Articolo precedente
Articolo successivo

Passioni a confronto. Mario Mieli e le lesbiche femministe

di Simonetta Spinelli*

 

mieli

 

Una passione incontrollata, eccessiva, ironica, spietata. La passione di Mario Mieli e la passione delle lesbiche femministe. Eppure, rileggendo oggi, dopo più di venti anni, Elementi di critica omosessuale, mi ritrovo a pensare che, malgrado ciò, negli anni ‘70 non era possibile un incontro. E che un incontro è, oggi, possibile anche se conflittuale. Ma la conflittualità non è solo inscritta nelle teorizzazioni di Mieli. Ha origine anche in una passione – la nostra – che non poteva/non voleva essere abbastanza ironica e, soprattutto, abbastanza spietata.

Tra le lesbiche femministe e Mario Mieli ci sono stati – e restano – punti di contatto: ipotesi appena accennate che non sono state esplorate fino in fondo, e che, proprio per questo, hanno subito evoluzioni pacificanti e normalizzanti; critiche lasciate cadere che oggi sono divenute barriere o fossati. E una distanza che non è stata costruita dal tempo. Il tempo ha, se mai, attenuato i contrasti e le rigidità.

Vista da lontano, la gabbia dell’utopia rivoluzionaria di Mieli ricorda – anche se le donne erano infinitamente più critiche e disilluse, abituate da sempre alle cadute dei “rivoluzionari” nella quotidianità – certe contorsioni di doppia militanza, tra collettivi e partiti, o gruppi extraparlamentari, di cui soffriva metà del movimento femminista. Osservato da oggi, il suo spregiudicato utilizzo della psicanalisi riecheggia certe critiche del primo femminismo, costruite come un mosaico in cui si infilavano le tessere, in ragione della loro forma, indipendentemente dalla provenienza, mescolando stili e colori. Se il superamento dell’Edipo era un’ossessione comune, analisi sistematiche sono venute molto tempo dopo.

Non è stato il tempo a costruire distanza. Nè il disconoscimento del dibattito femminista che Mieli seguiva attentamente, con una disponibilità intellettuale e un’apertura rara negli anni ’70, quando anche la sinistra – più o meno ufficiale – oscillava tra la condiscendenza, la sintesi approssimativa e la volgarità, che scaricava equamente sulle donne e sugli omosessuali (come in Elementi di critica omosessuale è ripetutamente sottolineato).

Per Mieli il movimento delle donne – le lesbiche in particolare – che aveva messo in luce le stratificazioni dell’oppressione patriarcale di sesso oltre che di classe, e la loro origine comune, e ricollocato al centro del dibattito la politicità del personale, rappresentava l’avanguardia della rivoluzione da costruire: “se davvero credessi nelle avanguardie, direi che l’avanguardia della rivoluzione sarà composta da lesbiche” (p.119). Del femminismo – dalla cui radicalizzazione era stato influenzato, a suo avviso, negli USA come in Europa, il nascente movimento gay – pensava si dovessero mutuare le pratiche (l’autocoscienza, il partire da sé). Pratiche che, mettendo in luce il singolo caso di oppressione, permettevano di cogliere, nello stesso tempo, le implicazioni patriarcali e la parzialità della norma, ma anche ciò che dal sistema codificato restava fuori e che, negato, ne rappresentava l’eccesso. Un eccesso da cui si poteva partire per ipotizzare, oltre il modo di produzione capitalistica, un’economia altra, un’economia del margine.

Mieli conosceva le teorizzazioni femministe. Citava in continuazione gli scritti delle femministe milanesi che apparivano sul periodico “L’Erba Voglio”. Le sue analisi sul collegamento tra subordinazione femminile, finalizzazione della sessualità alla riproduzione, oggettualizzazione della donna, e l’impotenza camuffata da virilismo violento da parte dei maschi etero, come espressione di un “Eros mutilato”, ricalcava molte analisi dei collettivi femministi romani [1]. La sua lettura dei cosiddetti atteggiamenti virili dei maschi etero – “il fanatismo patriottico rappresenta un’espressione convertita di desiderio omosessuale” (p.106) ; “il cameratismo maschile è la messinscena grottesca di un’omosessualità paralizzata e inasprita che si coglie […] dietro la negazione della donna” (p.107) ; “Il virilismo non è altro che l’ingombrante introiezione nevrotica, da parte dell’uomo, di un desiderio omosessuale per gli altri uomini fortissimo e censurato”(p.108) – risentiva delle teorizzazioni delle femministe francesi del gruppo parigino “Psychanalyse et Politique”, che rimbalzavano in Italia dalle registrazioni degli incontri internazionali e locali pubblicati dal periodico dei gruppi femministi milanesi, “Sottosopra”: “La sessualità che c’è oggi è pederasta nel senso del rapporto maschile e basta […] è un rapporto pederasta perchè è funzionale all’uomo”[2]; “tutti gli investimenti, tutta la cosa [il rapporto sessuale etero] partiva da un investimento omosessuale fatto dall’uomo su se stesso e lui prestava a me gli strumenti perché io potessi riconoscergli una sessualità, ma era […] il suo desiderio che mi offriva, le sue fantasie […] [tutto] veniva dal desiderio omosessuale dell’uomo che ci chiedeva di sostenere la sua sessualità, il suo investimento sul suo corpo…”[3].

Che Mieli conosca e condivida le teorizzazioni femministe non è sufficiente a costruire incontro. Anzi, proprio da qui ha inizio la distanza. Per quanto egli affermi più volte che l’omosessuale non è necessariamente al di fuori della logica fallocratica, e che l’equivalenza tra oppressione delle donne e oppressione dei gay sia una riduzione semplicistica, egli attua – inevitabilmente e inconsapevolmente – una serie di semplificazioni. Interpreta, infatti, la pratica dell’autocoscienza, del partire da sé, come indispensabile mezzo di svelamento dell’oppressione di sesso. Oppressione che ha la stessa radice dell’oppressione attuata dalla norma eterosessuale, evidenziata dalla discriminazione e dalla violenza contro i gay. Ma le pratiche del movimento femminista, mentre svelavano dinamiche di oppressione, erano fondamentalmente strumento conoscitivo, invenzione di linguaggio, riappropriazione di corpo e, soprattutto, creazione di rapporto: “ il nostro rapporto con le altre donne, l’imprevisto della storia che il nostro movimento ha messo in atto”[4]. Per il femminismo più critico e attento, al di là delle proposte puramente rivendicative, la sfida è stata abitare/costruire uno spazio che, pur in bilico tra l’adesione ai modelli dati e l’estraneità verso gli stessi, sapesse coniugare la fedeltà a sé, alla propria singolarità – e l’appassionamento a sapersi – con la necessità di appartenenza come legame simbolico e politico con le altre donne [5].

Questo “imprevisto della storia” Mieli – peraltro in ottima compagnia – non lo vede. Il rapporto personale/politico è per lui un rapporto personale/pubblico. Ha un’immediata ricaduta nel pubblico, dove il maschio è storicamente l’unico soggetto visibile da sempre, per omologazione o per contrasto, perché è all’interno di un codice dato, costruito su/da un sistema di complicità maschile. Quando Mieli ipotizza una rivoluzione che scompagini, a partire dalla denuncia e dalla messa in evidenza di quanto dal codice è sanzionato, rivendica la piena titolarità nei confronti di uno spazio che già abita, pur pagando prezzi altissimi. La stessa reazione brutale, soprattutto contro il gay manifesto – come Mieli osserva -, è reazione tutta interna ad un’appartenenza consolidata, sia pure – o proprio per questo – violentemente espressa in termini contrappositivi. E’ l’inclusione nel sistema di complicità che impone la sanzione.

L’esclusione dal sistema codificato di complicità individua, di contro, un’irrilevanza. Non a caso, nei primi anni ’70, le rivendicazioni femministe venivano liquidate con un irritato “Tanto sono tutte lesbiche”. Frase consuetudinaria che tendeva a ridurre all’insignificanza tutte le femministe, relegandole in un ambito di minoranza marginale e acritica, e a cancellare due volte l’esistenza concreta di quelle donne che erano lesbiche. Mieli – e fu uno dei motivi per cui il suo saggio passò quasi clandestinamente tra le femministe lesbiche – fa l’operazione inversa: parla di femministe e di lesbiche, da una parte sottolineando la portata rivoluzionaria del pensiero lesbico, dall’altra separando nettamente le lesbiche dalle femministe. Allora, tale ripetuto distinguo fu letto come una definizione: tutte le femministe sono etero. Ma questo era inaccettabile in un periodo storico in cui, in Italia, la maggior parte delle lesbiche politicizzate convergeva nei collettivi femministi e contribuiva a costruire pensiero femminista. Le parole di Mieli furono lette dalle lesbiche femministe come un ennesimo tentativo di ricacciarle nell’invisibilità o di darle per scontate, omologandole acriticamente ai gay, proprio nel momento in cui costruivamo complicità e appartenenza con le altre donne.

L’analisi di ieri si scontra con la rilettura di oggi. Viene da chiedersi – e qui entra in gioco la passione di Mieli, che riusciva ad essere spietata, anche nei confronti dei gay, come la nostra non poteva/non voleva essere nei confronti delle donne – se quella distinzione non fosse anche frutto di una lungimiranza politica. Ci si domanda cioè se Mieli, che conosceva da vicino – per frequentazione diretta il movimento inglese, per conoscenza della lingua i testi americani e delle lesbiche radicali francesi – le esperienze di altri paesi in cui, fin dalle origini, i collettivi lesbici e i collettivi femministi si erano separati, e che subiva sulla sua pelle la difficile convivenza dei gay con i gruppi della sinistra extraparlamentare, non avesse intuito che, a lungo andare, una separazione si sarebbe prodotta e avrebbe costretto le lesbiche femministe a una rottura di fatto, non voluta, non detta, ancora non del tutto analizzata, ma irrimediabile.

Perché questo è successo, rendendo problematica quella complicità fra donne a tutto tondo che volevamo costruire[6]. Quando il discorso sulla sessualità – che era stato la nostra forza – ha evidenziato differenze di pratiche e di vite che si riverberavano sull’analisi politica, le stesse differenze sono state ridotte all’irrilevanza e al silenzio, in nome dell’unità e della differenza di genere. E, parallelamente, il discorso sulla sessualità è stato chiuso.

Se si cerca di risalire al momento in cui questa frattura ha iniziato a prodursi, il testo di Mieli torna di grande attualità. Egli, infatti, denunciava, con la solita spietata passione, la teoria – elaborata all’interno del movimento femminista e che aveva avuto ricadute nei gruppi extraparlamentari – della omosessualizzazione dei rapporti tra donne. Tale teoria – solo abbozzata negli anni ’70 e che più tardi, nel 1980, sarà sistematizzata e articolata da Adrienne Rich nel “continuum lesbico” [7] – rappresentava un tentativo di superare le divisioni tra lesbiche ed eterosessuali che si dicevano indotte dalla cultura maschile, riportando i diversi percorsi di ricerca dell’identità sul terreno comune della soggettività femminile, individuata attraverso la pratica del partire da sé.

La proposta – rifiutata con pesanti polemiche da molte lesbiche femministe, ma da altre appassionatamente condivisa – viene da Mieli tacciata di volontarismo e giudicata mistificatoria. Egli denuncia, a più riprese, l’ambiguità di un discorso che, mentre sembra attuare una ricomposizione, azzera l’omosessualità – sia femminile che maschile – riducendo a pratica intellettualistica una pratica di corpi e di desideri.

Lo stato della questione non sembra da allora essersi sensibilmente spostato. Se si esclude lo sforzo appassionato di teoriche che lavorano in altri paesi9, sforzo che peraltro cade nella palude nostrana con scarsissimi riscontri sia tra le lesbiche che tra le etero, di corpi e di desideri in Italia si parla il meno possibile.

Il saggio di Mieli è tutto incentrato sulla teoria della transessualità come liberazione dell’Eros, superamento in una nuova sintesi delle categorie oppositive etero-omo, espressione di una polisessualità originaria, repressa dalla norma, che, finalmente disinibita, permetterebbe il transito del desiderio sia verso gli oggetti che nel soggetto. Il soggetto transessuale, in quest’ottica di superamento della polarità dei sessi, esprimerebbe il nuovo uomo/donna “o assai più probabilmente donna/uomo” (p.236) della riconquistata “comunità umana”.

E qui, prima di discutere delle perplessità che la teoria ha suscitato – e continua in parte a suscitare – è opportuna una premessa: l’approccio al suo testo è reso particolarmente difficile e conflittuale anche per un residuo di perbenismo che aleggiava – e aleggia – sul femminismo (lesbiche femministe incluse). Ancor oggi, rileggendo Elementi di critica omosessuale, mi ritrovo a fare i conti con la mia suscettibilità e con le mie cadute di ironia, faticosissime da superare. Mentre Mieli il perbenismo non sa dove stia di casa ed è molto difficile che perda l’ironia.

Mieli, ricollegandosi a Freud, e forzandolo –ma altre/i ne parleranno con maggior cognizione di causa – vede nel polimorfismo perverso pre-edipico lo stato originario di natura che “l’educastrazione” reprime e che la rivoluzione erotico-politica (politica perché erotica) deve portare allo scoperto. Come il polimorfismo perverso ha in sé tutte le possibilità dell’Eros, la transessualità, nel senso di Mieli, sarebbe lo stato naturale liberato in cui tutte quelle potenzialità vengono simultaneamente espresse e attualizzate.

All’epoca della pubblicazione del saggio, la critica non si appuntava sulla transessualità come stato di natura, perché la “natura” era utilizzata a vagoni anche dalle femministe. Negli anni ’70, infatti, anche se vi erano frange di movimento che elaboravano altri percorsi teorici, la “natura” era una specie di coperta tirata da tutte le parti. Ciò che faceva ostacolo è la riduzione all’Uno. La transessualità liberata che, nella visione di Mieli, doveva rappresentare il superamento della polarizzazione tra i sessi, veniva letta come un’ ennesima eliminazione delle donne che avevano appena conquistato la consapevolezza di essere il soggetto cancellato della storia. Il transessuale di Mieli – uomo/donna o donna/uomo che fosse – poteva solo essere visto nell’ottica della secolare ossessione del maschile di ridurre tutto all’unità. A questo si aggiunge un’altra contraddizione interna all’analisi di Mieli, il quale, dopo aver criticato – acutamente – la mistificazione implicita nel discorso dell’omosessualizzazione dei rapporti sociali, che riduceva il desiderio ad atto intellettualistico e volontaristico, ripropone, sia pure ai fini rivoluzionari del superamento di sè come della norma, un altro volontarismo. Se io lesbica so che il corpo del mio desiderio è una donna – così come un gay sa che il corpo del suo desiderio è un uomo -, come si dovrebbe definire, se non intellettualistica e volontaristica, la scelta di sperimentare rapporti sessuali non in sintonia con il mio desiderio?

Il fascino di Mieli, malgrado le contraddizioni che nel suo saggio restano irrisolte, consiste ancora oggi in un pensiero che riesce simultaneamente a essere lucido e visionario, e a volte lucido proprio perché visionario. Ad esempio è tutta interna alla sua analisi totalizzante la consapevolezza che l’oppressione di classe, di sesso e di razza abbiano la stessa matrice. Una consapevolezza che negli anni ’70 non esisteva, tutte/i presi come eravamo a raccontarci la favola degli “Italiani brava gente”, poi smentita dal primo sbarco di immigrati nel territorio nazionale. E per noi lesbiche, in particolare, dal primo impatto con il vissuto, le pratiche, le analisi delle lesbiche nere statunitensi.

Alla lucidità di Mieli va ascritta un’altra consapevolezza che il movimento gay e la maggioranza delle lesbiche non riescono ancora oggi ad acquisire e che anzi respingono: una minoranza o è oltraggiosamente diversa o non è. La minoranza che sostituisce all’orgogliosa affermazione di sé l’affanno di essere assimilata e che ricerca il mimetismo, rincorre l’adeguamento alla norma, media al ribasso per un posto nel grande circo dell’inclusione, di fatto contribuisce alla sua cancellazione o si lascia inchiodare nel ruolo – minoritario – di eccentricità culturale.

Mieli considerava il mondo un luogo suo, un luogo dove la perdita di ogni esperienza avrebbe rappresentato perdita per tutti. Da qui la sua critica continua, ossessiva, contro la tolleranza, che interpretava come mistificazione pacificatoria che avrebbe lasciato inalterata la struttura di potere che sottende i rapporti sociali, e avrebbe, in nome di un’eguaglianza presunta, impedito la costruzione di un pensiero sincretico che contenesse in sé la potenzialità, la forza di tutte le diversità. In quest’ottica, era ostile ad ogni richiesta che tendesse a sistemare il movimento gay sotto l’ombrello protettivo dei partiti o delle organizzazioni non esplicitamente omosessuali, come alla richiesta di diritti civili che allora si andava formalizzando e che interpretava come sconfitta dell’orgoglio gay in nome di una generale eterosessualizzazione.

Eterosessualizzarsi per Mieli significava reprimere l’eccesso di una passione smisurata – la sua visionaria, ironica passione – nell’argine difensivo di un codice ampliato ma non stravolto, quindi sostanzialmente immutato nelle sue dinamiche binarie di inclusione/esclusione. Significava ridurre la visione di un desiderio liberato alla contraddizione in termini di un’economia della miseria. E Mieli, che voleva essere il funambolo sospeso su fili infiniti e tutti li voleva percorrere, non poteva ipotizzare la sua vita, la sua passione, precipitate sul terreno piatto della normalizzazione.

E’ la lucida, spietata intolleranza che rende ancora attuali le sue pagine. Oggi che siamo di fronte ad uno scenario in cui la voglia di integrazione è quasi l’unica protagonista, e ci chiediamo, ancora una volta con una caduta di ironia, se era questo l’esito verso cui tendeva la nostra passione.

 

Note

[1] Cfr. Movimento Femminista Romano (MFR) di Via Pompeo Magno, Sessualità maschile – perversione, Volantino del giugno 1973, in Donnità, a cura di MFR, Roma, 1976.

[2] Dalla registrazione di una discussione collettiva, Domenica 12 novembre [1972], dopo l’incontro a Chateau Vieux-Villez (27 ottobre – 1 novembre 1972), in “Sottosopra”, Le esperienze dei gruppi femministi in Italia, Milano, [1973], p. 35.

[3] Il corpo politico (registrazione di un incontro tra i gruppi femministi a Milano, 1-2 febbraio 1975), In “Sottosopra”, Sessualità procreazione maternità aborto, Milano, 1975, p. 11. Si è preferito qui citare stralci di dibattiti di movimento, piuttosto che teorizzazioni più elaborate, per evidenziare come i termini del dibattito francese fossero diventati patrimonio comune e fossero dati già dal 1973 per acquisiti.

[4] In “Sottosopra”, 1975, cit. p. 4.

[5] Alla fine degli anni ‘ 70 i concetti qui espressi erano frammentari. Una trattazione più organica si avrà in seguito: cfr. “DWF”, Appartenenza, 1986,4, Editoriale, pp.5-10

[6] Frattura che sarà polemicamente sottolineata, già nel 1980, da Monique Wittig con il suo provocatorio “Le lesbiche non sono donne”. M. Wittig, The Straight Mind, in “Feminist Issues”, n. 1 (Estate 1980), trad. it. di R.Fiocchetto, in “Bollettino del CLI”, IX (Febbraio 1990).

[7] A.Rich, Eterosessualità obbligatoria ed esistenza lesbica, trad. it. M.L. Moretti in “nuovaDWF”, 1985, 23-24, p. 5. Rich scrive: “Per continuum lesbico intendo una serie di esperienze – sia nell’ambito delle vite di ogni singola donna che attraverso la storia – in cui si manifesta l’interiorizzazione di una soggettività femminile e non solo il fatto che una donna abbia avuto o consciamente desiderato rapporti sessuali con un’altra donna”.

[8] In particolare v. T. de Lauretis, The Practice of Love. Lesbian Sexuality and Perverse Desire, Indiana University Press, 1994 [trad. it. Pratica d’amore. Percorsi del desiderio perverso, Milano, La Tartaruga, 1997].

– – –

* Questo articolo è stato pubblicato originariamente in Mario Mieli, Elementi di Critica Omosessuale, Milano, Feltrinelli, 2002, pp.313-320. Ringraziamo l’autrice, che l’aveva riproposto sul suo blog, per averci permesso di postarlo su NI.

Print Friendly, PDF & Email

6 Commenti

  1. Grazie Sara. Sto pensando di ripubblicare una serie di scritti di Simonetta di qualche anno fa, perché non solo scrive molto bene e appunto appassiona, ma trovo le sue “considerazioni inattuali” attualissime.

I commenti a questo post sono chiusi

articoli correlati

Oh my bike! Ruote, caucciù e colonie

Come per incanto le ruote delle biciclette dischiudono il sipario degli imperi coloniali.

Per una critica delle evidenze: il femminismo materialista di Christine Delphy

di Marcella Farioli È stato tradotto di recente da Deborah Ardilli il volume di Christine Delphy, L'ennemi principal. 1. Économie...

Belfast città divisa

di Jamila Mascat
Li chiamano muri della pace (peace walls o peace lines), perché quando vennero eretti dall’esercito britannico dopo gli scontri dell’agosto 1969 che inaugurarono i troubles tra unionisti protestanti filo-britannici e repubblicani...

Un corpo che si chiama desiderio. Wittig ritradotta

di Jamila Mascat
VandA ha recentemente ripubblicato Il corpo lesbico di Monique Wittig nella traduzione di Deborah Ardilli, che ne ha anche curato l'introduzione. Qui di seguito l'incipit dell'introduzione e del libro.

Aspettando Pasolini a Ouarzazate

di Jamila Mascat
A duecento chilometri a sud-est di Marrakech - duecento lunghi chilometri che attraversano le montagne dell’Atlante centrale d’inverno ricoperte di neve – si trova Ouarzazate, capoluogo dell’omonima...

Il disagio della decolonizzazione. Intervista a Wayne Modest

di Jamila Mascat
Giamaicano d’origine, olandese d’adozione, Wayne Modest è docente di Critical Heritage Studies alla Vrije Universiteit di Amsterdam e direttore del Nationaal Museum der Wereldculturen, un complesso che...
jamila mascat
jamila mascat
Jamila M.H. Mascat vive a Parigi e insegna presso il dipartimento di Cultural Studies dell'Università di Utrecht, in Olanda. Si occupa di filosofia politica e teoretica, marxismo contemporaneo, critica postcoloniale e teorie femministe. Nel 2011 ha pubblicato Hegel a Jena. La critica dell'astrazione. Ha co-curato Femministe a parole (2012); G.W.F. Hegel, Il bisogno di filosofia. 1801-1804 (2014); M. Tronti, Il demone della politica (2017); Hegel & Sons. Filosofie del riconoscimento (2019); The Object of Comedy. Philosophies and Performances (2020); A. Kuliscioff, The Monopoly of Man (2021).
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: