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Remain in Light

di Gianluca Veltri

“… Seen and not seen degli amatissimi Talking Heads […] racconta di un uomo che si sente brutto (quanto lo capivo!) e allora cerca, magicamente, di riplasmare il suo volto dal di dentro, per semplice forza di volontà, conformandolo a un identikit di bellezza […]. E alla fine comincia a sospettare che il mondo sia pieno di persone come lui, tutte in trasformazione dal loro aspetto originario alla perfezione a cui anelano […], intrappolate come crisalidi a metà della metamorfosi dal reale all’ideale”.

Raul Montanari, “Il regno degli amici”

Nell’ottobre del 1980 una band della new wave newyorkese pubblicò un disco che rappresenta il punto più avanzato mai raggiunto da artisti bianchi (e non solo) nell’ambito dell’afrobeat. Uno di quei momenti in cui il presente è fortissimamente intriso di un passato ancestrale e al contempo è proiettato verso un futuro che i più non riescono neanche lontanamente a immaginare. È vero, i Talking Heads avevano già realizzato l’anno prima un disco rutilante come “Fear Of Music”, che si apriva con un sorprendente pezzo tribale traboccante di Africa. Jonathan Lethem, che al disco “Fear Of Music” ha dedicato un’intera monografia omonima, descrive quel pezzo, Izimbra, come “un’operazione al di fuori dello spazio, del tempo e della mente”. Già questo aveva condotto la band di David Byrne alquanto lontano dai suoi nervosi esordi, da quei suoni acidi e urbani del primo primo disco “77”. I Talking Heads erano in profonda “trasformazione dal loro aspetto originario”. Erano trascorsi solo tre anni e collaboravano da un paio di anni con Brian Eno. Ma, seppure in “Fear Of Music” le avvisaglie non mancassero, una svolta clamorosa come “Remain In Light” era difficile da pronosticare. Quando un artista o una band giungono in pochissimo tempo a risultati così distanti dal proprio punto di partenza, significa che è in atto un processo creativo ribollente in continua progressione geometrica: un laboratorio che fuma e scoppietta nel quale la curiosità inarrestabile, l’inventiva, la sicurezza di sé, il desiderio di mettersi in discussione e di intraprendere percorsi anche sconosciuti non trovano ostacoli. David Byrne era il genio incontrastato di questo laboratorio, e la ditta parallela che aveva messo su con Brian Eno aveva già prodotto un lavoro d’avanguardia come “My Life In The Bush Of Ghosts” (che, sebbene realizzato precedentemente, verrà pubblicato poco dopo “Remain in Light”). In esso – in “Bush” – i due avevano utilizzato, fuori contesto, versi di predicatori e voci di mercanti, ritagli radiofonici, suoni dal deserto e dal Medio Oriente: il risultato finale era un collage di grande suggestione, sebbene per palati piuttosto fini. Una costruzione intellettuale, una gioia per menti parlanti.

https://www.youtube.com/watch?v=GHVBaF0HopQ

Remain In Light”, che pur proviene in buona misura dalla stessa forgia, è invece una frastornante, policroma giostra di melodie e strumenti, una gioiosa macchina di ritmo che rimanda al continente africano. Senza che ciò sminuisca il suo valore – anzi – potremmo definirlo molto più fisico di “My Life In The Bush Of Ghosts”. Registrato in più sessioni, con il contributo attivo di tutti e quattro i Talking Heads – non solo Byrne, ma anche Jerry Harrison, Tina Weymouth e Chris Frantz – il disco suona come la somma ricca e strabordante di idee e contributi; come una turbina multicolore che infine miracolosamente trova l’equilibrio e l’armonia; l’accatastarsi di minimalismi che infine fanno un pienone. Otto tracce: tre su un lato, cinque sull’altro. Se proprio si vuole rintracciare una connotazione distinta tra le due facciate: la prima al fulmicotone, mozzafiato, frenetica come un inseguimento senza mai voltarsi indietro, in forma di scorribanda; una navigazione a vele spiegate; la seconda intimista e oscura, atmosferica, con degli approcci maggiormente “ambientali”. E se diverse tracce risultano come cerchi di funk martellante e frenetico, pervase da un demone ritmico iterativo, altri episodi, specie quelli finali, sembrano evocare delle traversate dentro il deserto o in un cuore di tenebra: Seen And Not Seen è un capolavoro di introspezione tribale, e la conclusiva The Overload è una solenne, tenebrosa, lentissima cavalcata notturna: la voce è ieratica, gli echi dei synth sinistri; tutto sembra provenire da un altro mondo o da un altro tempo.

I pezzi di “Remain In Light” ciascuno di essi un mondo, sono costruiti per giustapposizioni e sovra-incisioni di molteplici figure ritmiche e altrettanti frasi melodiche che si intrecciano, le une e le altre, fino a creare un’unità poliritmica e polimelodica. Non si fa fatica a pensare che Byrne & soci, durante le sessioni di registrazioni, ascoltassero a tavoletta Fela Kuti. La concezione attorno a cui ruota il lavoro dei Talking Heads rimanda pienamente al metodo del maestro nigeriano. Andatevi a riascoltare Zombie o Shuffering and Shmiling o Alu Jon Jonki Jon o Colonial Mentality di Kuti: lì troverete la culla di “Remain In Light” Nel 2014 Brian Eno riuscirà a colmare un antico rimpianto, producendo un lussuoso box set dedicato a Fela Kuti, e come si vede tutto si tiene.

È impressionante l’effetto-groove che viene creato dalla girandola delle cellule ritmiche e strumentali. Ciascun brano insiste per tutta la propria durata su una sola nota. “La maggior parte delle canzoni non aveva un giro armonico” – ebbe a dire Byrne a proposito dei pezzi del disco. “C’era un unico centro tonale che andava avanti per tutto il pezzo e degli accordi che si sviluppavano intorno a quello”. Come una goccia che si riempie sempre più e s’ingrossa fino a diventare un lago.

Il singolo, nonché pezzo di maggiore presa dell’album, con un vero e proprio ritornello cantabile, era la liquida Once In A Lifetime, fortemente giocata sulla formula del call and response tipica delle occasioni devozionali. Che Byrne fosse molto affascinato dai sermoni dei predicatori è cosa nota, del resto. E anche che andasse esplorando gli anfratti del mondo per estrarne il succo – Africa, Asia, Sudamerica. Di strato in strato, alle registrazioni originarie vennero aggiunte parti di chitarra di Adrian Belew (già con Zappa e Bowie e di lì a poco con i King Crimson); assoli del grande trombettista e ricercatore Jon Hassell, che quello stesso anno dava alle stampe proprio in coppia con Brian Eno un altro manifesto sonoro e etno-antropologico come “Fourth World Vol. 1 – Possible Musics”, e che, qualche anno più tardi, avrebbe dato un contributo imprescindibile al formidabile esordio solista di David Sylvian, “Brilliant Trees”. Eno, dal canto suo, sempre in quel 1980, sfornava il suo “Ambient 3” in tandem con Laraaji. Come si vede, succedeva tutto attorno a protagonisti ricorrenti e in un fazzoletto di tempo: siamo all’epicentro spazio-temporale di un coacervo di concezioni, intuizioni, al giro di boa del decennio in un “mondo di mutanti incompiuti”; intrappolati – per riprendere ancora le parole di Raul Montanari – “come crisalidi a metà della metamorfosi”: quella metamorfosi che sta in un cerchio tra post-new wave, ambient, world music, ricerca, elettro-etnica.

La freschezza e la permanenza negli anni di “Remain in Light” è stata confermata trentotto anni dopo dall’operazione compiuta dalla cantante del Benin, Angélique Kidjo, che nel 2018 ha pubblicato “Remain in Light”, un intero cover-album del disco dei Talking Heads, con la stessa scaletta, certificando una volta di più la vocazione ostinatamente afrobeat del lavoro di Byrne e co. Kidjo è riuscita a rendere ancora più smaglianti e preponderanti gli elementi africani del disco, accentuando ad esempio le melodie vocali che Byrne accennava nervosamente, o enfatizzando delle cellule ritmiche. Ma, insomma, era tutto già lì. Pronto per essere magicamente riplasmato.

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2 Commenti

  1. Disco fantastico, ottima recensione. Recentemente ero al concerto di David Byrne, ha eseguito dei pezzi del disco in versione hard funky da restare fulminati. Per loro, per lui, non solo il tempo sembra fermo, ma come diceva Hokusai, “verso i cento anni farò…”

    • Grazie Mauro.
      Bello, che Byrne rifaccia ancora questi pezzi, anche da solista. Mi piacerebbe molto assistere a un suo concerto, non mi è mai stato possibile.
      Ma fino a cento anni c’è tempo…

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gianni biondillo
gianni biondillo
GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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