Miti Moderni/7: l’uscita di scena

di: Francesca Fiorletta

Francesca Woodman
Francesca Woodman

Una vera specialità, nei film: la scelta, sublime, dei tempi.

Smettere di parlare, spiegare, giustificarsi, indagare, approfondire, sviscerare tematiche e situazioni, estrapolare sentimenti e paure, speranze e delusioni, preconizzare e verbalizzare e dissimulare e arrivare persino alle mani, troppi lividi bui, le borse sotto gli occhi, lo spigolo dell’armadio, e poi chiedersi scusa, ancora mi dispiace, e piangere e gridare e mordersi le orecchie e fare l’amore e perdonarsi e straziarsi, più forte ancora, ancora più in alto il braccio, ogni volta è peggio, ogni giorno è più lontana, la fine del film, i titoli di coda che ancora mancano, l’assistente alla regia è un soggetto clinicamente depresso, di stazza bipolare, riscontrati evidenti disturbi della personalità.

Restiamo tutti qui, allora, una platea comoda, rimandiamo un’altra falsa partenza, giocherelliamo con le dita, tiriamoci i capelli, prendiamo l’ultima parola, attenti ai divieti, un altro piatto è stato rotto, nella colluttazione, riempiamolo di aria fritta, per favore, a portar via.

Ma l’uscita di scena, no. È pura calma, l’estasi idiota.

Non un minuto prima del necessario, non un attimo dopo, sogni l’uscita perfetta, a prima mattina, quella che scurrile ti abbaglia, e poi ti lascia senza fiato, delicata; è un monito serissimo, memento mori, l’istinto alla vita, l’unico reale insegnamento che valga davvero la pena di seguire, i ricordi dell’infanzia, una musica di sottofondo, il compromesso accettabile:

“but with you my dear /
I’m safe and we’re a million miles away.”

Tanto più facile, irrompere di straforo nelle vite altre, altre esistenze da rivoltare, palesarsi di netto, non voluti, indesiderati perfino, piuttosto che fuggire, abbandonare il campo, dissolversi nella nebbia, schiantarsi contro un albero, allontanarsi furtivamente, disertare la battaglia, mancare di proposito la meta, sciogliersi alla fine da tutti i grumi di quel biancore nostalgico; resta un residuo organico e opalino sul letto di cartone, quando ormai s’è ossidato, insieme ai cuscini antichi che viaggiano controcorrente.

E così semplice approdare, prendere piede, trovare posto, acclimatarsi in una situazione familiare, già saputa, per quanto scomoda, eppure amata, languida, infinitamente naturale, come un gesto complice, l’invito segreto a visitare un attico dorato di città, fai risuonare tante volte il campanello, recita un gemito sudato, e poi rispondi allo squillo di un telefono, la cara madre, ascolta le raccomandazioni infinitesimali, trova la voglia di fare quattro chiacchiere, metti la biancheria in valigia, sai perdere tempo con la cornetta fra i denti, ma all’improvviso il tono cambia, resta un sussurro a stento: tuo padre ha fatto la visita dall’oncologo.

E zitta la ventola, zitti i piccioni, zitte le scale a pioli e le buste da lettere a cottimo, brucia il risotto ai funghi porcini sui fornelli dell’artista, si spande un odore acerbo di minestrina sfatta, dal sofà; si sente solo la bocca dello stomaco che preme acida, niente da dichiarare, il ritorno a casa in mezzo a tutti quei cerotti, nemmeno restano più dritte le gambe. Purché non sia vero.

Le uscite di scena non sono (mai state) un problema.

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