Nessun luogo è innocente

coney 1903

di Gianni Biondillo

 

Una volta erano le fiere di paese. Ai bordi delle città, spesso fuori dalle mura, s’installavano circhi viaggianti, bancarelle di leccornie, spettacoli di freak e violinisti zigani. Spazi periurbani invasi da un popolo di viaggiatori fantastici, portatori di novità e mistero. Michel Foucault gli aveva dato un nome: eterotopie. Non utopie, posti immaginari senza un luogo, o cronotopie, luoghi senza un tempo storico. Ma luoghi “altri”. Contestatori, sovversivi rispetto all’ordine costituito, che si stabilivano, precari, in un luogo e in un tempo ben preciso, seguendo il ciclo naturale delle stagioni.

Con la società moderna, con l’organizzazione del tempo e dello spazio secondo una logica taylorista, anche le fiere sono diventate stanziali. Là dove è nata la città contemporanea, New York, è anche nato il primo Luna Park, a Coney Island. Un posto dall’estetica precaria, come erano la fiere di paese, ma stanziale, aperto tutto l’anno al diveritimento e allo svago. La città era il contenitore del tempo occupato, del tempo del lavoro. Il Luna Park, con quel nome che già dichiarava di appartenere ad un altro mondo – quello notturno, onirico-, diventava il contenitore del tempo libero.

È passato più di un secolo da allora. Bisognerebbe avere il coraggio di scrivere una storia dell’architettura effimera, dello spazio ludico. Uno dei capitoli principali sarebbe quello di Disneyland. Ché qui non stiamo più parlando di fiere, per quanto aggiornate alla modernità. Disneyland è un esperimento più complesso e sotto certi aspetti inquietante. Non più uno spazio anarchico e tangente alla città costruita, ma una vera e propria città del divertimento, depurata da ogni scoria produttiva. Però con logiche insediative urbane: con strade, piazze, negozi. Una “città altra” che non vuole avere contatti con la realtà bruta. A pensarci è la stessa logica dei centri commerciali. Antiurbani da fuori, ma che ripropongono una divisione degli spazi interni che scimmiotta, con un gusto trash, la città che rifiutano.

Disneyland

Disneyland voleva far vivere l’esperienza di un tempo, di una storia, di una narrazione che fosse a compensazione dell’aridità della città contemporanea. Noi, qui in Europa, ci bastava girare nei centri storici per aver esperienza di una storia differente, di un passato millenario. Chi non lo aveva se l’è costruito su misura. Se il mondo della produzione imponeva dei tempi regolamentati, anche quelli del divertimento dovevano rispettarli. L’organizzazione del tempo diviene millimetrica, implacabile. Questa è una bella contraddizione: lo spazio dionisiaco, antiproduttivo, è in realtà regolato da logiche iperproduttive. Camuffata da eterotopia Disneyland è il più chiaro prodotto del capitalismo trionfante. Fa del tempo privato un affare, un commercio. Del valore d’uso, valore di scambio.

La filiera, negli anni, si raffina. Cartoni animati che diventano parchi gioco. Poi romanzi (vedi Harry Potter) che si tematizzano in spazi ludici. E, di rimbalzo, giostre che diventano narrazioni, come nel caso della fortunata serie dei Pirati dei Caraibi. L’eterotopia ha rubato spazio alla realtà. È diventata la nuova realtà, più vera del vero.

Che cosa è successo? Che la divisione del tempo produttivo è saltata. La città non conosce più le sirene delle fabbriche. Il lavoro, così come la società, s’è fatto liquido, immateriale, impossibile da misurare. Cos’è oggi “il tempo libero”? Quando passo il mio tempo sui social, convinto di usare uno strumento di uso pubblico, sono consapevole che in realtà sto producendo contenuti per una società privata, cioè che in buona sostanza sto lavorando gratuitamente per arricchire qualcun altro?

Holler

Ma se il tempo non è più regolamentato anche gli spazi non hanno più confini netti. L’arte contemporanea lo ha intuito perfettamente. Il paesaggio è il nuovo orizzonte della meraviglia. Penso ad esempio a Carsten Höller che nel Parco del Pollino installa una vecchia giostra degli anni Cinquanta in cima ad una collina. Un atto di puro straniamento. L’emozione non sta nel girare vorticosamente, ma nel godere, da quello posizione privilegiata, del paesaggio. Oppure penso a Christo, che pochi mesi fa ha fatto letteralmente camminare centinaia di migliaia di persone sulle acque del Lago d’Iseo.

floating-piers

Tutti amanti dell’arte contemporanea? Non ha importanza. Era l’esperienza fisica quella che contava. È la ragione dei parchi avventura, che richiamano migliaia di persone nei boschi a scalare alberi o ad attraversare ponti tibetani, è il successo delle teleferiche che ripropongono l’ebrezza del volo nel vuoto.

ottovolanteA fine millennio sembrava che il mondo virtuale avrebbe soppiantato quello reale. Second Life si presentava come un nuovo mondo dove chiunque doveva obbligatoriamente abitare. Oggi è un posto dimenticato da tutti. La verità è che siamo corpi. Ogni esperienza virtuale resta incompleta, monca. Viviamo in un tempo anafettivo, cresciuti in una società che ci ha infantilizzati. Cerchiamo emozioni che siano totali, in tutti e per tutti i sensi. Se il mondo reale non può darcele, se quello virtuale non ci soddisfa, torniamo a cercarle nelle eterotopie.

Io, se dovessi scegliere, resto affezionato all’estetica del luna park. I vorticosi ottovolanti mi appaiono sculture contemporanee, dinamismi futuristi, pronti ad essere smontati con una cacciavite, senza avere la prestesa di creare una città alternativa a quella reale.

Perchè poi, questo cercare emozioni al riparo dalla realtà, produce rimozioni pericolose. Non si può vivere in un luogo monofunzionale, nel paese dei balocchi, dove divertirsi è obbligatorio. Sarebbe un incubo. Nessun luogo è innocente. Nessun luogo può davvero essere sicuro. La rimozione del difforme lo rende innaturale. Ciò che scompare dagli occhi torna nell’inconscio. Non a caso il luogo del divertimento diviene, nelle narrazioni, un posto spaventoso che produce emozioni non “governabili”, non programmabili. Penso al visionario film di Michael Crichton del 1973 “Il mondo dei robot” (Westworld) dove in un parco a tema le macchine che avrebbero dovuto far divertire gli umani si ribellano (anni dopo Crichton replicherà con Jurassic Park).

mondorobot01Insomma, andiamo nei parchi divertimento per cercare le emozioni che non sappiamo più produrre da soli, le vogliamo spaventose ma allo stesso tempo “sicure”. Vogliamo che qualcuno si occupi di farci vivere le avventure che non sappiamo più inventarci da soli.

È il trionfo dell’infantilismo democratico, che fa dell’intera città un immenso parco giochi e del tempo, tutto il tempo, un infinito carnevale. I giochi di ruolo tracimano nelle strade, nelle piazze. Ogni anfratto diventa nascondiglio per la caccia al tesoro globale del geocaching, dove, grazie a un ricevitore gps, bisogna trovare un piccolo contenitore mimetizzato sotto una panchina, o su un albero. E, in questi mesi, la caccia virtuale ai mostriciattoli di Pokemon GO. Realtà aumentata e spazio reale che si incontrano, fanno uscire di casa ragazzi e adulti che vivono l’intera città come uno sterminato parco giochi, in una realtà sempre più magica, depurata, puerile. Bellissimo. Ma il mondo è più complesso, le città restano i luoghi del conflitto. Nessuna esperienza, nessuna emozione, si può per davvero mettere in sicurezza. Saremo pronti a reagire in modo maturo, quando le città – sotto i colpi dei cambiamenti sociali – ci si rivolteranno contro?

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(pubblicato in una versione più breve su Style numero 9 del settembre 2016)

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3 Commenti

  1. “ Mercoledì 17 dicembre 1997 Dovrei ricordarmi più spesso che il primo vero diario che ho scritto, cinque anni fa, si intitolava Lo stupore. Infatti il Novecento, se una cosa è, è « stupefacente », è un secolo delle meraviglie, meraviglie della tecnica, meraviglie dell’ideologia. Io mi meraviglio a ogni momento, ogni giorno, di tutto. Io mi stupisco, come in un luna park, o in un video-gioco. I mass media, la televisione, i giornali aiutano a stupirsi, fomentano lo stupore, lo alimentano instancabilmente. Per esempio gli ebrei, i lager, quei reticolati, quelle strane divise, quei corpi ammucchiati: Auschwitz – in tv qualche giorno fa -, di notte, deserto, lunare come un campo di calcio dopo (o prima del)la partita. Se il nazismo non ci fosse stato, bisognerebbe inventarselo, pensa uno come Steven Spielberg, che di stupore se ne intende. “.

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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