che, per definizione, caratterizza il testo poetico ed travalica ogni volontà individuale lasciando trionfare il testo e la sua “inconscia” autonomia anagrammatica. Giuste le parole di Claudia Ruggeri che in un suo accenno metapoetico ma sofferto scrive che il suo demone creativo “scaccia / per la capienza d’ogni nome”[1]…
Molto ammirata ma pochissimo spiegata o capita, la poesia della Ruggeri (1967-1996) appartiene ad un moderno trobar clus e risulta pertanto di difficile lettura. Per queste ragioni fu accusata e, al tempo stesso, amata al di là dell’intelligenza vivida del suo dire. Un dire spesso imperativo e pochissimo ambiguo ma, ahimè, mal compreso se non del tutto incompreso. Il mito imbelle, questo, di un certo orfismo… “Mi piace perché non lo capisco”, aberrazione modernista d’un celebre paradosso tertullianeo peraltro riferito alla credenza nel Dio cristiano.
Propongo quindi ai lettori di “Nazione indiana”, che ha già ospitato alcuni testi di questa straordinaria poetessa salentina, un esercizio di lettura sopra la seconda poesia che compone la raccolta Inferno minore[2] che Claudia Ruggeri aveva preparato ma che sarà data alle stampe solo dopo la sua tragica e volontaria morte.
il Matto II (morte in allegoria)
Ninive[3]
“Tu ti dai pena per quella pianta di ricino (…) che in una
notte è cresciuta e in una notte è perita: ed io non dovrei
aver pietà di Ninive quella grande città…” (Giona 4, 10)
ormai la carta si fa tutta parlare,
ora che è senza meta e pare un caso
la sacca così premuta e fra i colori
così per forza dèsta, bianca; bianca
da respirare profondo in tanta fissazione 5
di contorni ò spensierato ò grande
inaugurato, amo la festa che porti lontano
amo la tua continua consegna mondana amo
l’idem perduto, la tua destinazione
umana; amo le tue cadute 10
ben che siano finte, passeggere
e fino che tu saprai dentro i castelli, i giardini
fiorire, altro splendore sai, altra memoria,
altro si splende si strega si ride, si tira
la tenda e libero si mescola alle carte; ma 15
i giardini si nascondono con precisione
dove cerchi la larva del tuo femminino e l’arresto
l’appartenenza inevitabile
all’Immagine all’inevitabile distensione
delle terre trascorse delle altre ancora 20
da nominare chiamarle una poli l’altra tutte
le terre perfette alla mente afferrata
di nomi che smodano scadono che portano
alla memoria o la stravagano.
(crescono ricini presso ninive
ecco, vedi, come sviene)
La prima sezione di Inferno minore, intitolata Il matto (prosette), contiene sei testi tutti dedicati alla carta dei tarocchi che rappresenta la follia. Va precisato che qui i tarocchi sono intesi come pratica cartomantica e non come gioco di carte. In una lettera ad Arrigo Colombo del 15 ottobre 1988, Claudia Ruggeri ha scritto che la “scrittura” “può iniziarsi” solo dopo che “l’inferno delle interrogazioni si è consumato” e solo dopo che il Matto è rimasto solo sul tappeto.[4]
Pertanto il Matto è figura allegorica alla quale il poeta si appella identificandosi solo parzialmente. Si tratta di un discorso che chi scrive rivolge alla figura allegorica ma anche a se stesso e al proprio “inevitabile” destino. I disturbi psichici profondi e socialmente invalidanti di cui la poetessa soffrì sino ad approdare agli sponsali lugubri della melanconia psicotica non sono ovviamente alieni dalla scelta di dialogare con questa e non con altra carta. Va però precisato che la raccolta poetica, dedicata a Franco Fortini, segna un consapevole e radicale cambiamento nella poesia della Ruggeri.
Apertura di significazione allegorica (“si fa tutta parlare”) e logorrea del Matto coincidono sin dall’inizio intrecciando nel testo il piano poetico con quello metapoetico. Ma guardiamo per un attimo la carta…
Nelle carte dei tarocchi il Matto è un girovago senza meta che tiene sulle spalle un fagottino strizzato con quelle povere cose che rappresentano allegoricamente l’insieme delle sue esperienze. Vaga incessantemente e senza destinazione in uno spazio vuoto, esterno alla realtà, in una specie di Limbo. Tra i colori del suo vestito, il bianco della sacca risalta… La Ruggeri ricorre qui, e non a caso, al sintagma “per forza dèsta” (Inf., IV, 3) con cui Dante indica il brusco risveglio dal suo torpore, prima di entrare nel cerchio del Limbo, dove incontrerà il castello dei grandi poeti. Il bianco è però un non-colore insostenibile, abbagliante e innocente ma perturbante.[5] Lo segnala la profondità di respiro (ritmo poetico) che induce il contrasto e la determinazione (“fissazione”) dei contorni (vv. 5-6). Parrebbe dunque un caso (vv. 2-3) la sacca poetica così compressa del poeta… Ma così non è. Non v’è caso, ma al contrario fissazione, acribia, determinazione e pensiero!
Detto questo – prima di analizzare il discorso rivolto al Matto che comincia al v. 6 con due vocativi e con la serie anaforica del sintagma verbale “amo” (vv. 7, 8, 10) – occorre dire che Claudia Ruggeri fu una viaggiatrice compulsiva con mete pretestuose o ossessive (Napoli) sino allo sfinimento nevrotico e alla rivolta contro se stessa e contro tale coazione. Questa nevrosi di fuga nutrì però larga parte della sua poesia precedente alla svolta costituita da Inferno minore. La nutrì ma anche la uccise e perciò andava uccisa. Come capiremo meglio in seguito.
“ò spensierato ò grande / inaugurato” (vv. 6-7) si riferisce al Matto invocato con un strano “ò” che vale “oh”. Nei tarocchi questa carta rappresenta, però, l’Arcano 0 e non ha valore numerico dato che è lo zero a porre tutti gli altri numeri che da esso derivano e ad esso tendono. Il Matto, che può sostituire ogni carta nel suo valore, rappresenta dunque allegoricamente sia l’unità del tutto (ogni numero motiplicato zero dà zero), sia l’energia primordiale e senza limiti di un nuovo inizio. È per queste ragioni che nel vocativo del testo va anche letto lo zero che identifica il Matto. Giusti altri versi di Claudia Ruggeri in cui possiamo leggere: “ero la ‘nulla’ / degli alfabeti in cifre, il segno / che non scatta”.[6] Ovviamente “inaugurato” è aulicismo di foscoliana memoria che significa “ripugnante”.
I versi che seguono (7-15) sono quasi trasparenti: del Matto chi scrive ama l’allegria portata lontano (cioè esagerata), il suo darsi (appartenere) agli uomini, il suo io perduto e la sua “destinazione umana”. La follia non è forse il destino dell’uomo? “L’idem perduto” in una prima redazione recitata del testo era banalmente “l’Eden perduto”.[7] Azzeccata pertanto la variante. È infatti evidente che, essendo kantianamente[8] l’io sempre uguale a se stesso (centro unificatore di tutte le rappresentazioni), possa anche essere validamente definito come l’idem. Del Matto si amano anche le sue cadute purché (“ben che”) siano finte e transitorie e finché lui saprà “fiorire” dentro ai castelli e ai giardini (quelli dei principi che amano i fool e quelli, danteschi, della poesia), allora potrà conoscere un diverso splendore, altri ricordi e altro riso. Potrà anche mescolarsi alle carte degli uomini e, “libero” (!), entrare nuovamente in gioco.
Ma… ma – e siamo al v. 15 – i “giardini” scompaiono quando il Matto va in cerca della “larva del suo femminino” e cioè, fuor di metafora, della Morte. L’altro grande Arcano dei tarocchi…
I giardini e la poesia si sottraggono quando il Matto va in cerca dell’arresto definitivo del suo vagare appartenendo così sempre di più all’immagine (“inevitabile”) della morte. I giardini si nascondono anche quando il Matto cerca di appartenere al passato di terre già percorse o di terre ancora da richiamare alla memoria in una perniciosa ossessione mentale. Parentesi: Claudia Ruggeri nacque a Napoli nel 1967 da madre napoletana e padre leccese. All’età di un anno fu portata a Lecce dove visse sino alla morte. Napoli, però, divenne progressivamente per lei il fulcro ossessivo di un elaborato “romanzo famigliare”. A Napoli tornò spessissimo costruendosi anche falsi ricordi infantili e la città campana si trasformò nel palcoscenico eidetico di moltissime poesie. Napoli divenne insomma il catalizzatore di un insieme di “nomi che smodano scadono che portano / alla memoria o la stravagano” (vv. 23-24). La poetessa divenne così la sposa barocca di Napoli e la sua poesia una fastosa celebrazione liturgica.[9] Sino a quando, stanca di questa sudditanza, decise di uccidere quella simbiotica parte di sé. Nella citata lettera ad Arrigo Colombo, aveva infatti scritto: “lontano da Sanfelice delle scale [il Palazzo Sanfelice di Napoli] devo fingermi cose che crescono e muoiono lontano da Napoli, l’unica maniera possibile per bloccarla perché mi muoia per raccontarla, l’unico possibile suicidio si celebra nella distanza; le darò un ricino, apici e animali che spuntino l’ombra in una sola ora… così Dio apprese a Giona la distruzione”.[10] Ancora nella poesia napoli l’ebbi strana ed il porto / e le sbronze testuali,[11] che riprende interi versi del testo che stiamo analizzando, possiamo leggere: “parlò così la sposa la distanza / che per ultimo lutto le diedi i modi esatti del poeta”.[12] Cioè proprio la nostra poesia.
Nel v. 21 (“…chiamarle una poli l’altra tutte”), quel “poli” potrebbe sembrare un refuso per “poi”. Ed in effetti in una prima redazione recitata della poesia il verso diceva “poi”. Non si tratta però di un refuso ma di una variante in cui, per disseminazione del significante, viene intenzionalmente occultata la città di Napoli: una poli = napoli.
Sempre nella prima redazione gli ultimi versi della poesia dicevano: ” – CRESCONO ORIGINI PRESSO / NINIVE – Ecco / vedi / come sviene!”.[13] Così se Ninive è Napoli e il ricino cresciuto nelle sue vicinanze è la stessa Ruggeri identificata in una sua prima e originaria maniera poetica, ciò che si legge nell’attuale distico finale in parentesi è la necessaria morte (“sviene”) di quel ricino. Il lettore deve “vederla” proprio leggendo la poesia che ha sottocchi. Una morte necessaria a che viva un’altra poesia. Una conclusione ellittica questa che, però, non fa dimenticare quanto il testo dice prima in chiave confessional e cioè che quando Matto si avvicina troppo alla morte, si estranea dai giardini della poesia e infine da tutto… Scilicet!
[1] Claudia Ruggeri, il Matto I (del buco in figura) Beatrice, in Ead., Inferno minore, a cura di Mario Desiati, peQuod, Ancona 2006, p. 85, vv. 4-5.
[2] Claudia Ruggeri, Inferno minore, cit.
[3] Ivi, pp. 87-88.
[4] Vedila nel sito ufficiale di Claudia Ruggeri: http://www.claudiaruggeri.it/testi/claudia%20ad%20arrigo%20colombo.pdf
[5] L’epigrafe preposta ad Inferno minore dice: ” ‘Sebbene in diversi stati d’animo l’uomo si compiaccia di simboleggiare col bianco tante cose delicate o grandiose, nessuno può negare che nel suo profondo ideale significato la bianchezza evochi nell’anima come uno strano fantasma…’ (Hermann Melville, Moby Dick)”.
[6] Inferno minore, cit., p. 117.
[7] Vedila in http://www.musicaos.it/testi/maggio/matto2.htm
[8] Ma non freudianamente…
[9] Si veda ad esempio la poesia lamento della sposa barocca (octapus), in Inferno minore, cit., p. 109.
[10] Cit. qui alla nota 4.
[11] In Inferno minore, cit., pp. 134-135.
[12] Ivi, p. 134.
[13] Vedi qui alla n. 7.