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La scelta dell’imam, la fine della lingua e la rivoluzione/2

di Antonio Montefusco

dante

M. Toninelli, Dante, La Divina Commedia a fumetti, 2015

[Qui la prima parte di questo contributo]

4. L’intreccio mortale tra Stato Nazione e Lingua è, si sa bene, un’invenzione: si tratta di un paradigma che si è intrecciato con l’idea di progresso tecnologico, e ha, talvolta, sforato il limite della dialettofobia. Ma se il Risorgimento, e in generale la cultura ottocentesca, ha incorporato l’intreccio come costitutivo dei nuovi spazi di indipendenza, è evidente che in Italia l’intreccio tra questioni linguistiche, problemi letterari e ossessioni politiche, sono assai difficili da sbrogliare. Nella forza normativa del De vulgari dantesco è presente una spinta – scoperta molto tardi in una maniera piena di fraintendimenti, com’è noto – la precisa individuazione dell’istituzione (la curia, la corte, la città di Firenze, la nazione) come elemento di ordinamento linguistico. Questo gesto anticipatore del giacobinismo linguistico, però, convive non solo con l’incompiutezza (il De vulgari eloquentia non fu mai terminato) ma anche con una prassi linguistica del tutto opposta nella Divina Commedia. Il paesaggio letterario italiano si disegna come un campo di tensioni irrisolto, nel quale l’artificialità del progetto nazionale si fonda su un ancora più artificiale progetto linguistico, che cova in sé le controspinte alla monoliticità della lingua. La celebre linea Dante-Gadda è stata un pungolo eversivo, che ha contribuito a fare della storia italiana l’esempio di una modernità linguistica alternativa. Vale la pena di chiedersi se questa constatazione si debba limitare al quadro letterario, o invece abbia influenzato la realtà dei parlanti della nostra epoca. A mio parere, la risposta è affermativa.

Bisogna ricordare che i linguisti, e in particolare, i sociolinguisti non credono all’esistenza di spazi “monolingui”: la situazione di un territorio in cui si parla una sola lingua è sempre meno una realtà e sempre più un’utopia che non resiste all’usura dell’analisi diretta. Allo stesso tempo, quella spinta all’unificazione e standardizzazione che Pasolini descriveva come incipiente morte dei dialetti, in realtà non si è verificata: quello che è successo, invece, negli ultimi anni è un deciso percorso di acclimatazione del dialetto accanto alla lingua standard come strumento di ampliamento delle risorse stilistiche ma anche semantiche. Questa tendenza alla compresenza del dialetto come integrazione dell’italiano è molto significativa (si vedano soprattutto le ricerche di Sobrero a proposito del post-italiano). Allo stesso tempo, gli studi sull’immigrazione dimostrano che le comunità straniere hanno, in Italia, una fortissima propensione all’integrazione linguistica, addirittura limitando l’uso dell’interlingua intermedia alla fase di apprendimento: non sembrano, per ora, crearsi dei pidgin (Matteo Gomellini and Cormac Ó Gráda, Outward and Inward Migrations, 2010: consultabile on-line https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/quaderni-storia/2011-0008/QESn_08.pdf).

Ciò significa che è molto difficile concepire, per ora, fenomeni di creolizzazione e métissage in un contesto di migrazione come quello italiano, dove le provenienze sono le più disparate (sono attestate più di 200 origini differenti); bisognerà forse aspettare le seconde generazioni per vedere lo sgonfiamento di meccanismi di prestigio culturale che hanno le loro conseguenze anche sul linguaggio; e tuttavia, il quadro linguistico italiano sembrerebbe meno affetto da una tendenza oppressiva e coloniale di ritorno come quella francese ma semmai intrinsecamente plurilingue –in senso spiccatamente linguistico e non solo letterario – perché intrinsecamente memore di essere stata, in molti luoghi dell’altrove della migrazione, lingua minore. L’esperienza dell’immigrazione, dunque, praticata dal parlante italofono può assurgere a strumento di ospitalità linguistica se nell’italiano permane uno statuto di lingua materna minore?

5. Il quadro che ho definito sopra – la tensione fra una nazione fondata sulla letteratura e una letteratura intimamente eversiva perché plurilingue – sembra modificarsi oggi. Se si analizza qualche linea della letteratura contemporanea si può trovare un corrispettivo di quanto avviene nel cinema: diminuisce la dialettofobia, e si procede dunque verso un superamento della diglossia gerarchica fra un High Level del linguaggio e un Low level dialettale e verso un più compiuto bilinguismo consapevole. Ma per realizzare questo, si va forse verso un superamento della sperimentazione stilistica che si poteva saggiare in Gadda e altri, dove comunque il pluristilismo è una polemica non priva di tratti elitari (lo può leggere Gadda un immigrato italofono?). Oggi si intravede una apertura dell’italiano a un suo uso “minore” o comunque ospitale. Si tratta della realizzazione e dell’aggiornamento di un’altra linea tradizionale e alternativa della nostra storia intellettuale, che si è incentrata sulla traduzione (da altre lingue) come costruzione di corridoi culturali che puntano a superare barriere e rimossi.

In altri termini, autori-cerniera come Luciano Bianciardi (e in parte, i poeti-traduttori come Fortini e Sereni) assurgono a esempio di attualità più di Pasolini. L’inquietudine di Bianciardi è vissuta nella figura di frontiera del traduttore, essenza del lavoro culturale contemporaneo e della sua riproducibilità: ma anche agente dispersivo del linguaggio letterario conformistico. Non è un caso se sono le traduzioni ad essere le ossessioni notturne del lavoratore intellettuale, che, scrittore ai margini dell’establishement e della lingua, cerca e non trova una pacificazione:

«Certe notti quando non riesco a prendere sonno mi sfilano in processione dinnanzi agli occhi Salvatore Giuliano e le donne artificialmente fecondate, il colonnello Maverick e il generale Sirtori, ciascuno recando una sua parola sorda e irridente, Virginia Oldoini, Carl Solomon, Gad Dov Ygal, la testa mozza del povero Languille, Beverly ragazza di vita, Nikita Kruscev, Teseo, Arthur Sears maniaco sessuale, Peloncillo Jack, Pop operaio anziano alla catena di montaggio, John Kennedy, Percepied, i ganzi di Germaine Necker, il tarsio animale fantasma, la conferenza di Locarno, MonaMara-June e la nana della Cosmococcic Telegraph Company, Albert Budd, il socialista Vandervelde, la legge settantacinque, socialista anche quella, che chiuse le case, Ivan Grozni, la Venere ottentotta, John Whistler al vecchio ponte di Battersea, il sacrificio di capodanno, la faglia, il neutrino, Marx giovane e il Lenin dei taccuini, Sìdi-bel-Abbès, l’Ondulata Otto, Jack Andrus, l’Astronomo Reale, i Cappellani, le Corone e i Giovani Turchi armati di pistole zip, mille idee per aumentare le vendite e Leonardo da Vinci detective ad Amboise. Ciascuno di loro mi ha portato via un pezzo di fegato e tutti insieme mi hanno dannato l’anima, mi hanno stravolto perfino l’infanzia.»

Nella Vita agra il personaggio è un traduttore: e in questa «pisciata» autobiografica, c’è l’inquietudine del Bianciardi storico, della sua collocazione sociale e del nuovo ruolo dell’intellettuale come lavoratore dell’industria culturale; ma c’è anche la proiezione di un lavoro di assimilazione – integrazione di una cultura – Bianciardi traduce soprattutto letteratura anglo-americana – a un’altra: in questo passaggio si spiegano anche la continua duplicità dei personaggi dei romanzi Lavoro culturale e L’integrazione, che solo nella Vita agra, allorquando si rinuncia al progetto di distruzione del torracchione, diventano unitari. Perché la lingua maggiore – l’inglese – si è ormai acclimatata nella lingua minore italiana; perché il lavoratore-traduttore ha trovato la sua sistemazione pacifica, il suo appartamento e il suo riconoscimento. Il prezzo, però, è altissimo: la condanna al silenzio dell’amico maremmano Tacconi Otello, fornitore dell’esplosivo per l’attentato e voce degli operai della Montecatini, morti nella strage di Ribolla del 1954 che il protagonista voleva vendicare. Ma l’esplosione si trasforma, come noto, in un gioco pirotecnico (qui nella versione filmica di Lizzani):

Niente è più distante dall’ottimismo antifascista dell’impresa di Americana di Vittorini (e Pavese): se là la letteratura americana è «letteratura universale a una lingua sola» capace di trasformare chi arriva dal vecchio mondo in qualcosa di «fresco, nuovo» (Autobiografia. Americanismo non solo per dispetto, in Diario in pubblico, Milano 1957, p. 89), la traduzione in Bianciardi è uno spazio di conflitto; testimonia da dentro la “mutazione”, ne mostra i limiti linguistici. Nella lettera al professore di Grosseto Gaetano Rabiti, Bianciardi ricorda i suoi incubi come incubi di intraducibilità: «dormendo sognavo in inglese e non riuscivo a tradurre quello che avevo sognato» (vedi Corrias, Vita agra di un anarchico, Feltrinelli, diverse edizioni). Nell’immaginare il personaggio-traduttore, infinitamente in bilico tra più mondi – la Maremma dei minatori, la Milano del grattacielo e l’America di Faulkner e Kerouac – Bianciardi trasforma la lingua allo stesso tempo in un terreno di conflitto socio-culturale e in un’allegoria del mondo contemporaneo.

6. Silenzio degli esclusi e dei migranti e usi delle lingue e loro gerarchie sono evidentemente i problemi posti dalla modernizzazione, dallo sviluppo senza progresso. In questo senso, i “dialetti” plurali dei testimoni dell’indagine sulla Milano degli anni ’50 nel volume di Alasia e Montaldi, Milano Corea (recentemente ristampato da Donzelli: memorabile Vermisat, che raccoglie vermi nei fossi per vivere: Mario Brenta vi ha dedicato un film, oggi introvabile) e quelli dei testimoni de La terra del rimorso di De Martino non sono il simbolo dell’arretratezza e dell’ignoranza, ma anche una inconscia ribellione alle scelte di assimilazione che il progresso ha offerto al migrante. Mi pare che, se Pasolini resta prigioniero di una visione tipica degli anni ’50 – lo sviluppo capitalistico permetterà il successo dell’italiano, ma standardizzandolo a danno dei dialetti – prendendo le parti dei perdenti – i dialetti come resti linguistici terzomondisti – la realtà va disegnandosi in maniera più complicata e stratificata. L’italiano, cioè, sembra configurarsi anche come una lingua ospite, di frontiera, intrinsecamente minore e usata continuamente in presenza di altre lingue. Certo: disponibile anche a un uso canonico e “maggiore”, ma sempre a prezzo di una sua stortura identitaria.

Anche nel recente romanzo Adua di Igiaba Scego, che ha lungamente riflettuto sul rimosso del colonialismo nella memoria nazionale, i livelli di lingua sono distinti, e direi non mescolati, ma vissuti sul terreno del conflitto di natura storica e generazionale. Il personaggio del nonno della protagonista è un somalo che usa una lingua materna ancora priva della sua forma scritta: la lingua somala si è grammaticalizzata ed è diventata lingua ufficiale solo in epoca post-coloniale. Il processo di scritturazione del somalo avviene proprio nel momento in cui la nipote, Adua, che usa un romanesco italianizzato, arriva in Italia: qui, femmina nera, diventa oggetto di desiderio in film soft-porno. La figura-chiave di questa epopea linguistico-familiare è Zappe, il padre, traduttore dal somalo all’italiano, che si trova implicato nella guerra fascista in una posizione complessa, in bilico tra il collaborazionismo e il patriottismo, mentre il giovane marito di Adua, Titanic, migrante dell’ultimissima generazione, sembra completamente privo di identità linguistica. In questo gioco di specchi, la caratterizzazione multilingue dell’italiano si predispone a rappresentare il rapporto di dominazione nella coppia Nonno-Adua, mentre il quadro di insubordinazione è rappresentato nella posizione ambigua di Zoppe e di Titanic.

7. Grazie a questa situazione di plurilinguismo costitutivo e caratteristico che può essere considerata come una potenzialità di uso minore anche della lingua maggiore, l’italiano può essere capace di incorporare anche l’esperienza (e)migrante – dell’italiano all’estero – e l’esperienza coloniale – come rimosso di violenza – rendendo la lingua immediatamente un vettore di cambiamento sociale. Su questo piano, più interessante del pluristilismo della linea Dante – Gadda, risulta il superamento delle lingue che Joyce imposta ed elabora in particolare sull’italiano, che egli stesso conosce e pratica. Verissimo che Beckett vede nel lavoro di Joyce una possibile vicinanza con il Dante del De vulgari; ma è anche vero che il progetto del De vulgari non è quello della Commedia, come abbiamo detto. Joyce ha attivamente collaborato alla traduzione italiana di quel monumento realmente plurilingue che fu il Finnegans Wake, di cui l’autore curò anche una parziale traduzione italiana – si tratta, in fondo, di un’auto-traduzione in una lingua non materna. L’operazione si è ripetuta – in forma un po’ diversa – di recente con uno strano e affascinante libro di Jhumpa Lahiri, uscito da poco in Italia, prima in dispense, come si faceva una volta, presso la rivista Internazionale, poi in volume. Jhumpa Lahiri è una scrittrice nata a Londra ma da genitori bengalesi. Risiede a New York da molti anni. La sua scrittura è inglese, la sua lingua materna – quella dell’affetto e del latte,– è bengalese. A un certo punto, in età avanzata, Jhumpa Lahiri, dopo un lungo e talvolta interrotto percorso di apprendimento, decide di imparare l’italiano. Se ne innamora, e decide di scrivere. In altre parole racconta di questo apprendimento adulto, difficile, che è però soprattutto la volontà di trovare un’altra voce:

«In questo periodo mi sento una persona divisa. La mia scrittura non è che una reazione, una risposta alla lettura. Insomma, una specie di dialogo. Le due cose sono strettamente legate, interdipendenti.

Adesso, però, scrivo in una lingua, mentre leggo esclusivamente in un’altra. Sto per ultimare un romanzo, per cui sono per forza immersa nel testo. Non è possibile abbandonare l’inglese. Tuttavia, la mia lingua più forte sembra già dietro di me.

Mi viene in mente Giano bifronte. Due volti che guardano allo stesso tempo il passato e il futuro. L’antico dio della soglia, degli inizi e delle fini. Rappresenta i momenti di transizione. Veglia sui cancelli, sulle porte. Un dio solo romano, che protegge la città. Un’immagine singolare che sto per incontrare ovunque.»

Direi che siamo di fronte a un esempio importante di “mondializzazione” di una lingua. Il fatto che questo processo avvenga con l’italiano è, secondo me, assai significativo. Il contrasto con il francese è evidente: basta pensare a L’analphabéte, in cui Agota Kristoff racconta l’apprendimento del francese come una violenza e un percorso di difficoltà. Viene dunque da chiedersi se non ci sia uno spazio di diaspora e libertà in una cultura – quella italiana – che ha conquistato solo fragilmente un’identità monolingue-nazionale, effimero intervallo in una lunghissima storia, al contrario, spiccatamente plurilingue ed europea.

8. Roberto Esposito è tornato in più sedi a insistere sulle peculiarità specifiche del pensiero italiano della modernità (e si veda almeno Pensiero vivente): sottolineando anche, tra le altre cose, che la filosofia italiana, restando ai margini e all’esterno dello Stato-nazione, resta positivamente al di fuori del quadro concettuale a esso sotteso. Viene da chiedersi se anche la lingua non debba essere considerata sotto questo punto di vista: innanzitutto perché la filosofia, nel pensiero italiano, cerca continuamente un linguaggio diverso da quello tecnicamente filosofico. Le pagine dedicate a De Sanctis da Esposito sono esemplari, perché ne fanno emergere le antinomie, sui due piani del disegno storiografico e della tesi nazionale. Nelle pagine del grande disegnatore del paradigma storiografico della nostra letteratura nazione, è evidente, da una parte, l’emergere di Dante e Leopardi e pochi altri (Machiavelli, per esempio) come elementi luminosi su un fondo d’ombra che delinea un distacco tra letteratura e realtà / vita che è essenziale alla tradizione nazionale: questi grandi scrittori si posizionano su un terreno di incontro tra poesia e filosofia che è rappresentativo dell’estroflessione della scrittura italiana. Dall’altra parte, De Sanctis non smette mai di oscillare tra l’esplorazione entusiasta della tendenza cosmopolita degli autori italiani come elemento positivo e la sua denuncia come punto di debolezza dello sviluppo nazionale. La dialettica tra nazione e deterritorializzazione è presente anche, in maniera irrisolta nelle pagine gramsciane sul popolo italiano come popolo “mondializzato” («Il popolo italiano è quel popolo che “nazionalmente” è più interessato a una moderna forma di cosmopolitismo, non solo l’operaio, ma il contadino e specialmente il contadino meridionale.», Quaderni del carcere, q. 19, § 5) che non a caso cita anche Salza. Un’altra coincidenza inavvertita tra il pensiero di Esposito e il ragionamento di Salza riguarda i “bestioni” vichiani: per il letterato, essi vivono una tendenza alla ricostituzione del senso e della storia grazie alla unificazione linguistica; in Esposito la storia dei “bestioni” costituisce l’esempio più evidente di un pensiero italiano che, rifiutando la tabula rasa e la soggettivazione tipici della French Theory, continua a riflettere sull’origine, costituendosi come pensiero eminentemente storico.

9. In altre parole: è opportuno vagliare la concreta possibilità di una indagine sulla differenza italiana che parta anche dalla lingua e dalla letteratura. Credo che il confronto con la politica linguistica giacobina francese sia, su questo piano, decisiva, e faccia emergere una storia dell’italiano come esempio di modernità linguistica “alternativa”. La cosa non deve sorprendere, perché, com’è noto, nello spazio geopolitico variabile che il Medioevo e l’Età Moderna hanno chiamato Italia, la lingua è stato il terreno di costruzione artificiale di un’unificazione e poi di una statalizzazione “pensata” e artificiale prima che reale. Nel 1861, al varo della prima seduta parlamentare, la lingua ufficiale della principale istituzione del nascente stato italiano era ancora il francese, lingua peraltro della casa regnante, a sua volta dominatrice storicamente di uno stato frontaliero e bilingue.

Per paradosso, la nostra indagine rizomatica ha messo in discussione uno dei capisaldi di questa modernità alternativa, e cioè il pluristilismo. Mi pare di poter affermare che quello specifico contraltare del monolinguismo nazionale si sia andato esaurendo. Il punto di non ritorno può essere indicato in Petrolio di Pasolini, dove l’abiura della polifonia dei romanzi romani degli anni ’50 è anche un superamento della sperimentazione stilistica in direzione di una messa in discussione della struttura letteraria romanzesca. Non è un caso se il romanzo successivo, e in particolare quello postmoderno, sposta la sperimentazione sul linguaggio sul terreno simbolico. Nell’Umberto Eco del Nome della Rosa, l’exploit plurilingue del monaco Salvatore, ex dolciniano e quindi eretico perseguitato, non è altro che una rappresentazione ironica non priva di un sottofondo di critica sociale sull’irrapresentabilità dell’escluso: « Penitenziagite! Watch out for the draco who cometh in futurum to gnaw on your anima! La morte est supra nobis! You contemplata me apocalypsum, eh? La bas! Nous avons il diabolo! Ugly come Salvatore, eh? My little brother! Penitenziagite!!».

La letteratura contemporanea si concentra in maniera più esplicita sul contenuto della narrazione, come dimostra in maniera chiara il manifesto del New Italian Epic [d’ora in poi Nie]: quando si tratta della lingua del romanzo contemporaneo italiano, il discorso degli autori del manifesto (Wu Ming 1 e 2) si sposta sul carattere mutante dei generi letterari e del confine tra prosa e poesia. Mai si fa riferimento alla linea Dante-Gadda. Un giro di boa tra le opere contemporanee legate all’etichetta del Nie confermano che questa assenza è qui motivata non da scarsa sensibilità storiografica, ma da consapevolezza progettuale: anche quando si disarticola coscientemente il linguaggio letterario (per esempio, in Giuseppe Genna), non vengono più proposte prassi di scrittura gaddiane o post-gaddiane – l’ultimo relitto, in Italia, di tale sperimentazione sono stati i cannibali, il suo capolavoro Woobinda – ma la perfomance di una lingua «mimetica» se non esplicitamente «media». Si ritrova, in questo nodo, un recupero dell’abiura dell’ultimo Pasolini rispetto al plurilinguismo e una pacificazione con l’inquieto confine di intraducibilità praticato da Bianciardi. Non a caso, secondo Wu Ming, la «prova del nove [del Nie] è quella della traduzione», perché in fondo la lingua del New italian epic deve essere un controcanto della lingua dei media che connotano al ribasso la lingua d’uso (New Italian Epic, p. 90) in prospettiva di debunking letterario – e quindi immediatamente politico. Ciò significa che, se il New italian epic è capace – credo che lo sia, anche se non ancora esplicitamente – di esprimere la differenza italiana, questo progetto deve essere articolato all’interno di un programma anche linguistico. E un italiano “medio” può essere una lingua “ospitale” e “mondiale” a patto che mantenga memoria della sua alterità e minorità, della sua situazione di compresenza linguistica e dialettale, e della sua potenzialità contenutistica intrinsecamente politica e critica.

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Jamila M.H. Mascat vive a Parigi e insegna presso il dipartimento di Cultural Studies dell'Università di Utrecht, in Olanda. Si occupa di filosofia politica e teoretica, marxismo contemporaneo, critica postcoloniale e teorie femministe. Nel 2011 ha pubblicato Hegel a Jena. La critica dell'astrazione. Ha co-curato Femministe a parole (2012); G.W.F. Hegel, Il bisogno di filosofia. 1801-1804 (2014); M. Tronti, Il demone della politica (2017); Hegel & Sons. Filosofie del riconoscimento (2019); The Object of Comedy. Philosophies and Performances (2020); A. Kuliscioff, The Monopoly of Man (2021).
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