Storia di alberi e della loro terra: Matteo Melchiorre

di Francesca Fiorletta

In uscita per Marsilio il 28 settembre, Storia di alberi e della loro terra è un testo narrativo, tra autobiografia e non fiction, di Matteo Melchiorre [autore vincitore del Premio Rigoni Stern e del Premio della Montagna Cortina d’Ampezzo, con il saggio La via di Schener] che racconta di una generazione sempre pericolosamente in bilico fra il radicamento e lo sradicamento delle comunità, e lo fa con un linguaggio fresco, pungente e vivo, proprio come la materia stessa delle sue elucubrazioni, la natura (umana).

Di seguito, un estratto.
Buona lettura

 

11.

A Tomo, tra gente di Tomo, si usa il dialetto e non l’italiano. Ci sono alcune parole e una cadenza della parlata più stretta, fitta di vocali chiuse e di aspirazioni delle consonanti gutturali, che si possono cogliere come «tomitane». Ma questo non differenzia il nostro dialetto da quello dei paesi vicini. I più vecchi del paese usano un linguaggio più stretto, mentre la generazione cui appartengo io parla un dialetto italianizzato dalla televisione, dalla scuola e dalle letture. Per indicare il marciapiede che gira intorno a casa noi diciamo marciapié ma i vecchi dicono salìsio. Su all’Alberón ci sono dialoghi in dialetto, in tutte le varianti. Trascriverli è laborioso, ma ancora più complicato è leggerli e comprenderli; del resto il dialetto di Tomo è una lingua parlata e non scritta. Per questo do conto dei dialoghi che si svolgono intorno all’Alberón in italiano. Come in ogni traduzione, se ne perde in termini di ritmo e di eloquenza e la verità, racchiusa nelle parole dette, sfuma.

12.

Questi che sono qui adesso hanno parlato dell’albero ancora cinque, dieci minuti; poi hanno cominciato ad andarsene più o meno nell’ordine in cui erano arrivati. Non partono mai tutti insieme, ne resta sempre almeno uno di guardia alla spoglia.
Fanno manovra con la macchina o rimettono le mani in tasca e vanno via.
Capita una signora di Tomo, classe 1921, nonna di un ragazzo che conosco. Gira intorno all’albero a passi veloci. Guarda e non guarda, comunque sorride. Si ferma giusto per salutarmi e per sistemarsi uno scialle bordò. Domando se ha visto l’Alberón e mi risponde: «Non l’avrò visto secondo te!». Riparte subito. Dice che ha fretta, deve «correre dietro al sole prima che vada giù» e prendersi il poco caldo di questa giornata.

13.

Sulla strada sterrata che viene all’Alberón dal cimitero si avvicina un uomo che corre, in felpa, pantaloncini corti e scarpe da ginnastica sporche di fango. Non è di Tomo. Ogni tanto l’ho incrociato mentre sale in corsa, con un ritmo micidiale, le Rive di Tomo. Visto l’albero, rallenta e si ferma; stoppa il cronometro da polso. Mi chiede quando è venuto giù l’Alberón. Adesso sono io quello che spiega. Racconto l’accaduto, dicendo del vento, delle radici marce e del bissón, che l’ha mangiato dall’interno per chissà quanti anni.

14.

È chiaro che si sta formando un altro gruppo e preparando un’altra messa. Un uomo con i capelli bianchissimi, di Tomo, e un suo nipote di cinque o sei anni stanno salendo il pendio e una macchina bianca, lungo la strada, ha rallentato e messo la freccia per girare in su. Arriva prima la macchina, scende una ragazza di Tomo che viene verso di me. Guardando l’albero e scuotendo la testa fa la voce triste. Il corridore sta già esplorando il buco del bissón e l’uomo che saliva dal pendio si è messo a parlare con lui. Dice al podista foresto che, a saper guardare, si vedeva chiaro che l’Alberón avrebbe retto per poco, troppi fulmini lo avevano colpito e troppe poche foglie in primavera. Intanto il bambino dà pugni innocui alla carcassa ma, visto il mio cane, fa per corrergli incontro. Io accorcio il guinzaglio e dico al cane: «Atena, buona!»; il nonno ferma il nipote e se lo tira in braccio. Il corridore chiede se non si poteva far nulla per guarire l’albero. Mentre gli dice che l’albero era ormai terminale, il nonno alza il nipote e lo mette sul tronco. Lo controlla da sotto con le mani aperte.
La ragazza, verso il bambino: «Ma che grande che sei!». Il bambino sorride.
Il corridore saluta, riavvia il cronometro e parte, già a buon ritmo.

15.

Arriva uno, mi sembra sia un contadino in pensione, montato su una vespa azzurra con parabrezza. Viaggia sempre tenendo il suo bastone appoggiato al braccio, dalla parte della frizione. Parcheggia, si appoggia al bastone, tira una bestemmia e viene avanti.

16.

Il pellegrinaggio continua con lo stesso andazzo. Arrivano specialmente in macchina, a piedi pochi, solo i più anziani: non so se per timore che il tempo giri di nuovo in pioggia o perché da Tomo-piazza a Tomo-Alberón la strada è troppo lunga.
Quelli che passano in macchina, lungo la strada Tomo-Porcen, vedono l’albero a pancia in su e un mucchio di gente che gli gira attorno. Naturale che mettano la freccia, scalino in seconda e girino su.
Stanno intorno all’Alberón. Lo guardano, lo misurano camminando intorno alla chioma, si confrontano con la pianta. Fanno piazza e parlano. C’è sempre uno più esperto, che sa di più e sermoneggia. Quando il più esperto se ne va, un altro prende il suo posto, ripetendo quello che si ricorda di ciò che ha appena sentito e aggiungendo di suo.
Sono andati avanti così no a notte. Alla fine, nel verde del prato intorno all’Alberón, le manovre dei pellegrini hanno inciso linee di fango dritte e curve. Come nei parcheggi delle sagre.

17.

Quasi a mezzanotte, ho visto gli abbaglianti di una macchina puntati sull’albero. La luce rossa dei fari posteriori mi sembrava quella di una Punto.

 

 

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