Il “fine” di Carlo Emilio Gadda

di Giovanni Palmieri

Un titolo tra metafisica ed etica

 

In principio fu un’inchiesta di “Solaria” sulle tendenze degli scrittori con-temporanei promossa dalla rivista a partire dal numero di luglio-agosto 1931 con un intervento di Giansiro Ferrata intitolato A proposito di tendenze.[1] In seguito, nel fascicolo di settembre-ottobre dello stesso anno, Elio Vittorini partecipava al referendum solariano con uno scritto dal titolo Tendo al diario intimo.[2] Nel dicembre del 1931 fu la volta di Gadda che intititolerà il suo intervento Tendo al mio fine[3] con un evidente richiamo ironico al titolo di Vittorini. Richiesto di rispondere ad un’inchiesta, di cui probabilmente non condivideva il tema di tipo giornalistico, Gadda risponde dunque polemicamente con un titolo quasi tautologico. Ma il testo che segue questo titolo non è, come vedremo, per nulla tautologico… Del resto, è Gadda stesso in nota a segnalare l’ambiguità semantica tra il significato di «fine» come finalità e quello di «fine» come morte (RR I, 122).

Nel 1934, mutandone la funzione ma senza varianti di rilievo (se si esclude l’aggiunta delle note), Gadda ripubblicherà Tendo al mio fine come prosa di carattere proemiale nel Castello di Udine (RR I, 119-123). Anche qui, però, il testo mantiene il suo iniziale e decisivo carattere di autodafè poetico.

Il diffusissimo sintagma «tendere al Fine» o «al proprio Fine» proviene dal lessico teologico e ancora oggi indica la doverosa tendenza del fedele verso Dio, principio e fine di nostra vita. A cominciare da Agostino ma soprattutto nella Summa teologica (2 pt. I-II, 1) di Tommaso, si tratta in particolare di una tensione verso quel «fine ultimo» che è l’eternità in Dio. Ovviamente la speculazione teologica, soprattutto quella tomista, proviene a sua volta dalla rilettura cristiana di Aristotele. Parlando infatti del concetto di limite nella Metafisica (V, 17), il filosofo afferma:

 

Si dice «limite»

[…]

il fine di ciascuna cosa (appunto questo è il punto di arrivo del movimento o dell’azione, e non già il punto di partenza, quantunque talvolta siano limiti tutti e due, ossia tanto ciò da cui prende inizio il movimento, quanto ciò verso cui esso tende, vale a dire la causa finale)[4]

 

 

Anche la vita, come cosa o sostanza, si muove inevitabilmente verso il suo fine, cioè la sua fine. Non è dunque la morte che raggiunge la vita, ma è la vita che sin dal suo inizio si muove verso una morte che già con-tiene come proprio limite o fine. Se escludiamo, per un momento, il significato di «fine» come obiettivo poetico, è alla Metafisica di Aristotele che Gadda pensa quando risponde all’inchiesta di “Solaria”, o meglio è a quella teleologia biologico-evoluzionistica che in Aristotele ha alcuni suoi presupposti e che tanto appassionava Gadda. Si legga in tal senso il seguente passaggio tratto dalla Cognizione:

 

Ma il tessuto della collettività, un po’ dappertutto forse, nel mondo, e nel Maradagal più che altrove, conosce una felice attitudine a smemorarsi, almeno di quando in quando, del fine imperativo cui sottosta il diuturno lavoro delle cellule. Si smagliano allora, nella compattezza del tessuto, i caritatevoli strappi dell’eccezione. La finalità etica e la carnale benevolenza verso la creatura umana danno contrastanti richiami. Se ha ragione quest’altra, una nuova serie di fatti ha inizio, scaturita come germoglio, e poi ramo, dal palo teleologico (RR II, 573. Miei i corsivi). 

 

 

Non a caso Gadda chiuderà Tendo al mio fine proprio con un riferimento alla morte intesa in senso biologico: «Crescerà ne’ vecchi muri l’urtica: e l’erba di sopra la lassitudine mia» (RR I, 122). E la nota a «lassitudine» dice: «Lassitudine: è una interpretazione biologica della morte» (RR I, 123). Il passo citato della Cognizione rende evidente anche un altro significato del termine «fine», cioè quello di finalità etica. Nella Meditazione milanese vi è addirittura un intero capitolo dedicato ai Fini (SVP, 776-792) in cui, attraverso una specie di formula, Gadda afferma che «gli n tendono agli n+1 ma non sanno a cosa tendono, ché, se lo sapessero, gli n+1 non esisterebbero già (SVP, 783). L’io dell’uomo (n) tende dunque ad accrescere uno stato di fatto con un valore supplementare a cui non è ancora pervenuto e che non può preventivamente conoscere. È anche per questo che la vita si «devolve profonda» (RR I, 119) e insondabile. Ed è per quest’ordine di ragioni e non per genericità che Gadda ha scritto Tendo al mio fine senza specificare di quale fine si trattasse.

 

Un testo pensato da subito come proemio d’un futuro libro?  

 

È inevitabile constatare che nell’articolo solariano erano stati anticipati come possibili narrativi temi o motivi che saranno poi effettivamente sviluppati in alcune prose del Castello di Udine. Dato che l’articolo risale al dicembre del 1931, è evidente che certi temi narrativi erano già comparsi in scritti che Gadda aveva pubblicato in precedenza (è il caso della Crociera mediterranea)[5] mentre  altri potrebbero semplicemente essere stati previsti e poi  inseriti in seguito in altri testi.

Vediamo. Gadda dice infatti, a mo’ d’esempio, che nella sua opera: «I soldati, se non aranno male ai piedi, faranno la guerra» (RR I,  120) e così anticipa tutte le prose di guerra della prima parte del Castello di Udine. Analogamente scrive che «Altri disegneranno e costruiranno fortezze, come il Sangallo, o messer Michele Sanmichele, o il Buonarroti» (RR I, 121). E nella sosta crocieristica a Zara, di cui si parla nelle prose della Crociera mediterranea, lo scrit­tore ha proprio ammirato e descritto la splendida Porta di Terraferma del Sanmicheli. Andiamo avanti: loderò – dice sempre Gadda –  «il villa­no (e gli farò il verso e il canto) che recide il pàmpano all’uve» (RR I,  121). E qui, caso o non caso, non può non venire in mente La festa dell’uva a Marino (RR I, 233-244). Più oltre nel suo programma narrativo (che come nel Castello di Udine prevede un’alternanza di guerra e pace), Gadda preannuncia: «farò vedere su nave grandissimi commodori» (RR I, 121) come accadrà effettivamente nella Crociera mediterranea dove tra i protagonisti ci sarà anche il transatlanti­co «Conte Rosso». Ancora: «con me saranno li animi piegati ad amare, sofferire e indurire» (RR I, 121), scrive Gadda e qui viene in mente La fidanzata di Elio (RR I, 225-232). Infine possiamo leggere «se qualche mal odore torcerà lo stomaco a qualcheduno delli eroi, manderemo per sali ed aròmi» (RR I, 121). Allusione questa alla puzza di piedi che è motivo non marginale del Fontanone a Monto­rio. (RR I, 255-264).

Se queste coincidenze tematiche non fossero casuali, allora bisognereb-be supporre che scrivendo Tendo al mio fine nel dicembre del 1931 Gad-da avesse già in animo di ripubblicare l’articolo come prosa introduttiva d’una sua futura raccolta.

 

Dentro al testo

 

La« prefazione malvagia, fatta apposta per irritare l’Areopago» – così Gadda definirà il suo testo in una lettera a Carocci –[6] appare al lettore come un magico nastro di Moebius in cui la faccia critica della dichiarazione di poetica e la faccia creativa della messa alla prova di tale dichiarazione s’invertono continuamente. Non si tratta però di una voluta ambiguità ma di una precisa tecnica che ci rivela che la scrittura narrativa di Gadda sarà sempre sorretta da una riflessione critica o filosofica. Di fatto quell’articolo per “Solaria”, poi proemio del Castello di Udine, diverrà un principio di condotta poetica che sarà possibile ritrovare in quasi tutto Gadda. Analizziamolo in questo senso.

Il testo è costituito interamente da un elenco ragionato di propositi letterari. Il catalogo, incernierato su robuste riprese anaforiche («Tendo a», «Lodarò»), è però vivacizzato internamente da esempi e amplifi-cazioni e il motivo dominante del contrasto tra bene e male, guerra e pace, sublime e volgare, registro lirico-aulico e registro grottesco-reali-stico è presente in tutto il testo. Così com’è onnipresente la nota di sofferenza autobiografica che culmina nel finale. Non però dove Gadda allude alla morte ma piuttosto dove scrive «Seguiterò il mio cammino solitario […] e una grata sarà il termine de’ pochi miei passi (RR I, 122). Se, come ha detto all’inizio, la sua vita è un’immonda prigione, allora una grata sarà il limite della sua azione nel mondo.

Tre appaiono le tematiche dominanti, sapientemente intrecciate nell’articolo: per ordine e importanza, la prima (gnoseologica) è la tendenza alla deformazione dei temi.

 

Tendo a una brutale deformazione dei temi che il destino s’è creduto di proponermi come formate cose ed obbietti (RR I, 119 )

Era ed è la legge che custodisce ed impone l’inutilità marmorea del bene, che ignora o misconosce le ragioni oscure e vivide della vita, la qual si devolve profonda: deformazione perenne, indagine, costruzione eroica (RR I, 119 ).

 

 

La seconda tematica (etica) riguarda la tendenza a rappresentare tutti gli aspetti della vita, anche quelli meno edificanti. Lo spirito e la carne, la pace e la guerra, il sogno e la realtà e il bene e il male saranno veridicamente tutti rappresentati. Si tratta di un’esigenza onestà intellettuale e di verità. L’Areopago della letteratura dovrà farsene una ragione!

 

Sarò il poeta del bene e della virtù e il famiglio dell’ideale: ma farò sentirvi grugnire il porco nel braco: messi il grifo e le zampe dentro e sotto dal cùmulo della gianda, dirà la sua cupida e sensual fame con le vèntole balbe degli orecchi e immane gaudio di tutto il cilindro del corpo. E fremirà nel suo codino cavaturaccioli (RR I, 119).

 

La terza tematica (autobiografica) attiene agli angoscianti limiti esistenziali dentro a cui Gadda è costretto a vivere, a scrivere e a lasciare il suo segno di sangue. Non a caso nella prima nota a Tendo al mio fine, il commentatore fittizio del Castello di Udine dirà dell’autore : «Il Ns. […] devolve la pagina ad espressione lir[ica] della propria amarezza» (RR I, 122).

 

Umiliato dal destino, sacrificato alla inutilità, nella bestialità corrotto, e però atterrito dalla vanità vana del nulla […] (RR I, 119 )

 

Tendo a dare di questa devoluzione [la vita che scorre] un segno, tenue e forse indeci-frato algoritmo in sul marmoreo muro della legge, della virtù e dell’inutilità veneranda […]. Quella che le cantatrici e i loro aiuti sogliono chiamare la vita è stata per me una immonda prigione: la mia giovinezza, secondo il detto del poeta, una tenebrosa tem-pesta; e quello che sogliono chiamare il bene, è stato il muro del carcere e la bontà della tomba. (RR I, 119 )

 

 

In un certo senso è stato Gadda stesso in questo testo a parlarci per primo, e in modo esemplare, della sua poetica antipocrita e del suo stile “espressionista” giocato sulla deformazione tematica, sui contrasti tonali e sulle contaminazioni di generi, linguaggi e registri. Qui a livello grafico-fonetico possiamo osservare tutta una serie di apocopi arcaicizzanti di preposizioni come a’ per ai, ne’ per nei, de’ per dei e anche alcune preposizioni senza ellissi come della Italia. Parimenti arcaiche o latinizzanti saranno alcune grafie come miaulare, satisfare, lodarò, armiragli per ammiragli, discriverò, il fummo, imagini ecc., oppure l’uso di articoli arcaici come li scrittori, li eroi ecc. Frequente è anche l’uso di morfemi arcaico-toscani come arà, chiamorno per chiamarono, proponermi per propormi ecc. Ma una leggera toscanizazione (vezzo amato da Gadda), implicitamente ironica, si fa sentire in quasi tutto il testo.

Il lessico oscilla tra molti aulicismi (devoluzione, grifo, pampano, germini, boreal, mescerò, fiata, musici, spica, lassitudine ecc.) e rari  plebeismi ( femmine  […] sgravate, bagasce).

La sintassi, di volta in volta paratattica per enumerazione o ipotattica per accumulazione, trova in diffusissime microanafore la sua struttura ritmica portante. Il passaggio comico-grottesco del «porco in braco», prima citato, sarà interamente sotto al segno di Dante. Non solo per la definizione suina degli iracondi in Inferno (VIII, 50) ma anche per la bella metafora «vèntole balbe degli orecchi» dove l’aggettivo balbe per balbuzienti è di ascendenza dantesca. Il contrasto più ravvicinato tra sublime e umile, articolato in due parti, si trova però poco dopo:

 

 

Conterò sogni e chimère, come, sospinta dal vèspero, si deforma la rosea nube del cielo: e conterò li sputi e catarri de’ cittadini nostri e saranno per avventura passato trenta nel quadro d’un piede. Discriverò architetture, colonne e finestre e talora sospingerò l’ardire mio e la fantasiosa vena infino a imaginare che le serrande chiùdino e le maniglie servino a chiudere (RR I, 121)

 

Se al di qua del testo, la tensione permanente verso un fine o una meta rivela in Gadda la sua ansia di perfezionismo e dunque la tendenza al non finito, all’inconcluso, al di là del testo tale tensione appare come il desiderio di varcare tutti i confini, oltrepassando la dimensione umana per approdare infine ad un altrove metafisico.

 

 

ABBREVIAZIONI BIBLIOGRAFICHE

 

RR I = Carlo Emilio Gadda, Romanzi e racconti I, a cura di Raffaella Rodondi , Guido Lucchini ed Emilio Manzotti, Garzanti, Milano 1988

RR II = Carlo Emilio Gadda, Romanzi e racconti II, a cura di Giorgio Pinotti, Dante Isella e Raffaella Rodondi, Garzanti, Milano 1989

SVP = Carlo Emilio Gadda, Scritti vari e postumi, a cura di Andrea Silvestri, Claudio Vela, Dante Isella, Paola Italia e Giorgio Pinotti, Garzanti, Milano 1993

 

NOTE

[1] Giansiro Ferrata, A proposito di tendenze, in “Solaria”, VI, n. 7-8, 1931, pp. 52-54.

[2] Elio Vittorini, Tendo al diario intimo, in “Solaria”, VI, n. 9-10, 1931, pp. 48-51.

[3] Carlo Emilio Gadda, Tendo al mio fine, in “Solaria”, VI, n. 12, 1931, pp. 46-51.

[4] Aristotele, Metafisica, tr. it e cura di Antonio Russo, Laterza, Bari 1973, p. 156. Miei i corsivi.

[5] Su “L’Ambrosiano” Gadda ha pubblicato Tirreno in crociera (1 agosto 1931), Dal Golfo all’Etna (6 agosto 1931), Tripolitania in torpedone (13 agosto 1931), Sabbia di Tripoli (21 agosto 1931) e Approdo alle Zattere (24 agosto 1931).

[6] In Lettere a Solaria, a cura di Giuliano Manacorda, Ed. Riuniti, Roma 1979, p. 507.

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