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La violenza fantasma – o della violenza psicologica

di Mariasole Ariot

Bisogna spegnere la violenza piuttosto che l’incendio.

Eraclito

 

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Esiste un forellino collocato nella zona occipitale : da lì qualcuno entra, s’incista come una larva, emette uova, prolifera. Questo forellino, nella lingua della psichiatria odierna, è chiamato “ferita narcisistica”. Là, il narcisista patologico, il manipolatore perverso, trova la forma adatta per inserire il piccolo marchingegno che ha fabbricato negli anni, come nel gioco dei bambini, il cubo forato – e ad ogni foro corrisponde un oggetto. L’oggetto del manipolatore è un oggetto preciso, ha bisogno del foro corrispondente per poter inserirsi con precisione.

Un breve articolo del Corriere della Sera del 2 febbraio s’intitola(va) “Anche la violenza psicologica uccide. Fermiamola ora!”. L’articolo, seppur breve, un trafiletto, illustra rapidamente i danni che la vittima di violenza psicologica può subire e invita alla luce, a far luce, alla parola, alla denuncia. Di per sé è cosa buona : non esiste, infatti, solo violenza fisica : la violenza esiste anche in altra forma, in altre forme – e le ferite invisibili all’occhio (ma rilevabili ad uno sguardo attento, che indaga oltre la superficie del visibile) possono essere talvolta anche peggiori : possono anche, in ultima istanza, condurre alla morte del soggetto che la subisce – sia essa una morte reale (spingere l’altro verso il passaggio all’atto, fino anche al suicidio), sia essa una morte di spirito, una morte psichica, una morte-in-vita.

Una morte in vita che può virare nella completa distruzione dell’autostima, nella vergogna dell’esistere, nel vissuto di indegnità, nella auto-nullificazione. L’articolo, in cui viene fornito anche un numero verde apposito, invita alla denuncia, ma non prende in considerazione un presupposto necessario da cui partire e per cui ogni possibile messa in luce o in parola delle condizioni del soggetto vittima di violenza psichica viene a cadere : perché quel soggetto , nella maggioranza dei casi, porta già le tracce, nella sua personale biografia, di altre violenze, di altri abusi (forse preistorici), o anche di vere e proprie patologie per cui è già in cura o che non ha ancora affrontato e con cui prima o poi dovrà fare i conti. La vittima non è una “vittima a caso” : è scelta accuratamente : deve avere, appunto, quel forellino in cui ci si possa introdurre.
Non è un caso che la maggior parte delle donne e degli uomini vittime di narcisisti patologici (che operano attraverso la produzione dell’angoscia nell’altro), soffrano già (o siano predisposte a) depressione, anoressia, bulimia, tossicomania, disturbi d’ansia generalizzata, autolesionismo – e la lista potrebbe continuare a lungo.

Questo particolare, che può sembrare in prima istanza trascurabile, è in realtà radicalmente influente : al cospetto di un terzo che possa ascoltare o che possa accogliere la sofferenza della vittima e – chiaramente – di fronte all’altro che la violenza l’agisce, la persona diventa “incredibile”, “increduta” : sei tu la/il malata/o! – come accade nel film Gaslight del 1944 diretto da George Cukor, in cui la luce delle lampade a gas si affievolisce, i quadri e altri oggetti spariscono per mano di Gregory, il marito di Paula, che fa credere a Paula di essere l’arteficie degli accadimenti, portandola a credersi folle, conducendola a un lento isolamento da luoghi e relazioni, e dalla relazione con i luoghi. Il titolo Gaslight è infatti tradotto in italiano con : Angoscia.

La perversione rappresenta un mettere con le spalle al muro, un prendere alla lettera la funzione del Padre, dell’Essere supremo. Il Dio eterno preso alla lettera, non già nel suo godimento, sempre velato e insondabile, ma nel suo desiderio in quanto interessato all’ordine del mondo – sta qui il principio in cui, pietrificando la propria angoscia, il perverso si installa in quanto tale.
Lacan

gaslight gif 3Questo meccanismo perverso (che di perververtimento si tratta) non solo produce doppiamente senso ed esperienze di colpevolezza e vergogna nella vittima, ma preclude ogni possibilità di essere davvero creduta, di essere presa in considerazione nel suo dire, nel suo appello – là dove ci sia ancora la forza di pronunciarlo.
Se i segni della violenza fisica (per quanto anch’essa produca nel soggetto che la subisce – specialmente se agita all’interno delle mura domestiche, non estemporanea ma perpetrata nel tempo, quotidiana – vissuti di vergogna, di automortificazione, di perdizione, di umiliazione) sono verificabili e di-mostrabili all’altro, quelli della violenza psicologica non lo sono affatto. Non c’è sangue versato, tutt’al più il sangue è coagulato in una zona scura all’interno del corpo, si annida nella testa, crea ematomi interni, sacche di dolore ammuffite nel costato. E’ allora davvero possibile che la vittima sia in grado e nelle condizioni di poter denunciare, se la vittima stessa (già “vittima” prima ancora di diventarlo), è stata prescelta proprio perché non munita degli strumenti che permetterebbero di non cadere nella trama dell’altro, nella ragnatela tessuta dal narcisista manipolatore?

La risposta vorrebbe essere: sì, è possibile. La realtà sfortunatamente dimostra il contrario. L’isolamento in cui cade (è una vera e propria caduta) il soggetto che fa esperienza di manipolazione e violenza psicologica, è un ulteriore elemento che va considerato : l’altro che agisce tende infatti ad escludere la propria vittima dalle relazioni che questa intratteneva prima di incontrarlo, cerca di sottrarla al e dal mondo – e questo per due principali motivi : da un lato, per la tendenza propria del manipolatore ad agire sull’altro attraverso istanze di potere, decidendo per lei/lui ciò che deve vivere e con chi deve vivere, dall’altro lato perché così facendo aumenta il grado di dipendenza della vittima nei suoi confronti. Il soggetto che subisce si ritrova così, paradossalmente, all’interno di un mondo in miniatura in cui il contatto avviene quasi esclusivamente con la persona che lo sta lentamente distruggendo, a credere (o illudersi) di poter vivere solo con il proprio carnefice, solo se supportato dal carneficie, al punto limite in cui l’unica persona a cui potrebbe realmente chiedere aiuto è proprio la persona da cui dovrebbe fuggire.

Tutto ciò non ha minimamente a che vedere con la formula sadismo-masochismo : la coppia narcisista manipolatore (o, per usare un termine più affine alla psicoanalisi : perverso)/ vittima non vive di quello che talvolta, con un ghigno e molta superficialità si cerca di dimostrare, e cioè che la vittima resta lì, resta nella posizione frustrante e dolorosa perché gode nel lasciarsi fare del male : la vittima di violenza psicologica non è (questo è bene ricordarlo) un masochista che ama farsi sottomettere e che ha bisogno di un sadico che compia il suo dovere. E’ portatrice – lo ripeto – di una ferita che attira, attrae e su cui il perverso può cominciare a lavorare. E’ infatti di un lavoro che si tratta, un lavoro meticoloso, talvolta urlato, talvolta messo in atto attraverso il “gioco del silenzio”, in cui tutto deve restare immobile e immutato, nulla deve scomporsi, pena la morte. Ciò che chiamo gioco del silenzio è una delle posizioni preferite assunta dal soggetto perverso : fabbricare l’angoscia nell’altro, lavorare affinché si produca angoscia nell’altro, fino al punto limite in cui – com’è noto nel mito di Narciso – l’altro si dà alla morte : anche Eco muore.

E’ una terra sconosciuta, impopolata, fatta di crani abbassati, di piegamenti sulle ginocchia, di bocche cucite, di fili sottili, di tremori notturni, di impossibilità, di nebbia, è la terra dei senza gambe, di ciglia strappate, dei portatori di vischio nelle pupille.

Partendo quindi dal presupposto che il soggetto oggetto di violenza psicologica non sia una vittima casuale ma una donna (o un uomo) con determinate e precise caratteristiche, partendo dalla constatazione che quel soggetto venga scelto non con una partita a dadi ma con una profonda (conscia o inconscia poco conta) consapevolezza, la questione del come agire, cosa fare, dev’essere rivista e rivalutata.

Si tratterebbe allora non tanto (non solo) di educare la persona che sta già subendo violenza a denunciarla, quanto piuttosto educare preventivamente a riconoscere le mosse compiute dal potenziale manipolatore prima che queste riescano – come farebbe un ragno – a tessere la ragnatela attorno alla vittima prescelta da cui questa non può o non vorrà più uscire per il timore della caduta nel vuoto e in ultimo della morte. Morte del Sé, morte della vita, caduta fuori dalla scena del mondo.

Prevenire il “cattivo incontro”, spalancare l’occhio al possibile, là dove quell’occhio è già stato ferito. Riaprire quindi la ferita non con il bisturi di chi la violenza l’agisce, ma con la cura e la grazia di chi ha gli strumenti per farlo, per poter ripulire i detriti e gli elementi putrefatti che offuscano la vista : pulviscolo biografico, strutturale.

 

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22 Commenti

  1. *La vittima non è una “vittima a caso” : è scelta accuratamente : deve avere, appunto, quel forellino in cui ci si possa introdurre*.

    Ed e carotaggio scientifico che – occhio lucido – sgrani.

    [Non a caso: Eco fu prima anoressica della storia. Pure: la voce rimane, Mariasole, anche dopo la consunzione].

  2. annaspo nel tentativo faticoso di guadagnare l’uscita da questo incubo. per ogni passo avanti mi sembra di farne tre indietro.
    la larva si è insinuata anche nel mio cervello, così subdola e latente, da provocare ora un dolore assoluto e apparentemente insanabile.
    leggere quest’articolo mi ha fatto trattenere il fiato perché so bene di cosa parla, so quanto sia difficile riuscire ad aprire gli occhi e svegliarsi da quel torpore che lentamente ti consuma.
    che ti azzera i pensieri, ti lascia incapace di reagire.
    purtroppo peggiore ancora della violenza psicologica in sé è il silenzio che sta intorno a questo problema e alle rispettabili, intoccabili, apparentemente innocue persone portatrici – malate – di questa sofferenza.
    è la paura di parlare, è la paura di non essere ascoltati, accolti, confortati. è la paura di sembrare pazzi.
    ci vuole coraggio per fare un po’ di luce in tutto questo buio.

  3. annaspo nel tentativo faticoso di guadagnare l’uscita da questo incubo. per ogni passo avanti mi sembra di farne tre indietro.
    la larva si è insinuata anche nel mio cervello, così subdola e latente, da provocare ora un dolore assoluto e apparentemente insanabile.
    leggere quest’articolo mi ha fatto trattenere il fiato perché so bene di cosa parla, so quanto sia difficile riuscire ad aprire gli occhi e svegliarsi da quel torpore che lentamente ti consuma.
    che ti azzera i pensieri, ti lascia incapace di reagire.
    purtroppo peggiore ancora della violenza psicologica in sé è il silenzio che sta intorno a questo problema e alle rispettabili, intoccabili, apparentemente innocue persone portatrici, malate, di questa sofferenza.
    è la paura di parlare, è la paura di non essere ascoltati, accolti, confortati. è la paura di sembrare pazzi.
    ci vuole coraggio per fare un po’ di luce in tutto questo buio.

    • Grazie per questa testimonianza, Elis. Più ne parliamo, più condividiamo, più la solitudine annaspa, diventa in minore (per quanto dentro laceri e continui a lacerare). Credo che il più grande passo che possiamo fare sia quello di continuare a dirne, ma soprattutto di condividere, di condividerci. Come qui, ora.

  4. Sbaglierò, ma a me sembra una lettura troppo parziale e sufficiente.
    Forse che il narciso non è prima lui vittima (magari non solo di sé stesso)?
    Il mito, poi, è tragico per entrambi i soggetti; e suggerisce l’eventualità di una trasfigurazione, di una sublimazione (anche in vita).
    Col Disincantamento del mondo, l’analisi e il metodo scientifici non possono prescindere da obiettività e onestà intellettuale, pena la Chiarezza.
    Non solo, ma una dicotomia così netta e polarizzata, così estrema e manichea, rischia d’essere perniciosa e fuorviante.

    • Sì, capisco quel che vuoi dire, Corrado. Nel pezzo “esaspero” in qualche modo le due polarità, per quanto, com’è naturale, vi siano sfumature e sfumature – e soprattutto ogni singola storia è soggettiva, mai riducibile ad un’unica forumula. Talvolta però le dicotomie o gli estremismi che cercano di fare un sunto delle molteplicità, possono – ed era questo il mio tentativo – aprire comunque un dibattito a margine, e che entri anche nelle zone interstiziali, fatte appunto di soggettività (ciò che è violenza per me potrebbe non esserlo per te, il mio “forellino nella zona occipitale” può essere diverso dal tuo, eccetera. Grazie comunque per essere intervenuto a dire ciò che pensi.

  5. Molto interessante. Urgerebbero strumenti per la prevenzione, tipo un test conto terzi, per persona da nominare. Ma se si fosse consapevoli dei pericoli di questa foggia insiti nelle relazioni ravvicinate probabilmente si potrebbe perfino farne a meno). Per esperienza non personale e spirito di osservazione comunque devo dire che raramente nel quadro di una relazione non esiste un meccanismo teso a sminuire la stima del patner. Anche se quasi mai si arriva agli estremi palesati nel post)

  6. C’è un racconto lungo di Jean Rhys in cui la giovanissima protagonista, Anna, cade nelle mani di un affascinante manipolatore, che la usa e la umilia – lei lo lascia fare, certo, ne è succube e innamorata. Molti miei studenti non perdonano la sua ‘ingenuità’: perché si fa trattare così? Perché non comincia lei a usarlo, a spillargli più soldi, ecc? Ma Anna non ha strumenti, né legami se non la dipendenza (presto comincerà a bere).
    Al centro della storia avviene un episodio: durante una passeggiata al parco Anna assiste a quello che oggi chiameremmo un atto di bullismo – un ragazzino minuto legato e preso a calci da un altro grosso e tozzo. Quando quest’ultimo si rende conto che lei li sta guardando si ferma, slega l’altro che si alza piagnucolante, e i due corrono via insieme, entrambi solidali, facendo gestacci rivolti ad Anna. Come sbarazzarsi di quella corda quando è l’unica cosa che hai (credi di avere)? Quando la tua minorità e dipendenza sembra confermare chi sei, ti fa riconoscere a te stesso/a? Tu parli di “educazione”, Maria Sole, non di terapia, e questo mi piace, mi fa pensare che si possa agire anche socialmente – creare risorse contro la violenza psicologica – non solo nel lavoro sulla psiche individuale. È davvero così o è una illusione? In un mondo di crescente idolatrie narcisitiche è una domanda lecita.

    • Cara Renata,
      è esattamente questo: “Molti miei studenti non perdonano la sua ‘ingenuità’: perché si fa trattare così? Perché non comincia lei a usarlo, a spillargli più soldi, ecc?”. Che poi è un po’ quello che qualcuno mi ha fatto notare altrove: la responsabilità è da entrambe le parti, dicono. Ora, in un legame tutti gli accadimenti vengono costruiti a due, ma : se uno spara all’altro alla gamba, e l’altro non riesce ad alzarsi, come, dove collocare la dimensione della responsabilità?
      Parlo di educazione, sì, perché solitamente la terapia è ex-post e non sempre, peraltro, conduce alla presa di distanza dall’esperienza della sofferenza traumatica che una relazione centrata sulla manipolazione può creare. Parlo di educazione perché mi interessa qui porre l’accento sulla dimensione sociale della violenza psicologica – così sotterranea e così difficilmente “parlabile”, pronunciabile, pena, appunto, la risposta del : sì, ma tu sei rimasta/o lì. Quindi è anche colpa tua. Te la sei voluta.
      E’ possibile parlare di colpe, di responsabilità, proprio là dove si verifica un annullamento dell’Altro? Quando l’altro scompare nella sua invisibilità, quali strumenti – mi chiedo e vi chiedo – può recuperare per ridarsi sembianze umane, alzarsi e andarsene? Strumenti o oggetti psichici, o anche strumenti sociali?
      In questo senso facevo riferimento all’articolo del Corriere: là dove si invita a denunciare, io vorrei si invitasse a prevenire la catastrofe (perché di catastrofe si tratta). Come farlo? Non lo so, ma credo che la possibilità che viene data, come tu hai fatto a scuola, di raccontare fatti simili, la possibilità di un confronto attivo, di testimonianza, possa dare già un grande contributo. La parola è potente, sia essa pronunciata o scritta: è necessario sfruttarne il potere, la sua pesanteur. Che sia ombra o peso, è un peso che è necessario assumersi. Ecco, forse, dove si colloca la responsabilità, non nella vittima ma nel contesto sociale: una responsabilità deterritorializzata, spostata dal centro alla periferia.

      • Anche io prima facevo parte delle persone che di fronte ad un fatto di cronaca pensava, ma perchè lei è rimasta con lui tanti anni, quando le mentiva spudoratamente la umiliava? Bene, mi sono trovata ad essere io umiliata, ingannata, dalla persona che credevo amarmi, e ho fatto la stupidità di rincorrerlo… Adesso capisco cosa provano le vittime e sento tanta solidarietà …. hanno, abbiamo bisogno di aiuto. Un aiuto che spesso la società non è in grado di darci. Preferisce condannarci, considerarci ingenue stupide, ma il problema non è legato all’intelletto, ha radici profonde, spesso un passato di abusi, che fa si che ci troviamo in un clima familiare quando abusate da chi amiamo. abbiamo un concetto distorto dell’amore che porta a giustificare, un concetto distorto di chi siamo, che ci porta a umiliarci a chidere scusa a chi ci ha accoltellato. E’ chiaro che tutto ciò non accade con il primo estraneo che incontriamo. Io in passato ho respinto immediatamente abusi verbali o fisici, ma poi arriva quella persona che sa incantarti, ti cuoce a puntino per poi ferirti all’improvviso….

  7. Esistono infatti diverse posizioni e diverse soggettività della posizione narcisistica – come diverse sono le posizioni assunte da chi vi ha a che fare o da chi ne subisce gli agiti (diverse le biografie personali, diversi i “forellini”).Quella che qui però cerco di prendere in esame è quella del narcisismo patologico (o maligno, appunto), della perversione, di un certo sadismo, della manipolazione affettiva. Tratti che non sono affatto distintivi o dati per scontato nel narcisismo in genere, ma che quando sono presenti possono provocare nella persona/nelle persone che vi stanno accanto non solo disorientamento, ma automortificazione, paura, angoscia.

    • Buongiorno Mariasole
      scrivo qui un paio di associazioni accese dalla lettura dell’articolo. La prima è il termine “co-dipendenza”, nato per indicare le coppie formate da almeno un dipendente patologico ma con dinamica non tanto dissimile da quella descritta nel testo. In fondo, queste donne (più numerose degli uomini, ahi ahi) vivono una sorta di altalena che fornisce anche un certo quantitativo di emozioni forti apparentemente positive per poi precipitare – appunto – nelle da te citate automortificazione ecc. Se no non si spiega il motivo dell’impantanarsi in relazioni “come sopra”, pur essendo queste persone ferite e doloranti nell’anima, ecco. La seconda associazione è un libro che ho trovato utilissimo durante gli studi e che oggi continua ad apparirmi come riferimento per articoli e scritti (anche se il mio orientamento è junghiano) Louise J. Kaplan, Perversioni femminili – Le tentazioni di Emma Bovary. Da questo testo di matrice psicoanalitica è stato tratto un film che ritengo assai valido, molto potente (anche nel modo di rappresentare “l’Animus negativo” – per dirla sempre con Jung). L’attrice principale è Tilda Swinton. Stupendo! Avevo il VHS, devo vedere se lo trovo in streaming…

      • Grazie, Valeria, per la precisazione sulla co-dipendenza e per l’aggiunta dell’altalena emotiva a cui, in effetti, non ho accennato. Sicuramente esiste, specialmente nei primi stadi della relazione. Poi, mi dirai se concordi o meno, quell’altalena comincia a non avere più alti ma solo bassi. Non ho accennato nemmeno al momento della “presa”, di come l’altro “prenda” l’altro, della fase del corteggiamento assiduo, o di gentilezze e idolatrie portate all’eccesso (le stesse che poi scompariranno e si ribalteranno nel loro opposto). Rispetto al suggerimento letterario e filmico, cercherò i riferimenti.
        Grazie ancora, Mariasole
        p.s. Sì, la maggior parte sono donne. Ho volutamente cercato di parlare sia di donne che di uomini perché l’articolo voleva essere centrato sulla violenza psicologica in generale, nel tentativo di esaminare alcune dinamiche che possono essere messe in atto indipendentemente dal sesso delle persone che ne sono coinvolte. Nel forum che ho segnalato nei commenti, vi sono, seppur in minoranza, anche molte testimonianze maschili (di uomini vittima della manipolazione di donne).

        Una cosa ancora, mi preme dire a margine: spesso viene detto – ed è stato detto anche qui dentro e più massicciamente all’interno di facebook – che la dicotomia carnefice/vittima è da superare. Che “la colpa non sta mai da una sola parte”. Ecco, qui mi permetto di fare un appunto, o porre/porvi una domanda: perché di fronte alla violenza fisica siamo ben in grando di distinguere chi ha fatto del male a chi – e accusare prendendo posizione – e di fronte alla violenza psicologica qualcosa di noi arretra, come a dire “si, ma le cose non stanno proprio così, sì, ma esiste la responsabilità dell’altro, si, ma l’altro non è solo vittima eccetera”. Perché di fronte a questo particolare tipo di violenza abbiamo tutti così tanta difficoltà ad accettare che esista davvero una dinamica di potere tale da poter identificare, eventualmente, anche un carnefice distinguendolo dalla vittima-che-ne-è-vittima? Come dici tu: il fenomeno della co-dipendenza. Vero. Eppure, come uno stupro è uno stupro, la violenza psicologica è violenza psicologica, la manipolazione è manipolazione. Le sfumature sono moltissime, è chiaro, ma c’è anche qualcosa che si ripete, che si ritrova ripreso con lo stampino nelle storie di chi ha vissuto questo tipo di esperienza. C’è un dato oggettivo. Io credo che se non si affonda il discorso anche su quell’oggettività – dell’esistenza di quel tipo di violenza -, se si arretra tentando di salvare il salvabile, il discorso si ripiega su di sé, ed evapora.

        • La violenza non va mai ignorata, Mariasole, perché è un fatto pervasivo e di Natura, contro cui lo Spirito tenta gli argini dell’etica e delle leggi. Molto spesso è difficile dirimere il nesso di causa/effetto, pesare le singole azioni (e non azioni) e responsabilità. Laddove il caso appaia più eclatante, sembrerebbero sorgere meno difficoltà di analisi e di giudizio. Tuttavia, l’argomento è molto delicato (e nel contempo stimolante), e merita la dovuta attenzione. Ma non credo si possa andare troppo per il sottile (almeno non sempre). Insomma, io credo che la “cura” migliore sia la prevenzione. La cosa migliore e più auspicabile per una società civile sarebbe quella di educare e preparare per tempo i singoli alla “difesa” del sé. Non dovrebbe essere utopia, ma sogno concreto. Ps. ma ti sei cancellata da fb? (ci tenevo a quegli interventi)

          • Caro Corrado,
            sì, mi sono disattivata da facebook per un po’. Bisogno di “ripulirmi”, ma tornerò.

            Insomma, io credo che la “cura” migliore sia la prevenzione. La cosa migliore e più auspicabile per una società civile sarebbe quella di educare e preparare per tempo i singoli alla “difesa” del sé. Non dovrebbe essere utopia, ma sogno concreto.

            Già, Corrado, non dovrebbe essere utopia. Credo comunque che anche con una dovuta prevenzione ed “educazione sentimentale”, resti comunque un resto: un cattivo incontro (come lo definisce Lacan) resta pur sempre un cattivo incontro, in cui purtroppo possiamo incappare tutti. Se le difese sono buone e solide, si riesce ad operare voltando le spalle, per spostamento. Se le difese sono troppo basse (e magari nonostante una buona formazione, educazione, prevenzione) per fattori strutturali (in senso psichico) e biografici, là il gioco è fatto. A quel punto si tratta di ritrovare le forze per chiedere aiuto, cosa che spesso non viene fatta. E non sempre, se il passo viene fatto, l’aiuto lo si trova davvero. Altra strada alternativa è quella di tenere alta la soglia di attenzione continuando a parlarne e a interrogarci in merito. Il confronto, per vittime di persone abusanti, può essere un grosso aiuto: dice innanzitutto che non si è soli.
            Peraltro, pensando all’autoaiuto o ai gruppi di confronto e psicoterapici, mi viene in mente ora che anni fa parlai con una dottoranda che stava lavorando ad una ricerca sul campo proprio all’interno di un gruppo di uomini maltrattanti. Un gruppo, quindi, non di vittime, ma di chi cercava di uscire dalle proprie tendenze violente e manipolatorie. Se non sbaglio si trovava a Firenze.

        • Sono d’accordissimo. Si tratta solo di prendere coscienza delle dinamiche che ci hanno fatto cadere in una certa trappola proprio per imparare dalla nostra stessa storia, per renderci, appunto, coscienti. Non si tratta di renderci “colpevoli” se siamo vittime di violenza psicologica. Certamente possiamo però, con debito allenamento, imparare a cogliere segnali in anticipo e a non ricadere per coazione a ripetere in nuove storie simili. La coscienza di noi stessi/è è l’unica arma per combattere le illusioni e gli inganni. Ma vittime siamo, se l’altro è il carnefice. Analizzando però le ombre che si muovono nel profondo, scopriamo una multiformità di volti e voci che ci abitano. Finché tra queste non vediamo anche i carnefici interiori difficilmente vedremo quelli fuori. Concordo con te anche sul primo punto: l’altalena, a lungo andare, offre ben pochi godimenti… speriamo che in molti casi questa sofferenza possa essere utilizzata per chiedere aiuto o sostegno… un saluto e grazie per il tuo bell’articolo!

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mariasole ariothttp://www.nazioneindiana.com
Mariasole Ariot ha pubblicato Essendo il dentro un fuori infinito, Elegia, opera vincitrice del Premio Montano 2021 sezione opera inedita (Anterem Edizioni, 2021), Anatomie della luce (Aragno Editore, collana I Domani - 2017), Simmetrie degli Spazi Vuoti (Arcipelago, collana ChapBook – 2013), poesie e prose in antologie italiane e straniere. Nell'ambito delle arti visuali, ha girato il cortometraggio "I'm a Swan" (2017) e "Dove urla il deserto" (2019) e partecipato a esposizioni collettive.  Aree di interesse: letteratura, sociologia, arti visuali, psicologia, filosofia. Per la saggistica prediligo l'originalità di pensiero e l'ideazione. In prosa e in poesia, forme di scrittura sperimentali e di ricerca. Cerco di rispondere a tutti, ma non sempre la risposta può essere garantita.
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